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pendente dal tetto della sala grande, illuminava una scena triste e silenziosa.

Tutte le porte e le finestre erano chiuse; di tratto in tratto udiasi il rumore di qualche saetta, che si piantava nel legno o s’insinuava fra le tegole.

Alle due estremità della sala e nella fronte eransi aperte nell’alto della parete alcune feritoie, vicino alle quali gli avventurieri facevano di notte costantemente la guardia per prevenire qualunque sorpresa.

Don Antonio de Mariz, seduto sopra una sedia a bracciuoli, con baldacchino, riposava un istante; la giornata era stata molto faticosa; gl’Indiani aveano investito per varie volte la scala di pietra dello spianato; e il fidalgo col piccolo numero dei combattenti di cui disponeva e coll’aiuto della colubrina era riuscito a respingerli.

Gli stava da fianco la sua carabina, carica, appoggiata alla sedia, e un po’ più in là, sopra un tavolino alla distesa del braccio, vedeansi le sue pistole.

Il suo bel capo incanutito, penzolone sul seno, spiccava sopra il velluto nero del suo giubbone, coperto da una finissima maglia d’acciaio, che gli riparava il petto.

Pareva addormentato; ma di tratto in tratto alzava gli occhi e li moveva in giro, contemplando con una malinconia estrema la scena che disegnavasi nel fondo mezzo rischiarato della sala.

Dipoi ritornava alla stessa posizione, e conti-