Il guarany/Parte Terza/Capitolo VIII
Questo testo è completo. |
◄ | Parte Terza - Capitolo VII | Parte Terza - Capitolo IX | ► |
CAPITOLO VIII.
SCORAGGIAMENTO.
Scorsero due giorni dopo l’arrivo degli Aimorè; la condizione di don Antonio de Mariz e della sua famiglia era disperata.
I selvaggi aveano assaltata la casa con una forza straordinaria; li precedeva l’Indiana, terribile d’odio, e li stimolava alla vendetta.
Le saette oscurando l’aria piombavano come una nube sullo spianato, e configgevansi nelle porte e nelle pareti dell’edifizio.
Alla vista del pericolo imminente che correvano tutti, gli avventurieri in rivolta si ritrassero dalle offese contro la casa e pensarono a difendersi dagli assalti dei selvaggi.
Si concertò una specie d’armistizio fra i ribelli e il fidalgo; senza riunirsi, gli avventurieri conobbero la necessità di dover combattere insieme il nemico comune, ancorchè dappoi volessero persistere nel loro proposito.
Don Antonio de Mariz, trincerato nella parte della casa che abitava, circondato dalla sua famiglia e da’ suoi amici fedeli, era determinato a difendere fino agli estremi que’ pegni confidati al suo amore di marito e di padre.
Se la Providenza non permetteva che un miracolo venisse a salvarli, morrebbero tutti; ma egli facea conto di esser l’ultimo, per vegliare che non fosse fatto oltraggio neanco alle loro spoglie.
Era il suo dovere di padre e di capo: come il capitano che è l’ultimo ad abbandonare la nave, egli sarebbe l’ultimo a rinunciare alla vita, dopo aver assicurato alle ceneri de’ suoi il rispetto dovuto ai morti.
Quanto non era mutato l’aspetto di quella casa già sì gaia e piena di vita! Parte dell’edifizio che corrispondeva al luogo abitato dagli avventurieri era stato abbandonato per prudenza; don Antonio avea raccolto la sua famiglia nell’interno per evitare qualsivoglia accidente.
Cecilia avea lasciata la sua stanza tanto vaga e deliziosa, per cederla a Pery che ne avea fatto il suo quartier generale e il centro delle sue operazioni; perocchè, fa di mestieri il dirlo, l’Indiano non partecipava allo scoraggiamento generale, e avea una fiducia incrollabile di poter salvar tutti.
Erano le dieci della sera; la lampada d’argento, pendente dal tetto della sala grande, illuminava una scena triste e silenziosa.
Tutte le porte e le finestre erano chiuse; di tratto in tratto udiasi il rumore di qualche saetta, che si piantava nel legno o s’insinuava fra le tegole.
Alle due estremità della sala e nella fronte eransi aperte nell’alto della parete alcune feritoie, vicino alle quali gli avventurieri facevano di notte costantemente la guardia per prevenire qualunque sorpresa.
Don Antonio de Mariz, seduto sopra una sedia a bracciuoli, con baldacchino, riposava un istante; la giornata era stata molto faticosa; gl’Indiani aveano investito per varie volte la scala di pietra dello spianato; e il fidalgo col piccolo numero dei combattenti di cui disponeva e coll’aiuto della colubrina era riuscito a respingerli.
Gli stava da fianco la sua carabina, carica, appoggiata alla sedia, e un po’ più in là, sopra un tavolino alla distesa del braccio, vedeansi le sue pistole.
Il suo bel capo incanutito, penzolone sul seno, spiccava sopra il velluto nero del suo giubbone, coperto da una finissima maglia d’acciaio, che gli riparava il petto.
Pareva addormentato; ma di tratto in tratto alzava gli occhi e li moveva in giro, contemplando con una malinconia estrema la scena che disegnavasi nel fondo mezzo rischiarato della sala.
Dipoi ritornava alla stessa posizione, e continuava le sue dolorose riflessioni; il fidalgo serbava ancora tutta l’antica fermezza e coraggio, ma dentro di sè avea perduta la speranza.
Dal lato opposto Cecilia, postasi a giacere sopra un sofà, pareva svenuta; il suo viso sì pieno di vivacità, il suo corpo leggiero e grazioso, franto da tante emozioni, abbandonavasi con indolenza sopra una coltre di damasco.
