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Facea quanto era possibile: curava i feriti, incuorava le fanciulle, aiutava negli apparecchi di difesa, e oltre ciò dirigeva le faccende di casa, come se nulla fosse avvenuto di straordinario.
Ayres Gomes, appoggiato alla porta dell’armeria, colle braccia incrociate e immobile, dormiva; lo scudiero custodiva il posto affidatogli dal fidalgo. Dal punto dell’intrattenimento avuto fra loro, Ayres si era messo a quel luogo, da cui non si toglieva se non quando don Antonio veniva a sedersi sulla seggiola vicina alla porta.
Dormiva; ma al più lieve passo che risuonasse sul pavimento, destavasi di soprassalto, colla pistola in pugno e la mano alla serratura della porta.
Don Antonio de Mariz alzossi, e mettendosi a cintola le pistole e prendendo la sua carabina avviossi al sofà ove riposava la sua figliuola, e baciolla in fronte; fece il somigliante con Isabella, abbracciò sua moglie ed uscì.
Il fidalgo andava a dare il cambio ad Alvaro, che faceva la sua guardia fin dal primo annottare; pochi momenti dopo la sua uscita, la porta si aperse di nuovo e il cavaliere entrò.
Alvaro indossava un giubbone di seta azzurra, foderata in rosso, che disegnava gli eleganti contorni del suo corpo; quando apparve nel vano della porta, Isabella mise un lieve grido e corse alla sua volta:
— Siete ferito? dimandò la giovane con ansietà e prendendogli le mani.