Il p. Vincenzo Marchese

Ermenegildo Pistelli

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Questo testo fa parte della rivista Archivio storico italiano, serie 5, volume 7 (1891)
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IL P. VINCENZO MARCHESE




Della vita di Vincenzo Marchese poco è da dire, perchè passò tutta semplice e quieta tra gli studi prediletti, nel raccoglimento del chiostro. Nacque a Genova il 24 aprile del 1808 da Teresa Malagamba e Luigi Marchese, commerciante onesto ed agiato, e, a’ suoi giorni, commediografo di qualche nome1. Studiò prima nel Seminario di Siena, poi nel Ginnasio di Genova, dove ebbe maestro, tra gli altri, Giambattista Spotorno; e insieme cogli studi letterarii, attese anche a quelli del disegno nell’Accademia di Belle Arti. Resosi domenicano a diciotto anni, studiò e insegnò in vari conventi del suo Ordine, a Roma, a Viterbo, a Città di Castello, dal 1826 al 1841; nel qual anno trasferitosi a Firenze in San Marco, si diede tutto alle ricerche storiche e artistiche e venne presto in fama per dotti lavori. Solo episodio della sua vita degno d’esser ricordato, è che fu costretto, dopo molti anni, a lasciar Firenze, dove era onorato da tutti i buoni e dove aveva pubblicato o preparato il più e il meglio dei suoi scritti. Quella sua celletta in San Marco era frequentata dal fiore dei letterati e degli artisti, che ammiravano l’umile Domenicano per l’erudizione e l’ingegno, e lo amavano per le elette doti dell’anima candidissima. Ne è testimonio, per ricordare uno dei più illustri, Pasquale Villari, il quale ne ebbe aiuti e conforti pe’ suoi studi Savonaroliani; e perciò pubblicando poi il lavoro che gli diede meritamente [p. 370 modifica]tanta fama, ringraziava il Marchese «che ci ha sempre (scriveva) incoraggiati con paterno affetto»2. Ma quei letterati e quegli artisti erano, quasi tutti, di idee e di sentimenti liberali. Il Governo toscano, così bonario e moderato prima del ’49, ma dopo la restaurazione divenuto (forse più per istigazioni straniere che per indole propria) sospettoso e pauroso, credè per un momento di scorgere nel mitissimo Domenicano non so se un settario abilmente mascherato o un Savonarola agitatore ardente; fatto è che gli intimò di lasciare gli stati granducali. Il decreto mosse a riso e a sdegno; forse, a Firenze, più a riso che a sdegno. Il Governo s’accorse presto del passo falso e si affrettò a richiamare il Marchese; il quale però, e perchè aborrente per indole da ogni intrigo e da ogni lotta, e perchè offeso nella sua dignità di cittadino onesto e di sacerdote intemerato, non volle tornare; e dal 1850 visse a Genova, nel convento di S. Maria di Castello. Costituitasi la Società ligure di storia patria, egli ne fu il primo presidente e il 19 febbraio del 1858 ne inaugurò i lavori, parlando3 del metodo e dell’indirizzo degli studi storici con molto criterio, confutando i retori «che avevano in uggia la polvere degli archivi» e mettendo in vista gli intendimenti civili e patriottici della nuova Società. Ma dopo appena un anno, per le continue e dolorose infermità onde fu sempre travagliato, dovè rassegnare l’ufficio; e lo rassegnò con un altro discorso nobilissimo, nel quale rese conto degli importanti lavori compiuti dalla Società il primo anno di vita. Dopo pubblicata nel ’60 la seconda edizione degli Scritti vari, non gli bastarono più oltre le forze per continuare negli studi storici; ma continuò sempre, per quanto potè, a lavorare, e pubblicò pregevoli scritti filosofici e religiosi. Morì serenamente e cristianamente sul finire del gennaio scorso, nella grave età di ottantatrè anni.

