Il diamante di Paolino

Ida Baccini

1901 Indice:Il diamante di Paolino.djvu letteratura/Letteratura per ragazzi/Scritture di donne letteratura Il diamante di Paolino Intestazione 10 dicembre 2013 100% letteratura

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Ida Baccini




Il diamante
          di Paolino

(Storiella misteriosa)



SUDAVIT ET ALSIT
SUDAVIT ET ALSIT



PALERMO

CASA EDITRICE - SALVATORE BIONDO

VIA ROMA N.54


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CC
oloro, e non sono pochi, che hanno trascorso qualche tempo tra i pittoreschi monti di B... devono aver sentito parlare spesso della volùta, serpente alato, creatura magica, che traversa il cielo, simile ad una stella cadente, si tuffa nelle onde, e porta in fronte un diamante fulgentissimo, grosso come una noce. Molti credono che la volùta non sia altro che il simbolo della fortuna che essa raffigura con la rapidità del suo volo, lo splendore della sua gemma e le contorsioni capricciose del suo corpicino elegante.

Ciò che i vecchi nonni affermano si è che la volùta prima di tuffarsi nelle sorgenti solitarie e ne’ ruscelli misteriosi, lascia sulla sponda il magnifico diamante che è il suo cuore, la sua pupilla, la luce sua. Se nel momento in cui ella s’abbandona al piacere dell’immersione, qualcuno potesse destramente impadronirsi di quel diamante senza prezzo, celato nel cespuglio più folto, questo qualcuno non avrebbe più bisogno di lavorare: poichè nessuna miniera terrestre ha mai svelato allo sguardo avido dell’operaio e dello studioso un diamante più splendido.

[p. 6 modifica]Tutti gli ambiziosi e i sognatori dei monti di B... hanno vagheggiato la conquista di quel tesoro: tutti, rimpiattati dietro le siepi, hanno spiato la venuta della strana serpicina. Io stessa mi ricordo negli anni della mia fanciullezza d’aver fatto più volte la posta alla volùta con l’intendimento crudele di rapirle il suo unico occhio.

Ma è probabile che la vecchia serva dalla quale attingeva notizie circa le abitudini del serpente, fosse male informata; giacchè non m’è mai riuscito di vederlo mai; nè ho potuto quindi rubargli il diamante famoso.

Ma un certo Paolino Delbosco riesci a rubarglielo e a farsi ricco. Ora, è appunto questa storia ch’io voglio raccontare, oggi, alle bambine e ai bambini buoni. Attenti dunque.



Paolo Delbosco era il figliolino minore d’un onesto vignaiolo di Montalvo, il quale con le sue abitudini ordinate e laboriose era pervenuto a mettere insieme qualche soldarello. Di sei be’ ragazzi che il cielo gli aveva dati, quattro maschi e due femmine, i quattro primi erano stati avvezzati, fin da piccini, a partecipare secondo le loro forze, alle fatiche del babbo e della mamma. Mentre i giovinetti seguivano il padre nei campi, le due fanciulle aiutavano la mamma nelle faccende domestiche; governavan le bestie, mungevano il latte e filavan la canapa per metter nell’armadio que’ bei rotoli di panno greggio, che sono l’orgoglio delle massaie giudiziose e previdenti.

Paolo nacque quando la famiglia cominciava a godere un po’ d’agiatezza, conquistata lentamente e a prezzo di tanto sudore. Più felice dei suoi fratelli venne affidato alle cure del pievano, un buon vecchione che faceva una somma in un batter d’occhio e sapeva legger [p. 7 modifica]corrente in qualsiasi libro. La mamma di Paolino che adorava il suo ultimo rampollo, non badò a sacrifizi per istruirlo come si conveniva, e i polli, le bocce dell’olio, e le dozzine d’uova erano sempre in processione dalla casa Delbosco alla Canonica. La Canonica però non se ne stava e in uno slancio di riconoscenza giunse perfino a dar qualche lezione di latino al docile quanto liberale scolaretto. La mamma era al quinto cielo e già vagheggiava pel figliolo adorato la toga del notaro o la nera sottana del prete. Sogni vani quanto imprudenti.

