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varne un’oppressione, da parerle d’esserne schiacciata. Un’altra volta lo vedeva fatto uomo, più alto del campanile, camminare scavalcando le case, attraversando la valle con un sol passo, pigiando sotto il suo calcagno la gente nelle strade come fossero formiche. «Oh Dio! Dio!» supplicava svegliandosi. «Che non sia segno che il nostro Natale diventi un prepotente! che la sua robustezza non lo porti a far cose cattive!»

Più il bimbo cresceva e più la mamma diminuiva: il medico venne e le fece smettere d’allattarlo: tanto, a mettergli alle labbra una scodella di latte se la sorbiva come avesse avuto l’anno.

Il cestino in cui lo misero per reggerlo nei primi passi, scricchiolava sotto il peso, e quando urtava negli spigoli delle porte o nelle seggiole, i suo testone biondo troppo pesante non resisteva alla scossa e gli faceva fare un capitombolo. Bambini di due anni passavano ritti sotto la tavola di cucina; egli, a sei mesi non ci passava più, e se vedeva la scodella della pappa, allungava le mani e annaspava tirandosela addosso.

Grazia non aveva più un minuto di quiete, e, smagrita com’era, pareva ancora più piccolina. Ma era però così contenta, così orgogliosa che quasi se ne sgomentava. Pensava: «Dio mi castigherà se m’inorgoglisco troppo.» E si provava a non raccontare che già a Natale erano spuntati quattro denti e che se ne stava ritto da solo accanto alla seggiola: si sforzava di ammirare i bambini degli altri, ma dentro tutta l’anima sua ripeteva: «Oh com’è bello il mio Natale! non c’è un altro bambino più robusto di lui!»