«Queste Memorie, le quali narrano i servigi resi dai frati Predicatori alle Arti del disegno nel giro di seicento anni, sono parte di un più vasto lavoro nel quale ci proponevamo di raccontare la storia politica, artistica e letteraria dello stesso [p. 371 modifica]Istituto»4. Cosi scriveva il p. Marchese nell’Avvertimento premesso alla nuova edizione della sua opera principale; e allo scopo accennato in quelle parole, egli veramente rivolse sempre tutti i suoi studi e tutta la sua attività. Era però un pensiero cosi ardito e così vasto, che possiamo piuttosto chiamarlo un sogno giovanile. Senza dubbio l’ingegno e l’erudizione del Marchese erano pari al soggetto, e l’opera sarebbe riuscita di straordinaria importanza, perchè la storia dei Domenicani, più di quella d’ogni altro Ordine religioso, ha relazioni strette, e di varia natura, colla storia di molte nazioni e di molte città. Ma egli non pensava quali e quanto varie difficoltà avrebbe incontrato, per essere storico libero e imparziale del Sant’Ufizio, per esempio, e dell’Inquisizione; delle quali istituzioni, benchè di per sè religiose, non può tacere la storia politica dell’Ordine Domenicano, perchè hanno avuto con la politica troppe e troppo intime relazioni. E, per citar qualche nome più famoso, avrebbe dovuto parlare non del Savonarola soltanto, ma di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella5.

[p. 372 modifica]Infatti, non potè compiere che la storia artistica; della politica, neppure un secolo di quella di San Marco, perchè «i tempi corsero tanto avversi all’opera e all’autore, che scritto il primo e appena delineato il secondo, gli fu giuoco forza abbandonare l’impresa». Cosi scriveva nel ’53; e commento eloquente a queste parole è lo sfratto da Firenze, al quale ho accennato.

Alle Memorie degli artisti domenicani il p. Marchese lavorò indefessamente più di cinque anni. Furon pubblicate la prima volta nel ’46; la seconda, ricche di molte correzioni e aggiunte, nel ’54. Son distinte in tre libri. Del primo, sono specialmente notevoli i capitoli sugli architetti del tempio e del convento di S. Maria Novella, quelli sulla vita e le opere dello scultore e architetto Fra Guglielmo da Pisa, e il Saggio sui miniatori Domenicani; del secondo la vita dell’Angelico; del terzo, quella di Fra Bartolomeo della Porta, di Guglielmo di Mercillat, del Danti e del Portigiani. Le notizie già date da altri scrittori, sono qui vagliate sempre con critica severa; e moltissimo v’è di nuovo, sempre fondato sui documenti dal Marchese stesso ricercati e studiati negli archivi pubblici e in quelli del suo ordine, i quali ultimi, per rispetto agli artisti potevan dirsi affatto inesplorati; perchè i biografi domenicani, «i quali molto copiosamente avevano scritto non pure dei maggiori teologi, ma eziandio dei più oscuri e volgari, tacquero al tutto degli artefici, che molti e valentissimi si erano educati nei chiostri medesimi»6. Certo, e l’Autore stesso lo confessa, le ricerche sono più complete per gli artisti toscani; ma è da notare che i più illustri, sì pittori che architetti, sono appunto toscani. Però, più che leggendo le «vite» dei più illustri (molte delle quali, del resto, in confronto di quelle del Vasari e del Baldinucci si posson chiamar nuove), si ha un’idea giusta dell’importanza di quest’opera dalle notizie sui più oscuri; per esempio, sugli architetti di S. M. Novella, che è una delle più belle glorie dell’Ordine dei [p. 373 modifica]Predicatori, perchè quanti lavorarono a inalzarla, architetti, soprastanti, scarpellini, muratori, tutti furon frati domenicani. Di questa bellissima fra le più belle chiese della Toscana, nel libro del Marchese, se raccogliamo le notizie dalle vite di vari artefici, abbiamo una storia completa. I lavori furon cominciati circa il 1280,7 su disegno, come è noto, di Fra Sisto e Fra Ristoro da Campi. Ma è da notare che nel 1280, o l’anno seguente, i due frati andarono a Roma. Fra Ristoro tornò, e potè continuare i lavori della chiesa, fino al 1283 anno della sua morte; ma fra Sisto restò a Roma e vi morì nel 1289. A questi successero Fra Albertino Mazzanti e Fra Borghese; ai quali è da attribuire la nave orientale, inalzata, come abbiamo dai documenti, nel 1307. Fra Giovanni da Campi e Fra Iacopo Talenti, architetti dì maggior fama, ebbero quindi la direzione; e compirono i lavori della chiesa circa il 1357. La facciata fu finita nel 1470, sul disegno di Leon Batista Alberti. Abbiamo dunque almeno sei architetti d’un opera durata quasi un secolo; e dobbiamo far parte a tutti di quella gloria che comunemente è attribuita tutta ai due primi, perchè questi, come abbiamo visto, morirono quando la fabbrica era appena cominciata. Può essere che sia vero, quello che il p. Marchese afferma più volte, cioè che il lavoro fosse sempre continuato sul concetto di Fra Sisto e Fra Ristoro; ma è assai improbabile che questi lasciassero di tutta l’opera un disegno così compiuto, che ai successori non restasse che eseguire. Così del Duomo di Firenze: il concetto è d’Arnolfo, ma nessuno oserebbe più dire, così senz’altro, che sia tutto architettura d’Arnolfo, come voleva la tradizione; poiché ora sappiamo dai documenti (prima del Guasti o non letti o letti male) quale e quanta parte avessero all’opera Giotto e Andrea Pisano e Francesco Talenti e Giovanni di Lapo Ghini. A molti, non so perchè, dispiace ancora che i documenti tolgano a qualche nome famoso parte di quella gloria che la tradizione dei secoli gli aveva data; e continuano a preferire le leggende del passato ai resultati nuovi della critica. A me pare che, almeno nel caso nostro, dovrebbero rallegrarsi, se la critica ha dimostrato che invece di un solo [p. 374 modifica]architetto o due, ve ne furono in quell’età moltissimi e tutti di genio.

