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l’infilargliele, e, quando ci riusciva, quei poveri braccini parevano salami insaccati. Presto presto, le cognate ritagliarono vecchie lenzuola e si rimisero daccapo al corredo del colosso.

Dopo quindici giorni non stava più nella culla di legno dipinta, che la nonna aveva mandata in regalo, e Bernardo dovette andar in cerca di assi per fargliene una nuova.

«Noi siamo destinati a far ridere la gente,» disse un giorno Grazietta.

«Meglio tenerla di buonumore che rattristarla,» rispose Bernardo. «Verrà un giorno in cui nessuno riderà più sul conto del nostro Natale: egli saprà tener ognuno in rispetto soltanto col farsi vedere. Ah che omone, mia cara! che omone!» E spalancava gli occhi facendo un passo indietro, come se già lo vedesse lì ritto, più alto di lui.

La voce del bimbone era in proporzione del suo torace: quando di notte si metteva a strillare, Grazia si risvegliava di soprassalto, spaventata, e al suo ohè ohè, rispondevano dal pollaio di sotto le galline e i galletti, improvvisamente riscossi anch’essi dal loro sonno.

Dopo due mesi il latte di quella mamma così piccina non bastava più a nutrire quel grosso figliolo: esso le succhiava anche il sangue, ed ella era diventata sparuta, bianca, così infiacchita che un nonnulla bastava per intimorirla e a farla piangere. Di notte dormiva di un sonno agitato, facendo sempre de’ sogni così paurosi che si svegliava tutta in sudore.

Ed era sempre il suo grosso figliolo che le appariva anche in sogno. A volte lo vedeva farsi più alto, più largo, come gonfiarsi a vista d’occhio, tanto da pro-