Una sera in cui Paolo aveva portato a casa un attestato di lode, scritto a stampatello, con la firma del pievano tutta a svolazzi, il babbo Delbosco disse con un tono che non ammetteva discussioni:

— Ora basta. Paolo ne sa abbastanza e smetterà di frequentare la scuola. Io son contento di vederlo così istruito nel leggere, nello scrivere e nel far di conto; ma egli ne sa più di quel che non ne sappia io che ho cinquantanni, suonati da un pezzo; io non voglio far di lui un signorino in lenti e guanti di pelle, mentre i suoi fratelli zappano la terra e piantano le viti. Noi siamo contadini di padre in figlio; tutti gente rozza, ma onesta e dabbene... Dunque il ragazzo sarà vignaiolo come noi, e cominciando da domani seguirà i suoi fratelli nel podere.

La povera madre, nell’udire una simile sentenza, si sentì stringere il cuore; ma avvezza a venerare nel suo uomo la rettitudine de’ principî e la bontà del consiglio, capì che aveva ragione e abbassò il capo, muta e rassegnata.

— D’altra parte, pensò, se il mio Paolino è destinato a diventar qualche cosa di grosso, il buon Dio gli aprirà una strada. Non l’aprì, forse, a quel pecoraio del Mugello e a quell’altro povero diavolo che s’arrampicava [p. 8 modifica]alla finestra d’una scuola per udir le lezioni senza spesa? Da cosa nasce cosa. Rimettiamoci nel Signore.



Paolino prese la zappa e se ne andò pei campi, co’ suoi fratelli a lavorare nella vigna. Ma non ci voleva un osservatore molto sottile per capire subito quanto quella fatica riuscisse grave al povero ragazzo. Nondimeno, zappava e s’ingegnava a potare e ad innestare con una faccina sorridente che rubava i baci. Quella serenità, lasciatemelo dire, dolorosa, colpì tutti, e i suoi fratelli che sulle prime non avevano potuto fare a meno di provare un po’ di gelosia per il bel signorino che sapeva leggere in qualunque libro, furono così commossi da quella rassegnazione, che, quando il babbo non li vedeva, levavano la zappa di mano a Paolino e facevano loro il lavoro destinato a lui. Il giovinetto cedeva ringraziando, si sdraiava sopra una piccola altura erbosa dalla quale si dominava tutta la vallata e passava le ore più calde del giorno a guardare e a fantasticare.

La sera, quando tutti erano riuniti intorno alla grande tavola d’abete, egli se ne stava con la testa appoggiata sulle mani, tutto intento ad ascoltar le novelle, raccontate da qualche vecchierella. La volùta, specialmente, era quella che lo colpiva, la volùta, con quel suo splendido tesoro sulla fronte, era fatta apposta per sedurre la fantasia d’un giovinetto di tredici anni. Perfin la notte, nei suoi sogni, Paolino vedeva risplender nel buio il fatato diamante, che egli poi andava a cercare, nei crepuscoli mattutini, lungo la riva del fiume. A furia di custodirlo, questo sogno nella sua immaginazione, prese la consistenza di un pensiero fisso, imperioso; e il fanciullo finì col persuadere sè stesso che un giorno avrebbe potuto possedere la bellissima gemma.

[p. 9 modifica]Una sera d’autunno aveva come il solito girondolato a lungo tra i canneti, allorchè in mezzo ad un ciuffo d’erba gli parve di veder risplendere come una stella. Gettare un grido, chinarsi e ghermire quel tesoro di luce e stringerselo forte, passionatamente al cuore, fu un punto solo. Ma nello stesso tempo un gemito straziante, ripetuto da tutti gli echi della vallata, gli ferì gli orecchi: era il povero serpentello che tornato a riva dopo la serale lavanda non trovava più l’unica sua pupilla.

Paolino Delbosco ebbe un momento di gentile esitazione: renderebbe alla desolata creatura ciò che formava il bene supremo di lei?

