Il figlio di Grazia/III
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III.
Lo chiamarono Natale, in ricordo di quel giorno benedetto in cui Grazia aveva avuto l’avvertimento che Dio avrebbe esaudita la sua preghiera.
Com’era grosso! La povera Grazia barcollava scendendo dalla scaletta col suo bimbone fra le braccia, e tutte le vicine accorrevano a vederlo e la facevano arrossire di piacere e di orgoglio colle loro esclamazioni di maraviglia.
«È tutto suo padre! tutto suo padre!» dicevano. Bernardo tentava di rammentare di quand’era fanciullo, ma non si ritrovava così enorme come suo figlio. «Vuol diventare due volte me» pensava. Certo egli era già mezza volta più de’ soliti bambini: i piedi gli scappavano fuori dalle fascie e le cuffiette gli stavano dietro le orecchie, lasciando scoperte due dita di capelli. Grazia dovette dar un taglio senz’altro alle maniche delle carnicine, perchè era una fatica l’infilargliele, e, quando ci riusciva, quei poveri braccini parevano salami insaccati. Presto presto, le cognate ritagliarono vecchie lenzuola e si rimisero daccapo al corredo del colosso.
Dopo quindici giorni non stava più nella culla di legno dipinta, che la nonna aveva mandata in regalo, e Bernardo dovette andar in cerca di assi per fargliene una nuova.
«Noi siamo destinati a far ridere la gente,» disse un giorno Grazietta.
«Meglio tenerla di buonumore che rattristarla,» rispose Bernardo. «Verrà un giorno in cui nessuno riderà più sul conto del nostro Natale: egli saprà tener ognuno in rispetto soltanto col farsi vedere. Ah che omone, mia cara! che omone!» E spalancava gli occhi facendo un passo indietro, come se già lo vedesse lì ritto, più alto di lui.
La voce del bimbone era in proporzione del suo torace: quando di notte si metteva a strillare, Grazia si risvegliava di soprassalto, spaventata, e al suo ohè ohè, rispondevano dal pollaio di sotto le galline e i galletti, improvvisamente riscossi anch’essi dal loro sonno.
Dopo due mesi il latte di quella mamma così piccina non bastava più a nutrire quel grosso figliolo: esso le succhiava anche il sangue, ed ella era diventata sparuta, bianca, così infiacchita che un nonnulla bastava per intimorirla e a farla piangere. Di notte dormiva di un sonno agitato, facendo sempre de’ sogni così paurosi che si svegliava tutta in sudore.
Ed era sempre il suo grosso figliolo che le appariva anche in sogno. A volte lo vedeva farsi più alto, più largo, come gonfiarsi a vista d’occhio, tanto da provarne un’oppressione, da parerle d’esserne schiacciata. Un’altra volta lo vedeva fatto uomo, più alto del campanile, camminare scavalcando le case, attraversando la valle con un sol passo, pigiando sotto il suo calcagno la gente nelle strade come fossero formiche. «Oh Dio! Dio!» supplicava svegliandosi. «Che non sia segno che il nostro Natale diventi un prepotente! che la sua robustezza non lo porti a far cose cattive!»
Più il bimbo cresceva e più la mamma diminuiva: il medico venne e le fece smettere d’allattarlo: tanto, a mettergli alle labbra una scodella di latte se la sorbiva come avesse avuto l’anno.
Il cestino in cui lo misero per reggerlo nei primi passi, scricchiolava sotto il peso, e quando urtava negli spigoli delle porte o nelle seggiole, i suo testone biondo troppo pesante non resisteva alla scossa e gli faceva fare un capitombolo. Bambini di due anni passavano ritti sotto la tavola di cucina; egli, a sei mesi non ci passava più, e se vedeva la scodella della pappa, allungava le mani e annaspava tirandosela addosso.
Grazia non aveva più un minuto di quiete, e, smagrita com’era, pareva ancora più piccolina. Ma era però così contenta, così orgogliosa che quasi se ne sgomentava. Pensava: «Dio mi castigherà se m’inorgoglisco troppo.» E si provava a non raccontare che già a Natale erano spuntati quattro denti e che se ne stava ritto da solo accanto alla seggiola: si sforzava di ammirare i bambini degli altri, ma dentro tutta l’anima sua ripeteva: «Oh com’è bello il mio Natale! non c’è un altro bambino più robusto di lui!»
Quando cominciò a trotterellare da solo in gonnellina azzurra, la sua smania era d’afferrare, d’impadronirsi di tutto ciò che si moveva.
Fin da quando era ancora fra le braccia della mamma, egli agitava le manine tentando di prendere le sue labbra quando parlava: e quanti peli strappò alla barba del babbo per tentar di afferrare la sua lingua, ch’egli si divertiva a mostrargli e ritirare rapidamente! Non parliamo de’ suoi stupori per le foglie agitate dal vento, per gli uccelli che passavano nell’aria, per le galline che correvano per la casa, per le mosche che gli volavano intorno. Quando si senti padrone delle sue gambe, egli parve felice di poter finalmente precipitarsi su tutto ciò che aveva un movimento.