La sua mano cadeva immobile, come fiore cui fosse stato reciso lo stelo dilicato; e le labbra scolorate agitavansi tal fiata mormorando una preghiera.
Co’ ginocchi sulla sponda del sofà, Pery non levava gli occhi di dosso alla sua signora; sarebbesi detto che quella blanda respirazione, che faceva rialzare il seno della fanciulla, e che esalava dalla sua bocca semiaperta, era l’aura che alimentava la vita dell’Indiano.
Dal momento della rivolta non lasciò più Cecilia; la seguiva come la sua ombra; la sua devozione, già sì ammirabile, avea toccato al sublime nell’imminenza del pericolo.
In que’ due giorni egli avea fatto cose incredibili, vere follìe di eroismo e di annegazione.
Accadeva che un selvaggio, approssimandosi alla casa, mettesse un grido, cagione di lieve sbigottimento alla fanciulla.
Pery lanciavasi come una saetta, e prima che avessero avuto tempo di arrestarlo, passava fra un nugolo di freccie, arrivava all’orlo dello spianato, e con un tiro della sua carabina abbatteva l’Aimorè che avea spaventato la sua signora, prima che avesse tempo di emettere un secondo grido.
Cecilia, afflitta e dolente, ricusava prendere l’alimento che sua madre o sua cugina le portavano?
Pery, affrontando mille pericoli, correndo rischio di sfracellarsi sulle punte delle roccie, di essere crivellato dalle freccie dei selvaggi, guadagnava la foresta, e un’ora appresso tornava recando un frutto dilicato, un favo di miele avvolto in fiori, od altra venagione squisita, che la sua signora toccava colle labbra per ricambiare almeno tanto amore e tanta devozione.
Le prodezze dell’Indiano giunsero a tale, che Cecilia videsi obbligata a proibirgli di allontanarsi dal suo fianco, e a guardarlo a vista per tema che non si facesse uccidere ad ogni istante.
Oltre l’amistà che serbava per lui, un certo che, una speranza vaga diceale che nella condizione disperata in cui trovavansi, se alcuna salvezza ci potea essere per la sua famiglia, verrebbe dal coraggio, dall’intelligenza e dalla sublime annegazione di Pery.
Se egli morisse, chi veglierebbe sopra di lei con quella sollecitudine e quello zelo ardente, che al tempo stesso facea le veci delle carezze d’una madre, della protezione di un padre e dell’affabilità di un fratello? Chi sarebbe il suo angelo custode per liberarla da un affanno, e al tempo stesso il suo schiavo per soddisfare al menomo suo desiderio?
No: Cecilia non poteva in alcun modo resistere un istante all’idea che il suo amico fosse per morire; e fu per ciò che gli comandò, gli chiese e perfino si fe’ a supplicarlo di non scostarsi punto da lei; voleva alla sua volta essere per Pery il buon angelo di Dio, il suo genio protettore.
Dallo stesso lato di Cecilia, ma in altro canto della sala, vedeasi Isabella seduta avanti al parapetto della finestra, che figgeva uno sguardo ardente, pieno di ansietà e di affanno entro una piccola apertura delle persiane, lasciatavi da lei senza che gli altri se ne avvedessero.
Il raggio di luce che sprigionavasi da quell’apertura provocava gli Indiani, che faceano piovere saette sopra saette in quella direzione: ma Isabella non vi badava; poco importavate il pericolo che correva.
Guardava Alvaro, che all’alto della scala colla maggior parte degli avventurieri fedeli faceva la guardia notturna; il giovane passeggiava per lo spianato protetto da una debole palizzata; ogni saetta che passavagli sopra il capo, ogni moto che facea davale un’afflizione immensa; rammaricavasi di non poter essere al suo fianco per ripararlo, e ricevere la morte a lui destinata.
Donna Lauriana, seduta sopra uno dei gradini dell’oratorio, pregava: la buona signora era una delle persone che mostravano maggior calma e coraggio nell’orribile frangente in cui si trovava la famiglia; animata dalla sua fede religiosa, e dal sangue nobile che scorreva nelle sue vene, si era serbata degna di suo marito.
