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24 aprile.

Bisogna aver sentito la smania dell’autodistruzione. Non parlo del suicidio: gente come noi innamorata della vita, dell’imprevisto, del piacere di «raccontarla», non può arrivare al suicidio se non per imprudenza. E poi, il suicidio appare ormai come uno di quegli eroismi mitici, di quelle favolose affermazioni di una dignità dell’uomo davanti al destino, che interessano statuariamente, ma ci lasciano a noi.

L’autodistruttore è un tipo insieme piú disperato e utilitario. L’autodistruttore si sforza di scoprire entro di sé ogni magagna, ogni viltà, e di favorire queste disposizioni all’annullamento, ricercandole, inebriandosene, godendole. L’autodistruttore è in definitiva piú sicuro di sé di ogni vincitore del passato, egli sa che il filo dell’attaccamento all’indomani, al possibile, al prodigioso futuro è un cavo piú robusto — trattandosi dell’ultimo strattone che non so quale fede o integrità.

L’autodistruttore è soprattutto un commediante e un padrone di sé. Egli non lascia nessuna opportunità di sentirsi e di provarsi. È un ottimista. Spera ogni cosa dalla vita, e si va accordando a rendere sotto le mani del caso futuro i suoni piú acuti o significativi.

L’autodistruttore non può sopportare la solitudine.

Ma vive in un pericolo continuo; che lo sorprenda una smania di costruzione, di sistemazione, un imperativo morale. Allora soffre senza remissione, e potrebbe anche uccidersi.

Bisogna osservare bene questo: ai nostri tempi il suicidio è un modo di sparire, viene commesso timidamente, silenziosamente, schiacciatamente. Non è piú un agire, è un patire.

Chi sa se tornerà ancora al mondo il suicidio ottimistico?

Esprimere in forma d’arte, a scopo catartico, una tragedia interiore, può farlo soltanto l’artista che attraverso la tragedia vissuta già andava sottilmente tendendo i suoi fili costruttivi, già svolgeva incubazione creatrice insomma. Non esiste la tempesta sofferta paz-