«Oh bè, oh bè, oh bè!» e pigliava la rincorsa, cadendo colle mani innanzi, mentre polli, tacchini e anitre scappavano starnazzando spaventate: un giorno lo trovarono lungo e disteso con un pulcino morto fra le mani.
Il veder altri bambini era pure per lui una festa! «Oh, bè! oh bèl oh bèl» e la sua facciona bianca e rossa rideva tutta, mentre le sue mani afferravano ricciolini e nasi su cui le sue unghiette lasciavano il segno.
Gli altri non contraccambiavano certo la sua cordialità. Era così grosso e i suoi movimenti così irriflessivi, che i suoi abbracci riuscivano delle strozzature e le sue carezze degli schiaffi. Non c’era una bambina che, a vederlo anche di lontano, non scappasse a nascondersi strillando fra le gonne della mamma.
La gran contentezza di Grazia cominciò ad offuscarsi. «Quel tuo diavolone» dicevano le amiche parlando di Natale, e le chiedevano in tono pietoso come reggesse a stargli dietro tutto il giorno, a badare che non facesse malestri ogni momento.
Oh, Dio, com’era possibile pensare che fosse una fatica per lei? Ma se era l’allegria, la gioia delle sue giocate, se ogni malestro era una prova della sua robustezza e della sua intelligenza!
Bisognava star con lui tutto un giorno per capire che caro bambino egli fosse! Ma Grazia non diceva che caro bambino egli fosse! Ma Grazia non diceva tutto questo alle amiche; che necessità? non le avrebbero creduto. E taceva, ma soffriva. Non era orse un’ingiustizia che si giudicasse come una prepotenza e uno sgarbo ciò ch’era invece espansione e gentilezza? Che colpa aveva lui, povero bambino, se la sua robustezza gli faceva esprimere i suoi sentimenti troppo energicamente?
Grazia se ne crucciava, quand’era sola in casa col bimbo che dormiva in un angolo della cucina, così bello col suo faccione rosso e i riccioloni biondi, e le lunghe ciglia scure che segnavano un’ombra sulle su gote. Sola, senza distrazioni, ella lo stava a guardare pensando impaurita all’invidia che aveva suscitato intorno a sè quella bella creatura, all’ingiustizia ci cui era vittima, e il cuore le si empiva d’amarezza e gli occhi di lagrime; ma bastava che il bambino spalancasse gli occhi o tornasse Bernardo, per ridere de’ suoi crucci.
Oh, la gente del paese!... che gliene importava a lei? Non ammiravano più il loro Natale? tanto meglio: la lasciavano quieta in casa sua a goderselo.
Ma non poteva star sempre in casa.
La domenica lo portava a messa con sè, ma mentre quand’era più piccino al cominciar dei canti egli le si addormentava in grembo, ora la musica lo esaltava, ed egli sentiva il bisogno di accompagnarla coi suoi gesti, colle sue grida d’allegria, co’ suoi commenti. «Ton ton, cin cin! Centi, mamma? oh, bella! oh bella!» E le tirava il naso per farla guardare in su, poi sgambettava per voler scendere, urtando nella panca, facendo rumore, disturbando i vicini, non volendosi persuadere che in chiesa bisogna parlar piano. Gli altri bambini ridevano, e di qua e di là risuonavano scappellotti per farli star zitti.
Le amiche, quasi si vergognassero per Grazia, non voltavano il capo a guardarla o guardavano di traverso: qualche vecchia zitella faceva severamente sst! e la povera Grazia si voltava a cercar cogli occhi il suo Bernardo perchè venisse a portarle via il bambino. E non un sorriso benevolo e indulgente ella vedeva intorno a sè, sul viso di tutte quelle mamme.
In mezzo alla piazza del villaggio c’era una vasca rotonda nel cui centro, da un pilastro sormontato da un’antica statuetta di santo, zampillava da quattro tubi di ferro l’acqua fredda e leggera che forse veniva dal ghiacciaio. Da un lato della vasca era una seconda, più bassa, nella quale si riversava da un buco sotto l’orlo, tutta l’acqua che traboccava dall’altra. Lì le donne venivano a lucidare le padelle e a lavare i panni, e c’eran sempre bambine o bambini che volevano trovar posto per lavar fazzoletti o vestine di bambole, per far galleggiare barchette o pezzi di legno, oppure nel rigagnolo d’acqua sudicia insaponata che sgorgava da un foro della vasca e scorreva fra i sassi fino giù al torrente, facevano canali, mulini, o bolle di sapone. Ed era un continuo vociare di mamme impazientite, di ragazzi impertinenti, di bimbi che s’accapigliavano.
Ma il baccano crebbe quando cominciò a venirci Natale, l’ometto che ora camminava spedito.