Non aggiungerò altro su queste «Memorie», perchè è lavoro notissimo, e dagli storici dell’arte usato e pregiato come merita; ma non voglio lasciare due osservazioni. La prima, è che in quest’opera non abbiamo soltanto degli studi sugli artisti domenicani, ma notizie e giudizi, sempre di molto valore, e su altri artisti famosi, e sulle più gravi quistioni della storia dell’arte; e di più, son sempre opportunamente messe in vista le molteplici relazioni che la storia dell’arte ha con la storia civile, né mancano notizie letterarie di qualche importanza. La seconda è, che dobbiamo lamentare che queste «Memorie», benché accolte con tanto e meritato favore come libro storico, non abbiano però sortito l’effetto che il p. Marchese si riprometteva; ed era quello dì risvegliare nel clero l’amore agli studi delle arti del disegno.

Oltre che storico, il p. Marchese fu anche filosofo dell’arte. Delle varie teorie sul bello nell’arte, egli parla spesso in tutti i suoi scritti, e più di proposito nella lettera a Cesare Guasti «Dei puristi e degli accademici» nell’opuscolo «Sulle benemerenze di S. Tommaso d’Aquino verso le belle arti» e nel discorso «Delle arti belle considerate nelle loro attinenze con la Poesia e con la Musica». Sono, anche questi, lavori degni di molta considerazione, perchè il p. Marchese, conoscitore profondo della storia dell’arte, non speculava senza fondamento; ma anche le teorie fondava sui documenti portigli dalla storia. Ma benché queste quistioni siano dibattute da secoli, e oggi non meno vivamente, pure non è da credere che abbiano avuto un’efficacia salutare o dannosa. Se in un periodo si è curata poco la forma e l’esecuzione; se in un altro ha dominato, nel peggior senso della parola, l’accademico; se oggi tengono il campo il naturalismo e il verismo, non ne hanno colpa merito, o soltanto in piccola parte, le teorie estetiche dei filosofi dell’arte. Le ragioni del bello, astrattamente considerate, non moveranno mai, pare a me, un pittore a seguire una scuola piuttosto che un’altra: si ricerchino pure, ma sarebbe vano sperarne dei resultati pratici. Però, comunque sia, il p. Marchese ha almeno il merito d’aver saputo tenere il giusto mezzo nel definire le relazioni tra la forma e il concetto, tra il reale e l’ideale. Egli nota giustamente che anche qui, in [p. 375 modifica]fondo, siamo in presenza dell’eterna lotta tra la forza fisica e la morale, tra lo spirito e la materia. «Questa lotta, ove trattisi di religione, succede sovente tra la fede e la ragione; nella filosofia, tra l’ideale e il reale; biella politica, tra il diritto e la forza; nelle arti, fra il concetto e la forma. Nel conserto amichevole di queste due cause, è la virtù, la felicità e la bellezza. Nel tempo del conflitto, la reazione, esagerando i principii riesce alle esorbitanze, all’errore, alla ingiustizia e alla deformità. Cosi, l’esagerazione dell’idealismo in filosofia conduce allo scetticismo assoluto; e quella del realismo, mette senza meno al materialismo. Nella religione, l’esagerazione della fede, tal fiata, è a scapito della ragione, come nell’Islamismo; quella della ragione nuoce alla fede, come nel Protestantismo. Nella politica, l’esagerazione del diritto, porta difilato al socialismo e al comunismo; nella esagerazione della forza, a scapito del diritto, sta il dispotismo. Tanto avviene nelle arti. Chi è troppo inteso a coltivare e ad accrescere le potenze inventive del sentimento e dell’immaginazione, trascura facilmente lo studio del vero e trascende in creazioni bizzarre, fantastiche e false: mentre, per lo contrario, quegli che eccede nello studio del vero, va incontro di leggieri a spegnere la forza creatrice del genio, ricopia, fa ritratti...» Sono semplici pensieri; ma in tanti e tanti volumi non s’è detto di più.