Oh! sarebbe stata una grande, imperdonabile debolezza! Corse a casa affannato, col cuore che gli si spezzava per le accelerate pulsazioni e, senza farsi vedere da nessuno, si rintanò nella sua stanzetta e scivolò a letto.

Sua madre, inquieta, andò a battere all’uscio, ma lui fece finta di dormire e non rispose.

Oh! egli aveva ben altra voglia che di dormire! Teneva stretto fra le mani il diamante e a traverso il velo delle palpebre abbassate vedeva schiudergli davanti un mondo nuovo, rifulgente d’oro e di gemme, popolato d’angeli che cantavano e danzavano sotto un cielo azzurro rischiarato da innumerevoli soli. Udiva è vero, di tanto in tanto, risonar nel silenzio il gemito della volùta; ma quando un figliuolo ha fatto il sordo alla voce di sua madre, non può mostrarsi troppo sensibile a quella d’un mostro.

Vòltati di qua, vòltati di là, finì col prender sonno, che non somigliava punto a quello delle altre notti.




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II.


La mattina dopo era domenica e fin dalle prime ore del mattino, tutta la famiglia era in moto per andare alla messa. Le ragazze tiravano fuori dall’armadio i loro vestiti più belli e gli sciallini più sfarzosi, i giovanotti, con le belle camicie di bucato e i capelli lisci come specchi parevan tanti sposi; perfino il babbo Delbosco si guardava con una certa compiacenza la giacchetta scura brizzolata di rosso e la ciarpina di seta gialla, lavorata a modano dalla ragazza maggiore.

Paolino solo trovò la scusa di un mal di capo per rimanersene in casa. Da più di due ore stava seduto sul letto, contemplando in tutti i versi la gemma fatale. Bisognava prender qualche risoluzione e — prima di ogni altra cosa — occorreva partire, lasciare quel paesuccio sepolto fra i monti e andarsene a godere la vita in una bella e popolosa città, a Milano, per esempio! Ma come fare a impedire le lacrime, gli spasimi, le disperazioni dei suoi e segnatamente di sua madre che lo adorava? Meglio partire alla cheta, senza dir nulla a nessuno. Dopo, avrebbe scritto e avrebbe mandato quattrini a palate.

Non appena vide prendere ai suoi parenti la via della chiesa, egli fece un piccolo fagottino degli oggetti più necessari, lo infilò in un bastone, aprì pian piano l’usciolino di cucina che dava sui campi e, via!

Giunto in vetta al poggio che si chiama, non so perchè, la Bella Silenziosa, si fermò un momento a contemplare la vallata di Montalvo che gli si stendeva ai piedi, in tutta la sua fresca e artistica bellezza. Guardò a lungo i monti, i boschi, i vicini pomari, il fiumicello terso che gorgogliava sotto il vecchio ponticello di [p. 11 modifica]Si avvicinò a Paolo col cappello in mano... [p. 12 modifica]mattoni anneriti; guardò con una certa commozione la casa paterna che pareva un punto bianco in mezzo al verde cupo dei frutteti; lontano lontano, come la voce della mamma che gli si raccomandasse piangendo, giunse fino a lui il suono della campana parrocchiale, ma il nostro Paolino voltò le spalle al paesaggio, si tappò gli orecchi e giù, a precipizio per la china.

In capo a tre ore egli entrava in città.



Una volta arrivato, non seppe più qual direzione prendere. Teneva stretta in mano la sospirata gemma, è vero: ma, dopo tutto, non si desina nè si va a letto con una gemma. Mentre girondolava a caso, voltando gli occhi a destra e a sinistra senza sapere dove battere il capo, vede un vecchino rimpresciuttito, vestito tutto di nero, che lo saluta sorridendo, ossia facendo una boccaccia spaventevole.

Le donnicciole di Montalvo, quando raccontano questa novella, giurano e spergiurano che quel vecchino era il diavolo. Ma chi lo può provare? Tanto più che quel vecchio non aveva alcuno di quei segni caratteristici per mezzo dei quali si riconosce un demonio di primo acchito, come il piè di gallo, la coda, le corna o gli occhi infiammati.

