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stra libertà. Accade che le cose i fatti i gesti — il passare del tempo — ci promettono di questi attimi, li rivestono, li incarnano. Essi divengono simboli della nostra libertà. Ognuno di noi ha una ricchezza di cose fatti e gesti che sono i simboli della sua felicità — essi non valgono per sé, per la loro naturalità, ma c’invitano ci chiamano, sono simboli. Il tempo arricchisce meravigliosamente questo mondo di segni, in quanto crea un gioco di prospettive che moltiplica il significato supertemporale di questi simboli.

Che è quanto dire che non esistono simboli negativi, pessimistici, o semplicemente banali: il simbolo è sempre attimo estatico, affermazione, centro.

Qui sei diventato felice! (e lo hai capito il 6 novembre ’43).

(26 novembre ’49).

26 settembre.

La situazione tragica greca è: ciò che deve essere sia. Di qui il meraviglioso dei numi che fanno accadere ciò che vogliono; di qui le norme magiche, i tabú o i destini, che devono essere osservati; di qui la catarsi finale che è l’accettazione del dover essere.

(Non accade lo stesso anche nei quinti atti di Shakespeare? E in O’Neill dove il dover essere è dato dalle leggi naturalistiche della vita?) Il poetico dei Greci è che questo destino, questi tabú, queste norme, appaiono arbitrari, inventati, magici. Forse simbolici.

Non esiste un «veder le cose la prima volta». Quella che ricordiamo, che notiamo, è sempre una seconda volta (28 gennaio dice la stessa cosa e 22 agosto risulta illusorio, 31 agosto è risolutivo).

27 settembre.

Tendenzialmente. Nella tragedia greca le persone non si parlano mai, parlano a confidenti, al coro, a estranei. È rappresenta-