Diciamo ora brevemente della storia di San Marco, della quale potè scrivere soltanto tre libri, che portano il racconto sino alla vigilia dell’Assedio di Firenze. Più che storia domenicana, questa è veramente storia fiorentina e italiana. Infatti campeggia nel primo libro la figura di Sant’Antonino, nel secondo quella del Savonarola, nel terzo quella di Giulio II. Dopo narrato come e quando i frati predicatori vennero la prima volta in Toscana, e del bene che fecero nei primi tempi portando parole di pace tra le feroci lotte delle fazioni, e della decadenza a che l’ordine venne quando si fè’ «ghiotto di nuova vivanda», parla lungamente di Sant’Antonino, che alla restaurazione e alla riforma de’ suoi ebbe tanta parte e fu «fondatore e padre del convento di S. Marco». Vinta, per l’intromissione della Repubblica, l’opposizione dei monaci Silvestrini che prima lo possedevano, i domenicani presero possesso di S. Marco nel 1436. Ma poichè la chiesa e la casa erano cadenti e non atte alla nuova famiglia più numerosa, si rifecero [p. 376 modifica]l’una e l’altra dalle fondamenta, a spese di Cosimo dei Medici e sul disegno di Michelozzo. Appena finiti i lavori, che durarono dal 1437 al 1443, e costarono a Cosimo 30000 fiorini d’oro, il beato Angelico ornò il convento dei famosi affreschi. Poi si pensò alla biblioteca, che fu ricchissima. Il primo fondo fu di un quattrocento codici, già di Niccolò Niccoli; molti altri se ne acquistarono a Siena e a Lucca. Nel 1406 quando, cacciato in esilio Piero, la Repubblica si impadroni della biblioteca Medicea, e, per le angustie in che si trovava, dei preziosi manoscritti voleva far danaro, i Padri di S. Marco, perchè quel tesoro fosso conservato a Firenze, li acquistarono; e per acquistarli, presero a prestito 2000 ducati d’oro e venderono i terreni che avevano in Pian di Mugnone. Questo fatto è tanto più degno di ricordo, quanto più è raro; come pure è degno di ricordo che la biblioteca di S. Marco fu la prima d’Italia che fosse aperta a uso del pubblico. Tornando a S. Antonino, non importa ricordare che molte notizie della sua vita, per esempio l'istituzione dei Buonomini di San Martino e le ambascerie sostenute, interessano anche la storia fiorentina; perchè tutti sanno quanto potè la carità veramente evangelica del santo pastore, in mezzo a un gregge (son sue parole) «non di pecorelle obediente, mansuete e innocente; ma di leoni superbi, orsi crudeli, lupi rapaci...» e qualcosa di peggio! Pare che le bestie dantesche nel secolo XV fossero cresciute di numero e di ferocia.