Facea quanto era possibile: curava i feriti, incuorava le fanciulle, aiutava negli apparecchi di difesa, e oltre ciò dirigeva le faccende di casa, come se nulla fosse avvenuto di straordinario.
Ayres Gomes, appoggiato alla porta dell’armeria, colle braccia incrociate e immobile, dormiva; lo scudiero custodiva il posto affidatogli dal fidalgo. Dal punto dell’intrattenimento avuto fra loro, Ayres si era messo a quel luogo, da cui non si toglieva se non quando don Antonio veniva a sedersi sulla seggiola vicina alla porta.
Dormiva; ma al più lieve passo che risuonasse sul pavimento, destavasi di soprassalto, colla pistola in pugno e la mano alla serratura della porta.
Don Antonio de Mariz alzossi, e mettendosi a cintola le pistole e prendendo la sua carabina avviossi al sofà ove riposava la sua figliuola, e baciolla in fronte; fece il somigliante con Isabella, abbracciò sua moglie ed uscì.
Il fidalgo andava a dare il cambio ad Alvaro, che faceva la sua guardia fin dal primo annottare; pochi momenti dopo la sua uscita, la porta si aperse di nuovo e il cavaliere entrò.
Alvaro indossava un giubbone di seta azzurra, foderata in rosso, che disegnava gli eleganti contorni del suo corpo; quando apparve nel vano della porta, Isabella mise un lieve grido e corse alla sua volta:
— Siete ferito? dimandò la giovane con ansietà e prendendogli le mani.
— No, rispose il cavaliere maravigliato.
— Ah!... sclamò Isabella respirando.
Erasi ingannata; il laceramento che una freccia aveagli fatto sulla spalla, mettendo a nudo la fodera rossa del giubbone, erale a prima vista apparso una ferita.
Alvaro cercò di sciogliere le sue mani da quelle d’Isabella; ma la fanciulla supplicandolo collo sguardo, e trattenendolo dolcemente, lo condusse fino al luogo ove stava poc’anzi, e l’obbligò a sederle da presso.
Molti avvenimenti si erano succeduti fra loro in que’ due giorni; vi sono dei casi in cui i sentimenti corrono con rapidità straordinaria, e divorano mesi ed anni in un solo minuto.
Riuniti in quella sala dalla necessità estrema del pericolo, vedendosi ad ogni momento, scambiandosi ora una parola ora uno sguardo, sentendosi infine l’uno vicino all’altro, questi due cuori, se non s’amavano, comprendevansi almeno.
Alvaro fuggiva e schivava Isabella; avea tema di quell’amore ardente, che lo avviluppava collo sguardo, di quella passione profonda e rassegnata che curvavasi a’ suoi piè sorridendo malinconicamente; sentivasi debole a resistere, e frattanto il suo dovere gli comandava di resistere.
Egli amava, o studiavasi di amar ancora Cecilia; avea promesso a suo padre di esserle marito; e nello stato in cui si trovavano, quella promessa valea più d’un giuramento, era una necessità imperiosa, una fatalità che doveasi compiere.
Come potea dunque nutrire una speranza di Isabella? Non sarebbe stata cosa infame, indegna, accettare l’amore che offerivagli supplichevole? Non era dover suo distruggere nel suo cuore quel sentimento che non potea essere soddisfatto?
Alvaro così la pensava, e schivava tutte le occasioni di trovarsi da solo a solo colla giovane, perchè sentiva la possente impressione, l’attrazione irresistibile che esercitava sopra di lui quella formosità fascinatrice, quando la passione avvivandola la circondava di uno splendore abbagliante.
Diceva a sè stesso che non amava, che giammai amerebbe Isabella; frattanto sapea che se egli la vedesse un’altra volta come nel momento che gli confessò il suo amore, cadrebbe a’ suoi piedi e dimenticherebbe il dovere, l’onore ed ogni cosa per lei.
La lotta era terribile; ma l’anima nobile del cavaliere non cedeva, e combatteva eroicamente: potea esser vinta, ma dopo aver fatto quanto è possibile ad un uomo per restar fedele alla sua promessa.
Ciò che rendeva quella lotta ancora più violenta, era che Isabella nol perseguiva col suo amore; dopo quel primo ardimento si era raccolta in sè stessa, e rassegnata amava senza sperar mai di essere riamata.