Quell’ometto, invece, aveva un aspetto decentissimo, bei modi e sguardo abbastanza onesto. Si avvicinò a Paolo col cappello in mano, gli domandò se, essendo forestiero, aveva bisogno della sua servitù e si offrì subito di condurlo in un albergo dove non ci andavano che «signori» o negoziantoni; poi, sempre camminandogli a fianco, si mostrò così gentile, così espansivo e intelligente, che Paolo non esitò più a confidargli il fine del suo viaggio.

[p. 13 modifica]— Modestia a parte — esclamò il vecchino ridendo è stropicciandosi le mani — modestia a parte, bisogna che lei, caro signorino, ringrazi Iddio di avermi incontrato. Lei, proprio, non poteva cascare in mani migliori. Io sono il cavaliere Filippi, conosciuto in tutta la provincia per il più abile ed elegante gioielliere dei nostri tempi. Non ci sono buccole di regina, non braccialetti di duchesse, nè collane di signore..... da teatro che non passino per le mie mani. Ho un laboratorio, anzi un magazzino a Milano che lei deve visitare in tutti i modi. Lì vedrà, confronterà e conoscerà il valore del tesoro che la fortuna le ha favorito. Ah! Mi rallegro! mi rallegro davvero con lei! Che si fa celia! il diamante della volùta! È tanto, sa? tanto, che mi struggevo di vederlo! Io glielo pagherò come nessuno potrebbe pagarglielo! Lei è nato vestito, mio bel giovinotto! lei entra nella vita dalla porta d’onore, dalla porta d’oro! Dipenderà da lei il far la prima figura, diventar l’amico dei signori più illustri, e sissignore, di veder da vicino il Re.

— Di vedere il Re! — esclamò Paolo che ascoltava con entusiasmo quel torrente di parole. — Lei crede che potrò avere l’onore di avvicinare il Re?

— Ma sicuramente — riprese il Filippi — io stesso gliene faciliterò il modo, se si degnerà di ascoltare i miei consigli, se vorrà riporre un po’ di fiducia nel suo servitore. Operando così non fo che obbedire alla simpatia che mi trascina verso di lei. La sua fisonomia di giovane intelligente m’ha colpito subito, mi piace! Eh! si vede subito a prima vista! Ella non appartiene alla maggioranza stupida destinata a lavorare.

— Ohimè! — disse fra sè Paolo — anche mio padre lavora e non è uno stupido: — Ma questa riflessione la fece, come ho detto, dentro di sè. Com’è possibile [p. 14 modifica]confessare d’avere il padre vignaiolo quando si è sul punto d’essere presentato al Re?

— Così dunque, aggiunse il Filippi se ella vuole affidarsi a me, prendo l’impegno di collocare il suo gioiello; conosco un signorone che darebbe parecchi dei suoi castelli per possedere un tesoro di codesta fatta. Lei partirà per Milano, dunque. Ci vo anch’io tra qualche giorno e ci troveremo là.

— Ma questo viaggio.... — balbettò Paolo.

— Ah! capisco! A buon intenditor poche parole. Eh! eh!— E il vecchietto rideva, strizzando gli occhi con malizia — lei viene dal suo villaggio col borsellino vuoto, non è vero? Ebbene provvederò io. Io le darò i denari necessari perchè possa andare dignitosamente a Milano; e affinchè non creda ad un’insidia, le lascerò nelle mani il diamante. Eh! Eh!— Nuove risate e nuovi strizzamenti d’occhio

Paolino fu sul punto di saltare al collo di quell’uomo generoso, di quell’angelo salvatore! E dire che il pievano gli raccomandava sempre di stare in guardia contro i bei parlatori, contro quelli che promettono Roma e Toma e cercano di avvantaggiarsi per sè!

— A che pensa? — chiese il Filippi.

— Ah, mio bravo signore! — rispose Paolo — Penso alla mia singolare ventura. Imbattermi in una persona del suo stampo! Voglio subito scrivere ai miei genitori per raccontar loro tutto....

