Il mestiere di vivere/1942
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | 1941 | 1943 | ► |
1942
28 gennaio.
Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno.
Ricordare una cosa significa vederla — ora soltanto — per la prima volta.
Devi creare un nesso tra il fatto che nei momenti piú veri tu sei inevitabilmente ciò che fosti in passato (26 novembre ’37, II) e il fatto che soltanto le cose ricordate sono vere (oggi, I).
10 febbraio.
Davanti al mare della Pineta, basso e notturno, passando in treno, hai visto i focherelli lontani e pensato che per quanto questa scena, questa realtà, ti riempia di velleità «di dire», t’inquieti come un ricordo d’infanzia, essa non è però per te né un ricordo né una costante fantastica, e ti suggestiona per frivole ragioni letterarie o analogiche ma non contiene, come una vigna o una tua collina, gli stampi della tua conoscenza del mondo. Se ne deduce che moltissimi mondi naturali (mare, landa, bosco, montagna, ecc.) non ti appartengono perché non li hai vissuti a suo tempo, e dovendoli poetare non sapresti muoverti in essi con quella segreta ricchezza di sottintesi, di sensi e di appigli, che dà dignità poetica a un mondo. Lo stesso devi dire per la sfera dei rapporti umani, per gli esseri umani: soltanto quelle situazioni e quei tipi che a poco a poco ti sono emersi e si sono stagliati sul fondo della tua conoscenza iniziale hanno avuto il tempo (sinora) d’incidersi nel tuo spirito e gettare quelle innumerevoli e segrete radichette di riferimenti che dànno il sangue e la vita alle creazioni. Insomma, tu non puoi volendo interessarti poeticamente a un dato paese o a una data sfera e farli vivere, se non riducendoli agli stampi (insufficienti) della tua infanzia-gioventú. Non puoi quindi sfuggire (almeno per ora) a un mondo già implicito nella tua natura percettiva, cosí come nella vita pratica non puoi sfuggire alla determinazione della tua natura volitiva, determinazione avvenuta in gran parte durante il tuo primo adattamento al mondo. Resta da vedere se, nei due campi l’attivo e il creativo, devi limitarti a scavare e comprendere sempre piú a fondo la realtà che ti è già data, o se sia proficuo affrontare continuamente cose figure situazioni decisioni a te estranee, amorfe, e dall’urto e dallo sforzo trarre un continuo potenziamento e incremento delle tue capacità. La questione è tutta se, avvenuta la prima conoscenza, si viva spiritualmente di rendita o non si possa accrescere ogni giorno il capitale. Pare evidente che, per quanto faticoso e terribile, le due vie possono congiungersi e un’esperienza infantile elaborata nella maturità sarà un diverso e novello punto di partenza.
12 febbraio.
L’arte moderna è — in quanto vale — un ritorno all’infanzia. Suo motivo perenne è la scoperta delle cose, scoperta che può avvenire, nella sua forma piú pura, soltanto nel ricordo dell’infanzia. Ciò è effetto della all-pervading consapevolezza dell’artista moderno (storicismo, nozione dell’arte come attività a sé sufficiente, individualismo) che lo fa vivere dai sedici anni in su in stato di tensione1 — in uno stato cioè non piú propizio all’assorbimento, non piú ingenuo. E in arte si esprime bene soltanto ciò che fu assorbito ingenuamente. Non resta, agli artisti, che rivolgersi e ispirarsi all’epoca in cui non erano ancora artisti, e questa è l’infanzia.
21 febbraio.
I miei racconti sono — in guanto riescono — storie di un contemplatore che osserva accadere cose piú grandi di lui.
23 febbraio.