Il resto del primo libro ci conduce al Savonarola; sul quale però si è tanto scritto e discorso, che sarebbe un fuor d’opera anche soltanto accennare quel che dice il p. Marchese. Mi contenterò di ricordare quali, secondo me, sono le principali benemerenze del p. Marchese verso gli studi Savonaroliani. Quanto alle notizie biografiche, sono di molta importanza i documenti che egli pubblicò nella prima serie di questo Archivio storico con molte e dotte illustrazioni8; e nel breve racconto che fa della Vita di fra Girolamo, per ordine ed esattezza supera, senza paragone, tutti i vecchi biografi; tanto è vero, che il Villari e il Perrens e tutti gli altri venuti [p. 377 modifica]dopo, si son giovati degli studi del p. Marchese e ne hanno riconosciuto la diligenza e l’acutezza. Specialmente intorno alle cause del martirio, il primo forse a portar luce e a mettersi sulla buona via per rintracciarle, è stato il p. Marchese; poiché nei vecchi racconti quell’improvvisa esplosione d’odio contro il Savonarola era in gran parte inesplicabile. Dall’amore alla libertà venne la prima origine della persecuzione e la morte; e chi pensi quello che egli predicò o scrisse non solo di Alessandro VI, ma del Conte Galeotto Pico della Mirandola e del Re di Francia e di Lodovico il Moro, non può maravigliarsi che fosse condannato a morte chi ad uomini così potenti aveva rinfacciato i vizi gli spergiuri i tradimenti con libera parola. Merito del Marchese è anche la difesa fatta con speciale competenza e basata sui fatti, contro l’accusa mossa al Savonarola d’essere stato, per fanatismo, nemico delle arti e d’aver distrutto nei «bruciamenti delle vanità» opere di gran valore. A forza di esagerare, s’era arrivati a tal punto, che uno scrittore, ancora vivente, asseriva che neppure i dipinti del beato Angelico, s’erano salvati dalla furia distruggitrice del Frate: eppure bastava andare in San Marco per trovarli tutti e ben conservati! Il Savonarola parla nei suoi scritti dell’arte con affetto grandissimo e con alti concetti; volle che in S. Marco i conversi attendessero alla pittura e alla scultura; nel monastero di S. Caterina, fondato da donna Camilla Rucellai, si introdussero per consiglio di lui le arti del dipingere e del modellare in plastica; per affetto a lui vestirono l’abito domenicano, e i più per le sue mani, un gran numero d’artisti, alcuni dei quali, come Fra Bartolomeo della Porta, di grandissimo valore; e, finalmente, fu il Savonarola che fece vendere ai suoi frati i terreni di Pian di Mugnone per acquistare i codici della Biblioteca Medicea. I fatti son fatti e la retorica è retorica! Ma al p. Marchese dobbiamo essere specialmente grati per l’«effetto morale» che produsse la sua apologia del Savonarola; perchè l’apologia del Savonarola era l’apologia della libertà, e perchè era aspettata da tempo una voce che rivendicasse al cattolicismo le dottrine del frate, che il Rudelbach, il Meier e tanti altri avevan voluto dimostrare precorritrici di quelle della Riforma protestante. Ninno meglio del p. Marchese, innamorato della libertà e cattolico sincero, poteva riuscire a rivendicare in tutto e per tutto il nome del [p. 378 modifica]suo grande confratello; ond’egli «ottenne il plauso meritato, e l’attenzione degl’Italiani si rivolse con ardore ed entusiasmo al Frate repubblicano» il quale aveva con tanto coraggio combattuto i Borgia ed i Medici; che aveva voluto stringere l’antico connubio della libertà colla religione, riportandole ai loro veri principii; che aveva sostenuto il martirio in nome di Dio e della patria»9. Quando le passioni politiche saranno quietate, è da sperare che gli Italiani riconosceranno che del risorgimento della patria e della libertà o dell’indipendenza riconquistate, dobbiamo esser grati anche, e per non piccola parte, a molti illustri scrittori ecclesiastici: al p. Marchese, al p. Tosti, al p. Ventura, al Gioberti, al Rosmini.

Di altri scritti minori10 del Nostro, come le Conferenze [p. 379 modifica]religiose, non è qui il luogo di parlare11. Aggiungerò soltanto che il p. Marchese ha anche fama, e meritata, di scrittore elegante, e, così per la lingua come per lo stile, schiettamente italiano. È chiaro, preciso, ordinato: spesso s’innalza a vera e [p. 380 modifica]sentita eloquenza, specialmente se parla del Savonarola. Però è da notare che non sono infrequenti certe affettazioni classicheggianti del vocabolo e della frase, che fanno un po’ pesante lo stile e gli tolgono spontaneità e naturalezza. Era un difetto assai comune dei buoni scrittori di quaranta o cinquant’anni fa; ma era un difetto che nasceva dallo studiar troppo: meglio questo, di altri, forse non minori, che provengono dallo studiar troppo poco.