— Non abbia furia. Quando avrà veduto Milano, quando a Monza sarà stato presentato a corte ( questa è cosa di cui non si può fare a meno), quando lei infine entrerà in possesso della sua fortuna principesca, allora scriverà a papà e a mammà. Si figuri come rimarranno!

— Ha ragione, riprese Paolo; — potrò anche spedir [p. 15 modifica] loro dei regali che forse solamente a Milano bisognerà comperare.

— Perfettamente. Comprerà dei bei vestiti di trina e raso a mammà, dei nastri alle signorine, e degli orologi d’oro ai suoi fratelli.

Paolino guardò il suo interlocutore con diffidenza e, per la prima volta, il timore d’essere schernito gli trapassò l’anima come una punta mortale: ma il viso del Filippi era così serio, così schietto!

— Via, via — concluse fra sè il nostro amico — egli parla sul serio; ed io son davvero immensamente ricco. Intanto erano arrivati nella strada principale della città, dov’era la ricchissima locanda dei «Tre alfieri».

Dalle finestre guarnite di tende di pizzo e di damasco rosso, uscivano torrenti di luce: e dall’ampie vetrate si vedeva il via vai dei camerieri in abito nero e cravatta bianca.

— Ecco, disse il Filippi, ecco l’albergo dei grandi signori e dei principi. Io stesso la presenterò al proprietario e domani le spedirò una discreta somma, con la quale ella potrà viaggiare a suo piacere.

Paolo, ormai, non era più in istato da muovere la più lieve obbiezione a quanto stava dicendogli il gioielliere. Si sentiva dominato, affascinato dallo sguardo, dall’accento di quell’uomo così strano e così generoso.

La sera, quando si trovò solo in camera, e riandò col pensiero a tutte le sue fortunose vicende, non potè fare a meno di piangere di gioia, e s’addormentò, l’ingrato, dimenticando affatto che in un angolo ignorato della terra, una povera mamma piangeva per lui.



La mattina dopo, provvisto largamente di denari e di abiti, Paolino Delbosco si metteva in viaggio per Milano.

[p. 16 modifica]Due ore dopo il suo arrivo, Paolino girondolava a caso in mezzo a quella bella città, della quale a Montalvo si parlava come d’una regione incantata.

Dalla via Torino, dove aveva scelto, secondo i consigli del Filippi, una locanda elegantissima, egli s’era diretto verso la galleria e si fermava estatico a guardar tutte le botteghe smaglianti di dorature e d’ornati. Non è a dirsi la sua meraviglia, allorchè scorse, in mezzo ad un caos di persone, di cavalli e di carrozze il premuroso gioielliere.

— Oh! Dio buono! — esclamò il giovane correndogli incontro; siete proprio voi, signore?

— Sì, caro — rispose il Filippi con tono gioviale sono io in carne ed ossa.

Io dispongo di mezzi di locomozione molto più speditivi dei vostri e mi trovo a Milano da due giorni. E posso dirvi che non sono stato colle mani in mano. Prima di tutto ho veduto il personaggio che, secondo ogni apparenza, comprerà il diamante. Poi ho pensato a trovarvi un alloggio conveniente, visto e considerato che un signore come voi non può restare in una locanda.

Avrete una bella palazzina, servitù, carrozza e cavalli. Potrete, se vi piace, cominciar da oggi stesso la vostra vita di gentiluomo. Intanto mi favorirete la gemma affinchè la possa far vedere alla persona che desidera acquistarla.

Io vi farò rimettere qualche migliaio di scudi per i vostri minuti piaceri, e quando li avrete finiti me ne chiederete degli altri. Eccovi il mio indirizzo, scrivetemi o venite a trovarmi.

La mia casa vi sarà sempre aperta...

Paolino Delbosco era passato da otto giorni per la trafila di tante emozioni, che quelle parole non lo scossero nemmeno.