Quand’egli sguazzava co’ suoi bracciotti nella fontana, erano tali colpi sull’acqua da spruzzar tutti intorno. Egli afferrava gli altri bambini per un lembo del vestito facendo: «uh, uh!» perchè si mettessero a correre scavallando; ma se non riusciva a smoverli, o tentavano scappargli di mano, dava giù colpi dove capitava per farsi capire.
S’alzavano allora degli urli! Sentivano tanto parlare della robustezza di Natale e della sua forza, che vederlo minaccioso era per tutti quei bambini come veder un lupo o un orso colla bocca spalancata, pronto a mangiarli. Cominciava uno a scappare, e tutti dietro, rifugiandosi nelle porte, stando a guardarlo dagli spigoli, pronti a fuggire ancora più lontano.
Oramai, anche quando allargava le braccia per abbracciare, era un fuggi fuggi generale, che egli non comprendeva; spesso lo pigliava per un gioco, seguitando a rincorrerli e strillando anche lui come facevan gli altri. Se riusciva ad afferrarne uno, quegli gli tirava calci e pugni per liberarsi, ed egli allora picchiava, picchiava forte, poi correva dalla mamma, piangendo e dolendosi di aver fatto male al ninin.
Grazia cominciò a inquietarsi davvero: tutta rossa in viso, un giorno alla fontana sgridò quei bambini, dicendo che non era il modo di fare con un bimbo che era alto come loro, è vero, ma non sapeva ancora parlar chiaro e capire. Con un pugno non poteva ammazzarli: se ne davano tanti fra loro in fine di una giornata! Alcune mamme presero a difendere i loro ragazzi e a incolpar il povero Natale, e Grazia finì col prendere i suoi panni sgocciolanti e il suo figliolo, e andarsene a casa piangendo.
«Ecco il castigo che mi sono meritata per essere stata troppo orgogliosa della sua robustezza» pensava Grazia. «Nessuno lo ama.» E, ciò che le pareva ancora più doloroso, non era amato perchè nessuno lo comprendeva.
«Non piangere, Grazia,» disse una sera Bernardo. «Teniamoci il nostro figlio per noi, finchè non sia cresciuto tanto da farsi voler bene per la sua bontà. Quando tu dovrai andar alla fontana a lavare, o in chiesa, lo porterò con me; e perchè rimanga in casa nostra quando tu ci sei, ho pensato io che cosa devo fare.»
La mattina si alzò prima del sole e si mise a piantare uno steccato con rami secchi, tutto in giro al suo prato; egli zufolava lavorando, per non sentire la voce dolorosa che gli usciva dall’anima egli diceva; «ecco qui, tu Bernardo chiudi il tuo figliolo come si fa con una bestia cattiva.»
«Me lo faranno diventar cattivo davvero,» pensava intanto Grazia, come se avesse sentito. «Il mio Natale finirà coll’odiar tutti.»
Eccolo dunque in gabbia il povero uccellino, molto stupito che il mondo al di là dello steccato non voglia saperne di lui. Pazienza! egli cercò distrazioni al di dentro; trottava dietro la mamma e s’affaccendava per casa aiutandola in molte cose; a soffiar nel fuoco, a portar l’erba alle mucche nella stalla, a dar il pastone al vitellino, a cercar le uova nel pollaio, a imboccar i pulcini, a dipanar le matasse sull’arcolaio. È vero che faceva volar la cenere per la cucina senza che il fuoco s’accendesse, e arrivato nella stalla s’accorgeva di non aver più niente fra le braccia e aver persa tutta l’erba per la strada: è vero che per aiutar la mamma a portar il secchio del pastone spingeva di sotto troppo forte e glielo faceva rovesciare: è vero che rompeva le ova, e arrischiava di soffocare i pulcini, e arruffava le matasse, ma gridava con tanta desolazione: «oh cogia ho fatto! cogia ho fatto!» che la mamma lo prendeva fra le braccia e lo tempestava di baci.
Venne l’estate. Quante ore passava Natale buttato nell’erba alta, a guardarci dentro. Oh, com’è bello il mondo! pensare in un palmo di prato quante belle cose ci sono! una foresta in miniatura..., che varietà di alberi, cioè, di fili d’erbe! ve n’è di dritte, taglienti come sciabole affilate, ve n’è di frastagliate, di^rotonde, di sottili come de’ fili di seta, e quanti fiori! bianchi, lilla, azzurri.... Natale li guardava ad uno ad uno: seguiva il lento viaggio di una formica, o il volo a scatti di una libellula, o i salti di una cavalletta.
Le bestie cominciarono a comprenderlo: quand’era seduto sull’erba a sbocconcellare il suo pane, pulcini e galline, passerotti e anitre gli venivano intorno, ed egli dava briciole a tutti, mangiandosi solo la crosta.
La gatta bianca, accovacciata sulla panca di legno fuor dell’uscio della cucina, teneva d’occhio, senza scomodarsi, il suo piccolo amico, e anche i grossi topi che uscivano di sotto la legnaia; e anche il cagnette nero, Perin, che dormiva sotto il pero, pronto ad alzar la testa e ringhiare appena sentisse un passo sul sentiero.