Il colore del tempo/Il genio e l'ingegno
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IL GENIO E L’INGEGNO
«A quel massimo degli umani intelletti, Paolo Sarpi, ragionevolmente parve lo straordinario ingegno una prontissima passività a ricevere e riprodurre in sè anco le minime impressioni degli oggetti o sensibili o intelligibili, e però non altro che una straordinaria e male invidiata malattia, la quale i moderni fisiologi nel moderno linguaggio chiamerebbero lenta encefalite».
Queste righe di Pietro Giordani potrebbero trovar posto nei Precursori del Lombroso del dottor Antonini. Dove il prosatore piacentino diagnosticava una encefalite lenta, i filosofi contemporanei vedono, con l’autore dell’Uomo di genio, una nevrosi, una psicosi, una forma di epilessia. Max Nordau è stato seguace tanto fervente del Lombroso, che ha esteso la teoria oltre le intenzioni del maestro, sino a considerare la più gran parte degli ingegni artistici universalmente ammirati ai nostri giorni come il prodotto di una degenerazione; e Degenerazione appunto ha intitolato il libro nel quale ha discusso l’opera del Wagner e del Baudelaire, del Nietzsche e del Verlaine, del Tolstoi e del Maeterlinck, dello Zola e dell’Ibsen, non già da critico, ma da clinico; e da clinico non pietoso e neppure sereno, ma sgraziato e furioso contro i pazienti. Ora egli mette fuori un volumetto sulla Psico-fisiologia del genio e dell’ingegno, dove il lettore si fermerà stupito a questo passo: «Se io non dico nulla sulle cause che producono il genio, perchè sono ancora ignote, dirò qualche parola sulle relazioni del genio con la pazzia. Altri ha voluto assimilare le due cose. Per un gran numero di alienisti il genio è una nevrosi. Il mio illustre maestro Lombroso è più preciso: il genio è una forma di epilessia; dunque sempre patologico, dunque sempre degenerato. Io credo che questo sia un errore...».
È proprio Max Nordau quello che scrive così? Abbiamo in mano un libro dell’autore di Degenerazione, o non piuttosto quella Fisiologia del Genio dove Giovanni Gallerani ha sottilmente confutato le affermazioni del Lombroso e della sua scuola intorno alla natura patologica delle menti sovrane?
Le parole citate sono proprio del Nordau. E se il caso d’un discepolo ribelle al maestro è sempre notevole, tanto più notevole è questo, quanto che si riferisce ad una quistione palpitante, come si dice, di attualità.
I.
Veramente il Nordau non crede di essersi ribellato al Lombroso, ed è sicuro di essere rimasto d’accordo con sè stesso. Egli distingue i genî autentici da quelli che ne usurpano il nome ed il posto; e dice che, mentre il genio falso è certamente degenerato, il vero genio non è insano; può talvolta patire gravi disordini cerebrali, ma non già perchè nativamente infermo, bensì come scotto della rara potenza dei suoi organi. Lo scrittore crede pertanto di non lasciarsi cogliere in contraddizione: se nel suo primo libro diede nominatamente dell’idiota e del mentecatto a tanti ingegni novatori, ora li mette tutti in un fascio, biasimando che si chiami genio «l’imbecille estatico che si atteggia a profeta o ad artista e che sbalordisce con la sua assurda stravaganza la parte più disgustosa dell’esercito dei filistei: gli snobs estetizzanti...».
