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zamente e poi la liberazione attraverso l’opera, pena il suicidio. Tant’è vero che gli artisti che veramente si sono uccisi per i loro tragici casi, sono solitamente leggeri cantori, dilettanti di sensazioni, che nulla accennarono mai nei loro canzonieri del profondo cancro che li rodeva. Da cui s’impara che l’unico modo di sfuggire all’abisso è di guardarlo e misurarlo e sondarlo e discendervi.

È di una desolatezza tonificante — come un mattino invernale — patire un’ingiustizia. Ciò rimette in vigore, secondo i nostri piú gelosi desideri, il fascino della vita; ridà il senso del nostro valore di fronte alle cose; adula. Mentre, soffrire per un puro caso, per una disgrazia, è avvilente. Ho provato, e vorrei che l’ingiustizia, l’ingratitudine fossero state ancora maggiori. Questo si chiama vivere e, a ventotto anni, non essere precoci.

Per l’umiltà. È cosí raro però soffrire una bella totalitaria ingiustizia. Sono cosí tortuosi i nostri atti. In genere, si trova sempre che un po’ di colpa ce l’abbiamo anche noi e addio mattino invernale.

Non solo un po’ di colpa, ma tutta la colpa, non c’è scampo. Sempre.

Che la coltellata venga tirata per scherzo, per ozio, da una persona fatua, non allevia le fitte, ma le rende piú atroci, disponendo a meditare sulla casualità della cosa e sulla propria responsabilità nel non aver preveduto la caduta.

Immagino che sarebbe un conforto sapere che la persona feritrice si macera di rimorsi, annette importanza alla cosa? Non può nascere da altro questo conforto che dal bisogno di non essere solo, di serrare legami tra il proprio io ed altri. Inoltre, se quella persona soffrisse il rimorso di aver straziato non me in particolare, ma soltanto un uomo in quanto creatura, desidererei questi suoi rimorsi? Bisogna quindi che proprio io, e non l’uomo che è in me, venga riconosciuto, rimpianto e amato.