[p. 17 modifica]Accettò, senza riflessione alcuna, le strane proposte che gli venivano fatte, ricevè i danari e prese possesso, senza far troppe cerimonie, della casa ridente e sontuosa che il Filippi gli aveva preparata.

A fare il signore ci si abitua subito; anzi, quando ci si ritrova improvvisamente a mutare stato, o per essere più esatti, a migliorarlo, non ne sentiamo alcuna meraviglia. Tanto è vero che siamo stati creati per la felicità!

Entrando nei salotti eleganti della nuova sua casa, il nostro ex contadinello si trovò trasformato, gli parve che quel lusso non gli fosse nuovo e prese subito il tono imperioso a duro dei giovani viziati.

Strapazzava i camerieri, e parlava d’alto in basso alle persone di condizione inferiore alla sua. Ebbe ben presto un amico; ma che dico?... uno? ne ebbe cinque, dieci, tanti da non poterli contare. E tutti giovani di nobile casato, con le scarpette a punta, col solino alto fino al mento, con la caramella all’occhio e il fare beffardo e insolente.

Sulle prime tutti lo chiamavano cavaliere; ma in capo a qualche settimana, un piccolo conte un po’ spiantato fece la scoperta che un antenato di Paolo aveva il titolo di marchese. Non ce ne volle di più perchè tutti in coro lo chiamassero da quel giorno il marchesino Del Bosco.

E il nostro eroe, dal canto suo, sapeva compensare nobilmente simili indiscutibili prove di devozione e d’affetto, invitando quasi sempre gli amici a lauti conviti, a sollazzi d’ogni maniera.

Non ci sarà bisogno di molte spiegazioni per far capire ai miei lettori come con un tal sistema di condotta, i denari dovessero volar via molto lesti. E volarono tanto, che in capo a poche settimane il marchesino si presentò alla cassa del Filippi.

[p. 18 modifica]— Bravo il mio gentiluomo! — esclamò il gioielliere vedendolo entrare. Noto con piacere che se la fortuna vi ha trattato bene, voi non mancate di fare onore ai suoi favori. Il diamante non è ancora venduto, ma fra poco l’affare sarà concluso, spero. Intanto, eccovi qui nuove anticipazioni, affinchè possiate continuare senza interruzione cotesto simpatico tenore di vita.

Così parlando, il gioielliere aveva nello sguardo una insolita e così fredda espressione di beffa che Paolo ne rimase stupito. Ma prese nonostante la nuova somma e se ne andò con passo svelto e con cuore leggiero.



La settimana dopo tornò a chiedere la medesima somma e lo stesso avvenne in capo ad alcuni altri giorni. I pranzi, le feste, il giuoco si alternavano con rapidità spaventosa, e il nostro marchesino era diventato l’idolo di tutti gli eleganti sfaccendati di cui pur troppo formicola Milano.

Quando si presentò l’ultima volta al Filippi per chiedergli nuovi denari, questi lo accolse con una risata aspra e maligna.

— Bravissimo! — esclamò — Bravissimo! Ella ha imparato a maraviglia l’arte di dar fondo a una miniera; in due mesi ha sprecato il patrimonio di un conte; è vero che lei è un marchese ecco le sue ricevute colla notizia poco lieta che io non sono riuscito a vendere il diamante. Resta perciò sottinteso che pel momento non posso darle altre anticipazioni.

— Possibile! — esclamò Paolo il quale aveva preso, appunto in quel giorno, parecchi impegni costosi.

— È possibilissimo, perchè è così.

— Ebbene, mi renda allora il mio diamante.

[p. 19 modifica]Due guardie di sicurezza, attirate... [p. 20 modifica]— Non chiedo di meglio, se Ella ha la bontà di restituirmi quanto Le ho prestato.

— Miserabile! — strillò Paolo tutto infuriato.

— Non ci facciamo prendere dalla collera, mio bel signorino. Io ho in mano il suo diamante e Lei ha i miei denari. Me li renda e tutto sarà finito.

— Ma Lei sa che ciò mi è impossibile!