Segue il 27 aprile 1941 — Lettura di Rousseau:
«... Il faut, à travers tant de préjugés et de passions factices, savoir bien analyser le coeur humain pour y démêler les vrais sentiments de la nature. Il faut une délicatesse de tact, qui ne s’acquiert que dans l’éducation du grand monde, pour sentir, si j’ose ainsi dire, les finesses de coeur dont cet ouvrage est rempli. Je mets sans crainte sa quatrième partie à côté de la Princesse de Clèves, et je dis que si ces deux morceaux n’eussent été lus qu’en province, on n’aurait jamais senti tout leur prix...» (vol. II, p. 221).
«... tout sentiment pénible me coûte à imaginer» (e perciò non mette rivalità, litigi, gelosia nella Nouvelle Héloïse) (vol. II, p. 93).
«On s’imaginait que je pouvais écrire par métier comme tous les autres gens de lettres, au lieu que je ne sus jamais écrire que par passion» (voi. II, p. 285).
26 febbraio.
Cfr. 4 aprile ’41. La grande arte moderna è sempre ironica, come l’antica era religiosa. Come il senso del sacro radicava le immagini oltre il mondo della realtà, dando loro sfondi e antefatti pregnanti di significato, l’ironia scopre sotto e dentro le immagini un vasto campo di gioco intellettuale, una vibrante atmosfera di abitudini fantastiche e raziocinanti che fa delle cose rappresentate altrettanti simboli di una piú significativa realtà. Per ironizzare non è necessario scherzare (come per consacrare non era necessario liturgizzare), basta costruire le immagini secondo una norma che le superi o le domini.
Ciò si vede nell’attacco iniziale delle tue cose riuscite: entri in argomento con un discorso piú ampio della favola che seguirà, avvisti questa favola con noncuranza, quasi che il tuo interesse abbracci piú largo che non sia la portata dei fatti. Conservare questo piglio e disporre tutto il racconto, fin la prima parola e le virgole, in modo che nulla vi sia di superfluo rispetto al gioco materiale dei fatti, è la tua mira. Non si tratta di digredire, ma di proiettare una nitida realtà su di un enorme schermo fantastico.
24 marzo.
Arte
«l’artiste... règle ses images d’après ce qu’il fait, j’entends d’après l’object qui naît sous ses doigts...» (p. 30).
«il faut qu’une œuvre d’art soit faite, terminée et solide... Ce qui n’est pas pris dans la masse ne peut pas orner» (p. 33).
«le modèle... est d’abord l’object et ensuite l’œuvre» (p. 35).
«toutes les fois que l’idée précède et règie l’exécution, c’est industrie» (p. 36).
«l’idée lui (à l’artiste) vient ensuite, comme au spectateur, et il est spectateur aussi de son œuvre en train de naître» (p. 37).
Tragedia
«les mouvements de nature tiennent tous un peu de la folie, surtout pour le spectateur» (p. 138).
«(dans la tragèdie) il faut que l’on sente toujours la marche des heures, et la nécessité extérieure qui presse les passions et les mûrit plus vite qu’elles ne voudraient» (p. 139). «On pourrait dire que les passions sont la matière, et le temps la forme, de toute tragédie» (p. 139).
«l’on peut tout oser au théâtre, mais non pas faire paraître avant ce qui est après» (p. 143).
«le déroulement du drame en dialogue, et la marche du temps toujours sensible, affirme assez que tout l’univers accompagne» (p. 146).
«le danger du naturel et de la vraisemblance, dans le théâtre comique, c’est que l’on s’y enferme et qu’on n’en sait plus sortir» (p. 161).
Architettura
«Car ces sculptures de cathédrales ne veulent pas étre regardées, sinon en passant. Elles sont comme effacées par le grand mouvement des lignes: l’esprit est invité à chercher un autre sens à ces choses. Ainsi déjà, par une loi supérieure, se trouve écartée l’imitation et la ressemblance...» (p. 196).
«l’ornement... la marque de l’invention et de la victoire de chaque moment, ou, si l’on veut, le signe de ces mouvements d’idées qui accompagnent la recherche et qui fleurissent de nos plus sévères pensées» (p. 200).
«le propre du style est de ne résulter jamais d’une règle» (p. 200).
