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cucina senza che il fuoco s’accendesse, e arrivato nella stalla s’accorgeva di non aver più niente fra le braccia e aver persa tutta l’erba per la strada: è vero che per aiutar la mamma a portar il secchio del pastone spingeva di sotto troppo forte e glielo faceva rovesciare: è vero che rompeva le ova, e arrischiava di soffocare i pulcini, e arruffava le matasse, ma gridava con tanta desolazione: «oh cogia ho fatto! cogia ho fatto!» che la mamma lo prendeva fra le braccia e lo tempestava di baci.

Venne l’estate. Quante ore passava Natale buttato nell’erba alta, a guardarci dentro. Oh, com’è bello il mondo! pensare in un palmo di prato quante belle cose ci sono! una foresta in miniatura..., che varietà di alberi, cioè, di fili d’erbe! ve n’è di dritte, taglienti come sciabole affilate, ve n’è di frastagliate, di^rotonde, di sottili come de’ fili di seta, e quanti fiori! bianchi, lilla, azzurri.... Natale li guardava ad uno ad uno: seguiva il lento viaggio di una formica, o il volo a scatti di una libellula, o i salti di una cavalletta.

Le bestie cominciarono a comprenderlo: quand’era seduto sull’erba a sbocconcellare il suo pane, pulcini e galline, passerotti e anitre gli venivano intorno, ed egli dava briciole a tutti, mangiandosi solo la crosta.

La gatta bianca, accovacciata sulla panca di legno fuor dell’uscio della cucina, teneva d’occhio, senza scomodarsi, il suo piccolo amico, e anche i grossi topi che uscivano di sotto la legnaia; e anche il cagnette nero, Perin, che dormiva sotto il pero, pronto ad alzar la testa e ringhiare appena sentisse un passo sul sentiero.