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loro dei regali che forse solamente a Milano bisognerà comperare.

— Perfettamente. Comprerà dei bei vestiti di trina e raso a mammà, dei nastri alle signorine, e degli orologi d’oro ai suoi fratelli.

Paolino guardò il suo interlocutore con diffidenza e, per la prima volta, il timore d’essere schernito gli trapassò l’anima come una punta mortale: ma il viso del Filippi era così serio, così schietto!

— Via, via — concluse fra sè il nostro amico — egli parla sul serio; ed io son davvero immensamente ricco. Intanto erano arrivati nella strada principale della città, dov’era la ricchissima locanda dei «Tre alfieri».

Dalle finestre guarnite di tende di pizzo e di damasco rosso, uscivano torrenti di luce: e dall’ampie vetrate si vedeva il via vai dei camerieri in abito nero e cravatta bianca.

— Ecco, disse il Filippi, ecco l’albergo dei grandi signori e dei principi. Io stesso la presenterò al proprietario e domani le spedirò una discreta somma, con la quale ella potrà viaggiare a suo piacere.

Paolo, ormai, non era più in istato da muovere la più lieve obbiezione a quanto stava dicendogli il gioielliere. Si sentiva dominato, affascinato dallo sguardo, dall’accento di quell’uomo così strano e così generoso.

La sera, quando si trovò solo in camera, e riandò col pensiero a tutte le sue fortunose vicende, non potè fare a meno di piangere di gioia, e s’addormentò, l’ingrato, dimenticando affatto che in un angolo ignorato della terra, una povera mamma piangeva per lui.



La mattina dopo, provvisto largamente di denari e di abiti, Paolino Delbosco si metteva in viaggio per Milano.