Scultura
«la pure pensée est rare et d’un court moment; non point courte, car elle vaut sans durée; mais assaillie toujours, comme un promontoire» (p. 236).
«l’object de la sculpture est de représenter plutôt le véritable immobile et, enfin, au lieu de donner au marbre l’apparence du mouvement humain, de ramener au contraire la forme humaine à l’immobilité du marbre» (p. 215).
Disegno
«la ligne du dessin n’est point l’imitation des lignes de l’object, mais plutôt la trace d’un geste qui saisit et exprime la forme» (p. 276).
Prosa
«un bon écrivain ne compte jamais sur un mot» (p. 305).
«le lien de pensée est le seul soutient de la prose... Le moyen propre de la prose est donc ce que l’on appelle assez bien l’analyse» (p. 306).
«la poésie est soumise à la loi du temps... aussi doit-elle être entendue plutôt que lue... La vrai prose doit être lue par les yeux» (p. 307).
«les preuves ne sont point des raisons» (p. 313).
«le récit tout uni s’oppose à l’analyse par une marche décidée sous la loi du temps» (p. 315).
«c’est le rapport de la rêverie à l’action qui définit le roman, l’action ici donnant de la consistance au rêve, au lieu de l’abolir (come nella realtà)» (p. 321).
«le thème de tout roman c’est le conflit d’un personnage romanesque avec des choses et des hommes qu’il découvre en perspective à mesure qu’il avance...» (p. 326).
«la règle souveraine de la prose, qui est d’agir par le jugement et non par les mots» (p. 331).
4 maggio.
Nell’inquietudine e nello sforzo di scrivere, ciò che sostiene è la certezza che nella pagina resta qualcosa di non detto.
25 maggio.
Non è che il bambino viva nella fantasia (come dice Cantoni — I primitivi p. 256), ma il bambino che è in noi sopravvive e sussulta soltanto in radi momenti-ricordo, che ci fan credere — e non è vero — che fossero a loro tempo fantastici.
27 maggio.
ti sono debitore di questa lettera perché penso ti faccia piacere sentire che siamo tutti solidali con te [......]2 e tutto il pregio e il senso dell’Americana dipende dalle tue note.
In dieci anni dacché sfoglio quella letteratura non ne avevo ancora trovata una sintesi cosí giusta e illuminante. Voglio dirti questo, perché è certo che quando le tue note correranno il mondo in Piccola storia della cultura poetica americana, salterà su chi rileverà che esse sono estrose sí ma fantastiche. Ora, va gridato che appunto perché fanno racconto, romanzo se vuoi, invenzione, per questo sono illuminanti. Lascio stare la giustezza dei singoli giudizi, risultato di altrettante intime monografie informatissime, e voglio parlare del gioco tematico della tua esposizione, del dramma di corruzione purezza ferocia e innocenza che hai istaurato in quella storia. Non è un caso né un arbitrio che tu la cominci con gli astratti furori, giacché la sua conclusione è, non detta, la Conversazione in Sicilia. In questo senso è una gran cosa: che tu vi hai portato la tensione e gli strilli di scoperta della tua propria storia poetica, e siccome questa tua storia non è stata una caccia alle nuvole ma un attrito con la letteratura mondiale (quella letteratura mondiale che è implicita, in universalità, in quella americana — ho capito bene?), risulta che tutto il secolo e mezzo americano si è ridotto all’evidenza essenziale di un mito da noi tutti vissuto e che tu ci racconti.
C’è naturalmente qualche minuzia su cui dissento (La Lettera Scarlatta piú forte dei Karamazov; la Nuova Leggenda che troppo fa pendant alla prima; qualche generalità su Whitman e Anderson ecc.) ma non contano. Resta il fatto che in cinquanta pagine hai scritto un gran libro. Non devi insuperbirti, ma per te esso ha il senso e il valore che doveva avere per Dante il De Vulgari. Una storia letteraria vista da un poeta come storia della propria poetica.