— Io so che Lei è un giovane di belle speranze e che possiede gli amici più nobili che si possano trovare sotto il sole. Vada a chieder loro quelle poche centinaia di migliaia di lire che Ella mi deve, e saremo subito d’accordo. Scusi, o non gliel’hanno giurato mille volte che per lei sarebbero stati pronti a dar la vita? Infine non si tratta che d’una miserabile questione di denaro. Che cos’è il denaro, quando si è veri amici?

A queste ultime parole, pronunziate con insolente ironia, Paolo non potè contenersi e si slanciò sul gioielliere prendendolo per il petto.

— Aiuto! Aiuto! — gridò con voce soffocata il Filippi.

Due guardie di sicurezza, attirate da quel frastuono, entrarono in bottega e visti quei due allacciati così strettamente, li arrestarono e li condussero in carcere.

Non appena Paolo, affranto da una tale catastrofe, ebbe ricuperato l’uso della riflessione, chiese l’occorrente per scrivere e si rivolse ai suoi fedeli amici, non tanto per narrar loro l’indegno oltraggio ricevuto, quanto per invocare dal loro affetto un soccorso pronto ed efficace. Passò un giorno, ne passarono due, tre, cinque, e nessuno si fece vivo. La mattina del sesto giorno udì la voce di un carceriere che diceva ad un suo compagno:

— Sicuro, quel giovanottino, che all’apparenza sembra un San Luigi, è un ladro matricolato che ha rubato uno dei più bei diamanti conosciuti; e, per di più, ha sottratto una grossa somma al gioielliere Filippi.

[p. 21 modifica]— Che cosa mi dici? ne sei proprio sicuro?

— Te lo posso affermare, poichè questo bel mobile si è spacciato per un gran signore ed ha buttato, si può dire, i danari dalla finestra. A me queste cose le ha raccontate il viscontino Basani che era l’amico più intimo del marchese Del Bosco.

Il viscontino Basani era infatti il giovane per il quale Paolo aveva sentito maggior tenerezza.

Ognuno si figuri come il povero figliolo rimanesse a questa dolorosa scoperta. Esser traditi da chi amiamo è spasimo che non si descrive. Si gettò bocconi sul letto prorompendo in singhiozzi disperati.



Chiamato davanti ad uno dei funzionari di polizia il giorno stesso in cui aveva fatto quella dolorosa scoperta, Paolino Del Bosco riprese, per un effetto di reazione, la sua primitiva ingenuità e raccontò semplicemente, francamente, tutto quanto gli era avvenuto dal giorno in cui aveva trovato il diamante della volùta, fino a quello nel quale era stato sì ignominiosamente trascinato in fondo ad una prigione.

Ma il magistrato che lo interrogava giudicò la storia del serpente come una sfacciata menzogna e dette ordine affinchè l’infelice giovinetto fosse trattato con maggior severità. In quei tempi, e specialmente a Milano, si cominciava a non dar più tanta fede alle fiabe popolari. Quel magistrato, d’altra parte, era troppo avvezzo alle false proteste d’innocenza di tanti sciagurati per prendere sul serio quelle di Paolo.

Frattanto si venne a sapere che il gioielliere, rinchiuso come Paolo in una prigione angusta, aveva potuto svignarsela senza che l’accortezza dei carcerieri [p. 22 modifica]potesse indovinare da quale spiraglio, da qual miracoloso crepaccio fosse potuto passare.

Quest’incidente inesplicabile e che non poteva attribuirsi che ad un potere magico, sparse una prima luce favorevole sul giovane avventuriero. Ammesso un sortilegio in quello strano affare, non era difficile ammetterne un secondo. Poi, per fortuna, un giudice che aveva molto viaggiato e conosceva minutamente le tradizioni popolari più diffuse, parlò eloquentemente della famosa volùta ed ammise che il povero giovane avesse rinvenuto la gemma fatale.

Perciò Paolo venne dichiarato innocente del delitto di cui era stato accusato, e fu messo in libertà.



