Il guarany/Parte Prima/Capitolo XIV
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CAPITOLO XIV.
L’INDIANA.
Pery, non appena si sentì tornare le forze, continuò la sua corsa a traverso la foresta.
Per molto tempo seguì le pedate dell’Indiana nel bosco, con una rapidità e una sicurezza incredibile per chi non conosce la facilità con che i selvaggi discernono i più lievi vestigi, che lascia la pesta di qualsivoglia animale.
Un ramo spezzato, l’erba pigiata, le foglie secche sparse e divise, un ramo che ancora si muove, le goccie di rugiada scosse, sono a’ loro occhi esercitati lo stesso che una linea tracciata nella foresta, e che seguono senza esitanza.
Eravi una ragione in quell’ostinarsi di Pery a seguire quell’Indiana inoffensiva, e a far sforzi inauditi per raggiungerla.
Per ben comprenderlo, è d’uopo conoscere alcuni accidenti seguiti gli ultimi giorni nelle vicinanze del Paquequer.
Verso il finire della luna delle acque una tribù di Aimorè era discesa dagli altipiani della foresta degli Orgaos, per fare la raccolta dei frutti e preparare i vini, le bevande e i vari alimenti dì cui sogliono far provvisione.
Una famiglia di questa tribù, tirata dalla caccia, era comparsa alcuni giorni addietro sulle rive del Parahyba; componeasi di un selvaggio, di sua moglie, un figlio e una figlia.
Quest’ultima era una bella indiana, il cui possesso contendevansi tutti i guerrieri Aimorè; suo padre, capo della tribù, era orgoglioso di una figlia tanto avvenente, come della più bella saetta del suo arco, o della più appariscente penna del suo cocar1.
Siamo in domenica.
Il venerdì, verso le dieci del mattino, Pery attraversava il bosco imitando allegramente il canto del sahixé, le cui note zufolate egli traducea pel dolce nome di Cecy.
Andava in quell’ora in cerca della fiera, che tanta parte occupa in cotesto racconto, specialmente dopo morta; e poichè non soddisfaceasi di qualche piccolo jaguar, avea determinato di sorprendere ne’ suoi propri dominii uno di que’ re delle grandi foreste, che corrono lungo il Parahyba.
Cecilia avea detto una parola, ed egli che non ragionava intorno ai desideri della sua signora, avea dato mano al suo arco e alla sua carabina, e si era messo in cammino.
Giungeva a un piccolo ruscello, quando un cagnolino2 di lungo pelo uscì dal bosco, e subito dopo un’Indiana, che fece due passi e cadde ferita da una palla.
Pery voltossi per vedere onde era partito il tiro, e riconobbe don Diego de Mariz che avvicinavasi lentamente, accompagnato da due avventurieri.
Il giovane avea tirato a un uccello, e l’Indiana che passava in quell’istante, avea ricevuto nel suo corpo la scarica dello schioppo, ed era caduta morta.
Il cagnolino corse verso la sua padrona, mettendo guaiti, lambendole le fredde mani, e strisciando colla testa sul corpo insanguinato, come per ravvivarla.
Don Diego, appoggiato sopra il suo moschetto, gettava uno sguardo pietoso sopra quella giovane, che moriva vittima di un capriccio da cacciatore, che non volle perdere la sua mira.
Quanto a’ suoi compagni, ridevan essi dell’accaduto, e divertivansi a far commenti sopra la qualità della caccia colta dal cavaliere.
Di repente il cagnolino, che accarezzava la sua morta padrona, alzò il capo, fiutò l’aria e partì come una freccia.
Pery, ch’era stato muto testimonio di questa scena, consigliò don Diego a ritirarsi a casa per prudenza, e poscia continuò il suo cammino.
Lo spettacolo cui era stato presente, l’avea rattristato; gli sovvenne della sua tribù, de’ suoi fratelli, che da tanto tempo avea abbandonati, e che forse a quell’ora erano ancor essi vittime dei conquistatori della loro terra, ove altra volta viveano liberi e felici.
Dopo andato circa una mezza lega, scôrse in distanza un fuoco nel bosco; e attorno di esso, seduti, due selvaggi e un’Indiana.
Il più vecchio, di statura gigantèa, applicava alla punta delle canne silvestri i denti lunghi e incisivi della capivara, e affilava ad una pietra quell’arma terribile.
Il più giovane empiva di piccoli semi neri e vermigli un frutto vuoto, ornato di penne e attaccato a una cordicina lunga due palmi.
La donna, che ancora era giovane, scardassava del cotone, i cui fiocchi bianchi e puri cadevano sopra una gran foglia che tenea nel grembo.