4 giugno.
La composizione unitaria che cerco potrebbe essere il procedimento platonico del «discorso dentro il discorso». Nel Fedro, nel Convito ecc. succede che ogni parlata, ogni situazione, ogni gesto quasi, ha un suo senso realistico che combina col resto e fa struttura, ma anche un posto e un valore in una costruzione di senso spirituale che la trascende. Ogni situazione è là per piú di un motivo; per fare quadro realistico, per sviluppare un ragionamento, per simboleggiare una posizione mentale, per allineare blocchi di realtà spirituali che fanno quadro a loro volta. Il modo tecnico come questa soprastruttura si salda alla realtà, l'atmosfera di miracolo significativo insomma, è la continua allusione alla mania θεια e all’ignoranza socratica, l’appello sornione ai miti che sono, nell’universo mentale di Platone, ciò che per te potrebbero essere i ricordi, le radici di passato che dànno succhio e vita alle astratte sensazioni del presente rappresentato (per i ricordi cfr. 28 gennaio e 10 febbraio ’42). Intendendo come mania platonica anche l’insistenza dialettica delle analisi definitorie che sono la voce di quella ignoranza.
a luna vecchia: | a luna nuova: |
seminando i fiori vengono | |
belli e con gamba grossa |
patiti e sottili e slanciati |
abbattendo le piante saranno | |
sane | intarlate |
meno il pino che sarà | |
intarlato | sano |
facendo il bucato con la cenere sul lenzuolo verrà | |
bene e pulito | sporco — la cenere filtrerà |
potando viti e germogli sarà | |
dannoso | fruttoso |
10 luglio.
«... l’ordre, la composition de quelque nature qu’ils soient, sont un calcul de proportions, de correspondances. La fantaisie, au contraire, se libère de tout calcul, de toute loi, même discrète ou cachée, ou feint de s’en libérer. C’est pour cela que la composition n’a aucune importance dans les romans de Giraudoux...» (p. 154 — d. mornet, Introduction à l’étude des écrivains français d’aujourd’hui).
Veramente io dicevo il contrario (prefazione a David Copperfield: «la fantasia, che è costruzione pura»). Questo Mornet distingue e classifica, da pedante francese. La fantasia non è l’opposto dell’intelligenza. La fantasia è l’intelligenza applicata a stabilire rapporti di analogia, di implicanza significativa, di simbolismo. Dicevo che essa sola costruisce, perché essa sola sfugge alla tirannia del reale-tranche de vie, dell’evento naturalistico, e sostituisce alla legge del reale (che è assenza di costruzione, tanto è vero che esso non ha fine né principio) la favola, il racconto, il mito, costruzione dell’intelligenza.
Il Mornet chiama fantasia la fantasticheria, che — tranne nei casi patologici — è del resto anch’essa sempre un’istintiva ricerca di costruzione intellettuale.
2 agosto.
La noia indicibile che ti dànno nei diari le pagine di viaggio. Gli ambienti nuovi, esotici, che hanno sorpreso l’autore. Nasce senza dubbio dalla mancanza di radici che queste impressioni avevano, dal loro esser sorte come dal nulla, dal mondo esterno, e non essere cariche di un passato. All’autore piacquero come stupore, ma lo stupore vero è fatto di memoria, non di novità.
7 agosto.
Fin da principio sono avvezzo a pensare la mia poesia come trompe-l’œil, come blocco psicologico, tant’è vero che il mio stile piú ricco è la voce sintetica del protagonista, e la mia formula è «come se la cava un tale in una data situazione». Questo non solo nelle prose ma pure nei versi. Tutt’altro Vittorini, che, ignorando dantescamente il protagonista, può farne simbolo senza sforzo.
14 agosto.
Pensato sul trenino che i campi che vedevo fuggire, le cortine d’alberi, le case, i cantucci, i ricordi di altri tempi, tutto avrebbe servito a far ricordo, a far passato. Per quanto l’ora fosse banale, e in fondo annoiasse, ritrovarla un giorno non sarebbe piú stato banale.