Non è a dirsi l’esplosione di gioia con cui Paolo riprese possesso della sua libertà, della sua parte di luce e di sole! Era libero! Respirava l’aria pura, poteva andare e venire a suo piacere! Ma, ohimè! Si trovava solo, senza un picciolo, privo d’amici, di parenti, d’un’anima pietosa che compatisse la sua profonda miseria, il suo meritato avvilimento! Il sentimento dei suoi falli e delle sue stravaganze gli strinse il cuore come una tanaglia di ferro. Sedette o piuttosto si lasciò cadere sopra una panca, in una strada silenziosa e pregò Dio piangendo. Lo pregò con le stesse parole che gli aveva insegnato la mamma, quand’era piccino.

Dopo, si sentì rianimato, sereno, leggero; e senza metter tempo in mezzo, riprese la via del suo paese.

Oh! sì! Ei la percorse lacrimando la via sulla quale era passato pochi mesi avanti, col cuore in festa, con la testa esaltata da folli sogni di grandezza! Alla fine di quella via era l’asilo sicuro, il tetto paterno, il pacifico focolare a cui poteva riaccostarsi.

[p. 23 modifica]A poca distanza da Milano, incontrò un contadino che lo aiutò a cambiare il suo bell’abito elegante in una giacchetta e in un paio di calzoni di rigatino.

Quando giunse in vetta alla collina da cui s’era voltato per dire addio al suo villaggio, sonava mezzogiorno a tutte le chiesòle dei dintorni. Era di maggio.

Da’ prati, dalle siepi, dal fitto dei boschi saliva il profumo di mille fiori; gli uccelli trillavano allegramente tra le fronde tenerelle degli alberi le acque limpide del fiume scorrevano fra due siepi di papaveri fiammanti e di bianche margherite; e su, in alto, fra una corona di cipressi, rosseggiava il campanile della chiesa ove Paolo era stato battezzato: dove il suo primo maestro, buon pievano, gli aveva insegnato ad essere buono e caritatevole.

Ed il paesaggio si animava.

Qua e là, tra i cespugli, apparivano e scomparivano contadine che portavano il mangiare ai loro uomini, bambinucci scalzi col visino imbrattato di sugo di ciliegie, garzoni scamiciati, coi cappelloni di paglia calati sugli occhi...

— Mio Dio! mio Dio! — gridò Paolo giungendo le mani e guardando a traverso le lacrime il quadro stupendo che gli si stendeva sotto gli occhi. — E dire che io, volontariamente, aveva rinunziato a questo paradiso! Mio Dio! Mi perdonerete voi mai?

Si inoltrò vacillando verso la vigna in cui aveva lavorato con i suoi fratelli e giunto ad una specie di poggiarello, celato da una fitta siepe di mortella, potè scorgere tutta la sua famiglia sdraiata a terra, intenta a fare onore al pasto frugale del mezzogiorno.

Al babbo erano imbiancati tutti i capelli e la mamma — povera vecchia — mangiava stentatamente in silenzio. A quella vista, non seppe più contenersi e [p. 24 modifica]cacciò un grido, un grido di cui nessun linguaggio umano varrebbe a ritrarre l’espressione.

— Mamma, mamma mia! — esclamò. — E la sua voce si spense sotto i baci furiosi, sotto i singhiozzi soffocati della felicissima madre.

— Sei tu! — disse il babbo aprendogli le braccia alla sua volta e serrandolo sul suo cuore — sei tu! Ben tornato, figliolo mio. Vieni, ristorati, riposati. Olà — disse rivolgendosi agli altri figlioli che non si saziavano di baciar Paolo — olà andate in cantina a prendere un buon fiasco di vino del migliore — e tirate il collo a due polli. Il figliolo che credevamo perduto, è tornato!

— Oh, babbo — balbettò il povero giovine — oh, babbo, vi racconterò...

— Non voglio saper nulla. Sei tornato?

— Sì.

— Per sempre? Per lavorare? Per essere un galantuomo?

— Sì, sì, sì!

— E allora, figliuolo, abbracciami e non si parli più di nulla!

Paolo nascose il capo pentito sul seno paterno e si addormentò dolcemente.


FINE
FINE