Vicino al fuoco vedeasi un piccolo vase verniciato con bragia sotto, ove l’Indiana gettava di tratto in tratto certe foglie larghe e secche, le quali mandavano in alto grossi volumi di fumo.
I due Indiani per via di una canna aspiravano que’ vapori, finchè gli occhi lagrimassero; dipoi continuavano il loro lavoro.
Nell’atto che Pery esaminava da lungi cotesta scena, il cagnolino saltò nel loro mezzo; e respirato appena dal lungo corso, afferrò co’ denti la fascia di penne dell’Indiano più giovane, il quale lo cacciò da lato, facendolo rotolare a quattro passi di distanza.
Avvicinossi di poi all’Indiana, ripetè lo stesso giuoco; e come non fosse per anco ben accolto, saltò sopra il cotone e lo morse: la donna lo prese per il collaretto di frutti che portava al collo, lo scacciò essa pure e acconciò di nuovo le sue falde di cotone; ma erano tinte di sangue.
Esaminò con inquietudine la bestiuola; e non vedendola ferita, gettò gli occhi attorno di sè, e mandò un grido rauco e gutturale; i due Indiani alzarono il capo cercando cogli occhi la causa di quella esclamazione.
Per tutta risposta l’Indiana mostrò il sangue che insozzava l’animale, e con una voce piena di afflizione pronunciò una parola di una lingua ignota, che Pery non intese.
L’Indiano più giovane saltò per la foresta come un capriolo, dietro al cagnolino che gli serviva di guida; il vecchio e la donna gli tennero da presso.
Pery comprese perfettamente quello che accadeva, e seguitò il suo cammino, pensando che i coloni già sarebbero a quell’ora abbastanza lontani dai selvaggi.
Questo era quanto l’Indiano avea veduto; quello che ignorava, gli fu rivelato chiaramente dall’accaduto al bagno.
I selvaggi aveano trovato il corpo della loro figliuola, e riconosciuto il segno della palla; per molto tempo si studiarono, ma invano, di tener dietro alle orme dei cacciatori, finchè il giorno appresso la cavalcata che passò servì loro di guida.
Tutta la notte aggiraronsi intorno la casa, e il mattino vedendo uscire le due fanciulle, risolsero di vendicarsi coll’applicazione di quella legge del taglione, che era il solo principio di diritto e giustizia che riconoscevano.
La loro figlia era stata uccisa; era giusto che uccidessero pur anco la figlia del loro nemico: vita per vita, lagrima per lagrima, disgrazia per disgrazia.
Come cercassero di effettuare la loro vendetta, e quello che ne seguisse, già lo sappiamo; i due selvaggi dormivano tuttavia sulle rive del Paquequer, senza che una mano amica venisse a dar loro sepoltura.
Ora è facile capire la ragione per cui Pery inseguiva quell’Indiana, resto dell’infelice famiglia; sapea che ella andava dritto a trovare i suoi, e che alla prima parola che proferisse, tutta la tribù si leverebbe come un sol uomo per vendicare la morte del cacico, e la perdita della più bella figlia degli Aimorè.
L’Indiano conosceva la ferocia di questo popolo senza patria e senza religione, che si nutre di carne umana, e vive come le fiere sul nudo terreno, per le grotte e le caverne; raccapricciava all’idea che potessero venir ad assaltare la casa di don Antonio de Mariz.
Era d’uopo pertanto sterminare tutta la famiglia, non lasciare pur un vestigio del suo passaggio; malgrado la ripugnanza che provava in uccidere una donna, era pur forza obbedire alla necessità; vibrerebbe il colpo, e volterebbe la faccia per non vederla cadere.
Facendo queste riflessioni, Pery avea perduto quasi un’ora a percorrere la foresta inutilmente; l’Indiana avea guadagnato un gran tratto di strada nel tempo che egli lottava contro lo svenimento prodotto dalla ferita.
Alla fine giudicò che il meglio era avvertirne tosto don Antonio, affinchè prendesse tutte le cautele richieste dall’imminenza del pericolo.
Giunse in un luogo ov’erano alcune macchie d’arbusti e tutt’all’intorno un’erba aspra e riarsa dal sole. Appena l’Indiano fece alcuni passi per attraversare quel luogo, arrestossi mettendo un grido di stupore; un cagnolino, che riconobbe al collaretto di frutti scarlatti, tirava ancora le ultime recate.
Era lo stesso, che due giorni addietro avea incontrato nella foresta, e che di certo seguiva l’Indiana nella sua fuga; ma egli non l’avea visto, perchè ascoso entro l’erbata.