17 agosto.
Succede che un discorso overheard sofferma e interessa e tocca a fondo piú delle parole rivolte a noi.
20 agosto.
Si dice che scrivere creando è tendere oltre ogni schema; ricerca, auscultazione della verità profonda che è in noi. Ma sovente la verità piú profonda che abbiamo è lo schema che ci siamo creato con la lenta accanita fatica e l’abbandono.
22 agosto. (a Pavone)
Le cose le ho viste per la prima volta un tempo — un tempo che è irrevocabilmente passato. Se il vederle per la prima volta bastava a contentare (stupore, estasi fantastica), ora richiedono un altro significato. Quale?
25 agosto. (a Pavone)
Quando racconti storielle o fatti, t’intrichi sempre e non sai scegliere: vorresti dire tutto: sfiducia nell’arte, speranza che accumulando ogni particolare ti riesca detto anche quello buono, che farà il point.
Ciò che piú ti è nemico, è credere all’epoca felice preistorica, all’Eden, all’età dell’oro, e credere che l’essenziale fosse già tutto detto fin dai primi pensatori. Le due cose ne fanno una sola.
30 agosto.(a Gressoney)
Amore è desiderio di conoscenza.
31 agosto. (a Gressoney)
Da bambino s’impara a conoscere il mondo non — come parrebbe — con immediato e originario contatto alle cose, ma attraverso i segni delle cose: parole, vignette, racconti. Se si risale un qualunque momento di commozione estatica davanti a qualcosa del mondo, si trova che ci commuoviamo perché ci siamo già commossi; e ci siamo già commossi, perché un giorno qualcosa ci apparve trasfigurato, staccato dal resto, per una parola, una favola, una fantasia che vi si riferiva. Naturalmente a quel tempo la fantasia ci giunse come realtà, come conoscenza oggettiva e non come invenzione. (Giacché che l’infanzia sia poetica è soltanto una fantasia dell’età matura. Cfr. 25 maggio).
4 settembre. (a Gressoney)
Si desidera fare un’opera che stupisca per primi noi stessi. (Cfr. 4 maggio).
6 settembre.
Viene un giorno che per chi ci ha perseguitato proviamo soltanto indifferenza, stanchezza della sua stupidità. Allora perdoniamo.
10 settembre.
Soltanto seguendo l’istinto, il modo d’essere iniziale, spontaneo, si può sentirsi giustificati e in pace con se stessi e la propria misura. Ma chi ha nell’istinto il dividersi in due, l’attaccar lite con se stesso?
12 settembre.
Un uomo solo, in una baracca, che mangia il grasso e la salsa da una pignatta. Certi giorni ci raschia con un vecchio coltello, certi altri con le unghie; tanto tempo fa la pignatta era piena e buona, adesso è brusca e per sentirne il gusto l’uomo si mangia le unghie rotte. E continuerà domani e dopo.
Somiglia a me, che mi cerco il lavoro nel cuore.
17 settembre.
Il capitolo Responsabilità e persona in Cesare Luporini (Situazione e libertà nell’esistenza), sistema i tuoi pensieri sull’attimo estatico e sull’unità continuata (Simbolo e Naturalità) [27 agosto ’39, 22 febbraio, 24 febbraio II, 27 febbraio ’40]. La novità di quest’oggi è che l’attimo estatico corrisponda al simbolo, che sarebbe quindi la pura libertà.
Viviamo nel mondo delle cose, dei fatti, dei gesti, che è il mondo del tempo. Il nostro sforzo incessante e inconsapevole è un tendere fuori del tempo, all’attimo estatico che realizza la nostra libertà. Accade che le cose i fatti i gesti — il passare del tempo — ci promettono di questi attimi, li rivestono, li incarnano. Essi divengono simboli della nostra libertà. Ognuno di noi ha una ricchezza di cose fatti e gesti che sono i simboli della sua felicità — essi non valgono per sé, per la loro naturalità, ma c’invitano ci chiamano, sono simboli. Il tempo arricchisce meravigliosamente questo mondo di segni, in quanto crea un gioco di prospettive che moltiplica il significato supertemporale di questi simboli.