Il carattere e l’anima del Marchese, sono dipinti nei suoi scritti; e chi li ha lotti, gli vuol bene quanto chi lo ha conosciuto. Fu innamorato dell’Angelico e del Savonarola: dell’uno ebbe la dolcezza, dell’altro gli entusiasmi e l’ardore. Tre alti affetti (sono sue parole) lo ispirarono e lo consolarono sempre; cioè, la religione, la patria, le arti. Osservò la religione colla fede sincera e la vita intemerata; servi la patria e la onorò scrivendo in tempi servili parole di libertà; e illustrò le arti con volumi eruditi e geniali, che resteranno.

Maggio 1891.

Ermenegildo Pistelli.

Note

  1. Della vita e degli scritti di Luigi Marchese (1775-1834) scrisse con affetto, ma senza che l’affetto facesse velo al giudizio imparziale, il P. Vincenzo (Scritti vari, 2.» ediz. v. II, pp. 3-33) e ne raccolse le opere drammatiche in due volumi, pubblicati a Prato (Guasti) nel 1863. Tanto la biografia quanto la raccolta sono assai importanti come contributo alla storia del teatro italiano nei primi trent’anni del nostro secolo. Dell’ingegno di Luigi Marchese giudicarono con lode anche Alberto Nola e Augusto Ben.
  2. Villari, La istoria di G. S. (ed. del 1887) p. xxxvi.
  3. Il discorso è pubblicato nel Vol. I degli Atti della Società ligure, e in Scritti vari. II, pp. 213 segg.
  4. Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani. Le Monnier, 1854 (2.a ediz.) v. I, p. 3.
  5. Ma è certo che, se ne avesse parlato, avrebbe cercato la verità senza preoccupazioni. Molto notevole, pel giudizio che il Marchese taceva su tutti e tre quei celebri Domenicani, è questo passo della prelazione al Cedrus Libani. «Tre grandi italiani, usciti in tempi diversi da un chiostro medesimo, ebbero dolorosa la vita, dubbia e combattuta la fama, e due tra essi crudelissima la morte. Giordano Bruno, Tommaso Campanella e Gerolamo Savonarola lasciarono in forse qual fosse più grande o più sventurato. Tutti e tre instauratori o cultori di una nuova filosofia in Italia; e tutti e tre nemici d’ogni maniera di tirannide». Del Bruno poi lamenta che, a differenza degli altri due, «spezzasse i vincoli del chiostro e della fede» e seminasse i germi del panteismo; però anche del Bruno riconosce che merita ammirazione per l’ingegno e compassione per le sventure. «Ma se la storia (conclude) non potè da ogni colpa purgar la fama del Bruno, ben rivendicò quella del Campanella; e il nome di Gerolamo Savonarola, dal patibolo non macchiato, splenderà... ec.» Del Campanella parla anche nel «Saggio intorno agli antichi poeti domenicani» pubblicato negli Scritti vari. Ved. vol. II, p. 165 segg. Quanto al Bruno, non si può negare che oggi da una parte se ne sono esagerate le colpe, dimenticando che fu un grande e sventurato precursore di Galileo; dall’altra se ne sono oltre misura esagerati i meriti, col cercare nelle sue opere non so qual nuovo e completo e maraviglioso sistema scientifico e filosofico, che non c’è. Ma quando di un nome si fa «segnacolo in vessillo», di verità storica non è più da parlare!
  6. Memorie, vol. I, p. 3 dell’ediz. del ’54.
  7. La prima pietra fu posta nel 1279 dal Card. Latino Malabranca.
  8. Vedi i titoli nella nota bibliografica poco appresso.
  9. Villari, op. cit., p. XXV segg.
  10. Do qui l’elenco di quelli scritti del p. Marchese che io conosco: ma debbo avvertire che non pretendo di dare una bibliografia completa:

    Cenni storici della Beata Margherita da Citta di Castello. Foligno 1837, in 16.

    Cenni storici del Beato Lorenzo da Ripafratta e tre Lettere inedite di S. Antonino. Firenze, Le Monnier 1851.

    Cedrus Libani, o Vita di Fra Girolamo Savonarola, scritta in terza rima da Fra Benedetto da Firenze, scoperta da Stefano Audin de Rians e pubblicata, con Avvertimento preliminare e note, da Vincenzo Marchese. Ardi. Stor., v. VII App. )p. 39 segg.