La bestiuola dava segni di essere stata strangolata per una torsione violentissima, fino a romperle le vertebre del collo: in quel momento ancora boccheggiava.
Al primo colpo d’occhio Pery avea visto tutto ciò, e calcolato con ammirabile perspicacia quanto era accaduto.
Quella morte, pensò egli, non poteva esser cagionata che da una creatura umana; ogni altro animale avrebbe fatto uso di denti o di unghie, e lasciato traccie di ferimento.
Il cane apparteneva all’Indiana; ell’era dunque che l’avea strangolato pochi momenti innanzi, perchè la frattura del collo era tale da produrre la morte quasi immediatamente.
Ma per qual ragione avea commesso quella barbarie? Perchè, rispondeasi l’Indiano, ella sapea di essere inseguita, e il cane poteva denunciarla.
Appena ebbe formato questo pensiero, Pery si pose bocconi, e ascoltò il seno della terra per molto tempo; due volte alzò il capo giudicando di ingannarsi, e applicò di nuovo l’orecchio al suolo.
Quando levossi, il suo volto esprimeva grande stupore e meraviglia; avea udito qualche cosa di cui pareva ancora dubitare, come se i suoi sensi lo illudessero.
Camminò dalla parte di levante, ascoltando la terra ad ogni momento, e in questo modo arrivò di pochi passi a una gran macchia di cardi, che si elevava in luogo ove il terreno era un po’ basso.
Allora collocandosi in direzione contraria al vento, si avvicinò con gran cautela, e udì un mormorio di voci confuse, e il suono di uno strumento che cavava la terra.
Pery applicò l’orecchio, e procurò di scoprire ciò che passava là entro; ma era impossibile; non una apertura, non una fessura dava passaggio al suono o all’occhio.
Solo chi avesse viaggiato nei deserti e veduto quei cardi giganteschi, le cui larghe foglie, irte di spini, si intrecciano strettamente formando un alto muro di alcuni piedi di spessezza, potrebbe farsi un’idea della barriera impenetrabile, che circondava d’ogni lato le persone, di cui Pery udiva la voce senza distinguere le parole.
Frattanto questi uomini doveano esser entrati colà da alcuna parte; e questa non potea essere se non il ramo di un albero secco, che stendevasi sopra i cardi, e a cui si avvolgeva un cipò nodoso e forte come una spirale.
Pery studiava la posizione, e pensava in che modo potesse pervenire a conoscere quello che accadeva fra quegli alberi; quando una voce, che gli parve di riconoscere, sclamò:
— Per dio! eccola!
L’Indiano trasalì udendo questa voce, e risolse a qualunque costo di sapere ciò che faceano quegli uomini; presentì che ivi era un pericolo a scongiurare, e un nemico a combattere.
Nemico per avventura più terribile degli Aimoré; perchè, se costoro erano fiere, quello poteva essere un serpente nascosto tra i fiori e l’erba.
Perciò dimenticò tutto; e il suo pensiero concentrossi in un’unica idea; udire ciò che quegli uomini dicevano.
Ma per qual mezzo?
Era ciò di cui Pery andava in cerca; avea girato attorno alla macchia applicando l’orecchio, e gli parve che in un luogo il rumore delle voci e del ferro che continuava a cavare, gli giungesse più distinto.
L’Indiano abbassò gli occhi, che brillarono di contento.
Ciò che gli produsse quella gradita impressione, fu un monticello di terra screpolata, che si alzava come un pane di zucchero due palmi dal suolo, ed era coperto di foglie secche.
Era l’entrata di un formicaio3, di una di quelle casuccie sotterranee costrutte da quei piccoli architetti, che a forza di pazienza e di lavoro minano un campo intiero, e formano delle vere catapecchie sotto la superficie del suolo.
Quello scoperto da Pery era stato abbandonato da’ suoi abitatori per causa della pioggia, che era penetrata nel piccolo sotterraneo.
L’Indiano trasse il suo pugnale, e aggirandolo entro la cima di quella torre in miniatura, lasciò allo scoperto un buco che penetrava nell’interiore della terra, e senza dubbio andava a terminare al basso, ove stavano riunite le persone che conversavano.
Questo buco facea per lui l’effetto di un tubo acustico, che gli recava le parole chiare e distinte.
Sedette e ascoltò.
Note
- ↑ Cocar è quel serto di penne, che i selvaggi portano in fronte.
- ↑ Warnagen, nella sua storia del Brasile, dice che il cane era compagno costante degli indigeni brasiliani, ancora più che presso gli Europei.
- ↑ Nelle foreste incontransi di frequente di questi scavi sotterranei, opera di una formica, che gl’Indiani chiamarono Taciahy.