Che è quanto dire che non esistono simboli negativi, pessimistici, o semplicemente banali: il simbolo è sempre attimo estatico, affermazione, centro.
Qui sei diventato felice! (e lo hai capito il 6 novembre ’43).
(26 novembre ’49).
26 settembre.
La situazione tragica greca è: ciò che deve essere sia. Di qui il meraviglioso dei numi che fanno accadere ciò che vogliono; di qui le norme magiche, i tabú o i destini, che devono essere osservati; di qui la catarsi finale che è l’accettazione del dover essere.
(Non accade lo stesso anche nei quinti atti di Shakespeare? E in O’Neill dove il dover essere è dato dalle leggi naturalistiche della vita?) Il poetico dei Greci è che questo destino, questi tabú, queste norme, appaiono arbitrari, inventati, magici. Forse simbolici.
Non esiste un «veder le cose la prima volta». Quella che ricordiamo, che notiamo, è sempre una seconda volta (28 gennaio dice la stessa cosa e 22 agosto risulta illusorio, 31 agosto è risolutivo).
27 settembre.
Tendenzialmente. Nella tragedia greca le persone non si parlano mai, parlano a confidenti, al coro, a estranei. È ' rappresentazione in quanto ognuno espone il suo caso al pubblico. La persona non scende mai a dialoghi con altre, ma è come è, statuaria, immutabile.
Le uccisioni avvengono fuori scena, e se ne sentono gli urli, le esortazioni, le parole. Giunge il messaggero e racconta i fatti. L’avvenimento si risolve in parola, in esposizione. Non dialogo: la tragedia non è dialogo ma esposizione a un pubblico ideale, il coro. Con esso si attua il vero dialogo.
[Di qui la povertà della tragedia classicista (francese, Alfieri) che conservando lo stile, l’assenza di fatti e l’esposizione della greca, manca del coro cioè del secondo personaggio che tiene testa a quello unico che è la somma delle altre persone].
18 ottobre.
In Eschilo il protagonista è immobile, statuario, di fronte al coro, e si muovono intorno a lui gli episodi (Supplici, Prometeo, Persiani, Sette a Tebe). Questa è probabilmente la situazione madre. Ricompare in Sofocle (Edipo a Colono) e in Euripide (Troiane, Ecuba).
L’ubris è il conoscere un oracolo e non tenerne conto. Ma è fato (oracolo) anche l’ubris. Ciò che deve essere sia. Il coro constata questo. (Ecco perché è il perenne interlocutore degli agonisti).
31 ottobre.
Tutte queste burle, questi tricks, queste witty inventions, che nel tragico sono agguati, vendette, imprese, sono la forma entro cui si agita la verità psicologica delle persone ma la superano, la incorniciano e sorreggono, in stilizzazione tra sociale e mitologica. Il wit insomma non è psicologia, è stile.
5 novembre.
Confessioni di Kierkegaard che descrivono il letterato, l’intellettuale puro: «i miei interessi non sono subordinati tutti a un singolo, ma tutti coordinati» e «ciò che mi mancò fu di condurre una perfetta vita umana, e non soltanto quella della conoscenza». Pensieri di ieri sera parlando di G. con la Romano, ritrovati stamattina in Przywara (Das Geheimnis Kierkegaards, pp. 11 e 12) per la solita coincidenza.
Prima del Romanticismo non esisteva l’intellettuale, perché non esisteva contrapposizione fra vita e conoscenza. (Questo nesso l’hai già notato una volta). Accorgersi che la vita è piú importante che il pensiero, significa essere un letterato, un intellettuale; significa che il proprio pensiero non si è fatto vita.