    Lettere inedite di Fra Girolamo Savonarola e quarantotto documenti risguardanti il medesimo, raccolti e pubblicati, con Avvertimento preliminare e note, da Vincenzo Marchese. Arch. Stor., v. VIII p. 73 segg.

    Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani. Firenze, per Alcide Parenti 1845-46, 2 vol. in 8.°

    Le stesse, seconda edizione con giunte, correzioni e nuovi documenti. Firenze, Le Monnier 1854, 2 vol. (3.a ediz. Genova 1869-70; 4. a Bologna 1879. Traduzione inglese di Carlo Meehan, 1852).

    Scritti vari [Sunto storico del Conv. di S. Marco — Del Papa Angelico nel Medio evo e del Veltro allegorico della Divina Commedia — Prefazione alle Lettere inedite di Fra G. S. — Della vita e delle opere di Fra Benedetto Fiorentino, con un Saggio sugli antichi poeti Domenicani — Cenni storici sul Beato Lor. da Ripafr. — Sulla Storia di S. Francesco d’Ass. di E. Ghavin De Malan — Prefazione alla vita del Vasari — Commentari alla Vita di Antonello da Messina, alla Vita e alle opere di Matteo Civitali, agli scritti artistici di Leon Batt. Alberti, alla Vita

    di Gentile da Fabriano — Illustrazioni di alcuni dipinti della Galleria dell’Accad. fìorent. — Dei puristi e degli Accademici, lettera a Cesare Guasti — Storie e ritratti di S. Caterina de’ Ricci. Firenze, Le Monnier 1855, 1 vol.

    Gli stessi [ai sopra notati sono aggiunti in questa edizione: il terzo libro della storia di San Marco — Della vita e degli scritti di Luigi Marchese — Allocuzione fatta nell’essere aggregato al Collegio di Filosofia e Belle Lettere della Università di Genova — Discorso per la inaugurazione della Società Ligure di Storia Patria. — Cenni biografici di Carlo Dati. Firenze, Le Mounier 18G0, 2 voi.

    Opere drammatiche di Luigi Marchese. Prato, Guasti, 1863, 2 vol.

    Saggio di conferenze religiose ad uso dei giovani, con altri scritti per la più parte inediti questi sono: Tre dialoghi filosofici — Discorso «Delle arti belle considerate nelle loro attinenze con la poesia e con la musica» — Discorso letto alla Società Ligure di St. Patria nel rassegnare la Presidenza — Dei ritratti di Raffaello Sanzio — Del Cattolicismo nella vita sociale — Due povere cieche del secolo XIII. Racconto Genova, Tip. della Gioventù 1864, 1 vol.

    Ultimi scritti [Delle benemerenze di S. Tommaso d’Aquino verso le Arti Belle (pubbl. a parte nel 1874) — Le virtù ad una gita di piacere — Il Camposanto: pensieri — Scritti vari di Belle arti (tra i quali è notevole la risposta mandata nel 1867 al Ministro dell’Istruzione che l’aveva interrogato sulla riforma delle Accademie di belle arti) Siena, tip. S. Bernardino 1889, 1 vol.

    La storia di S. Marco e la Vita dell’Angelico furon pubblicate anche in una bellissima edizione, adorna di molte incisioni, stampata a Prato dal Passigli (Firenze, presso la Soc. Artist. 1853, 1 vol. in fol.); e così pure le illustrazioni all’Accademia di Belle Arti (1845, 1 voi. in fol.)

  11. Non posso tralasciar di ricordare lo scritto «Del Papa Angelico nel Medio evo e del Veltro allegorico della Divina Commedia » non solamente perchè in quello si conforta di buone ragioni l’opinione (che a me, del resto, par così poco probabile) che il Veltro sia Benedetto XI; ma più specialmente perché il P. Marchese è stato (credo) il primo a vedere una relazione tra il Veltro Dantesco e il Papa Angelico profetato e sperato nel Medio evo. Se questa credenza in un Papa santo restauratore e riformatore, potesse illustrarsi con documenti più numerosi di quelli trovati dal Marchese, è certo che l’opinione di chi nel Veltro ha visto un Pontefice, parrebbe più provata e sicura.