Ma il tentativo del Nordau per evitare la contraddizione non è riuscito. Lasciamo per un momento da parte la distinzione fra genî autentici e pseudo-genî, fra genî di primo e di ultimo ordine: consideriamo il genio cui il Nordau concede di chiamarsi tale. Come il Gallerani, egli dice che la potenza di questo spirito straordinario, non solo non dipende da una lesione, da una infermità, ma è anzi l’effetto della perfezione, organica. Note anatomiche speciali egli nega al semplice ingegno; negli uomini d’ingegno non si troverebbe un sostrato organico particolare, uno sviluppo tutto proprio dei centri nervosi. Ogni uomo normalmente costituito può quindi essere uomo d’ingegno e riuscire ottimamente in una disciplina qualunque. Portando alle ultime conseguenze questo suo concetto, il Nordau afferma che l’ingegno non esiste, o almeno che con questo nome non bisogna intendere nulla di specifico: le persone che emergono in una determinata scienza o arte debbono questo risultato non ad una speciale qualità del loro cervello, ma al caso, cioè alle circostanze esteriori per forza delle quali furono spinte a coltivare quella scienza o quell’arte, e all’«applicazione», cioè alla severità, all’assiduità, alla coscienza con la quale la coltivarono.
Tale modo di vedere non persuaderà molti; già il Sighele ha dichiarato che, senza la sua grande ammirazione per il Nordau, questa proposizione dello scrittore tedesco lo farebbe sorridere. Lo scrittore italiano giustamente osserva come tra due fanciulli posti nelle identiche condizioni, educati allo stesso modo, mandati a frequentare la stessa scuola, appariscano attitudini, vocazioni, tendenze diverse ed opposte: il fatto si ripete ogni giorno sotto i nostri occhi, e non si può spiegare senza ammettere quelle doti innate, quelle capacità originarie che il Nordau disconosce. La vocazione per una determinata attività è il più delle volte, a suo giudizio, una cosa tutta negativa; in altre parole: un giovane si mette a studiare, per esempio, la matematica, non già perchè si senta chiamato alla scienza, ma perchè è negato all’arte. Ora queste repugnanze, che sarebbero l’origine delle vocazioni, il Nordau le spiega con una deficienza organica, con una mancanza di sviluppo. Per non voler concedere un sostrato organico alle attitudini, egli lo ammette nelle inattitudini. È lecito dubitare dell’utilità di questa sostituzione e credere che sarebbe stato più semplice assegnare un fondamento anatomico alle capacità.
Negate le naturali qualità dell’ingegno, egli le riconosce nel genio, ed afferma che l’uomo di genio differisce dall’uomo normale per uno speciale sviluppo di due centri cerebrali: i centri del giudizio e della volontà. Ma dove siano e come siano fatti questi centri, egli non dice e non può dire, perchè ancora nessuno li ha visti. «Quali sono», gioverà riferire le sue stesse parole, «questi centri, non sappiamo ancora esattamente; ma col tempo saranno scoperti». Siamo dunque nel campo della pura ipotesi; e certo, data l’angustia dello spirito umano paragonatamente alla formidabile e paurosa grandezza dei problemi che gli sono proposti, l’ipotesi non è uno strumento da disprezzare; ma, prendendo le mosse da semplici supposizioni, il Nordau arriva a conclusioni troppo assolute e veramente discordi. La sua massima argomentazione contro il principio lombrosiano della patologia del genio è la seguente: asserito dapprima che il genio è evolutivo, egli stesso comincia a dubitarne, e presume soltanto che consista nella prima comparsa, in un singolo individuo, di funzioni nuove e perciò di tessuti nuovi, o almeno straordinariamente modificati, i quali diverranno «forse» tipici nella intera razza; quindi chiede: «Ora c’è esempio che una neoplasia patologica sia evolutiva?» Egli ha già dimenticato il «forse» di due righe prima, ha preso per un fatto comprovato ciò che è e che egli stesso riconosce essere una mera ipotesi. E lasciamo anche andare che, mentre nelle operazioni del genio assegna una parte minima al caso, vuole poi che questo caso sia arbitro dei destini dell’ingegno; e lasciamo anche andare che, dopo aver fatto dipendere l’ingegno, oltre che dal caso, anche dall’«applicazione», la quale non è altro che volontà, sostiene poi che solo nel genio il centro della volontà è straordinariamente sviluppato, mentre nell’ingegno resta assolutamente eguale a quello di tutti gli uomini normali.
Si dovrà pertanto affermare quel che il Nordau nega, cioè che il genio e l’ingegno differiscono in quantità, non mai in qualità? La conclusione non è questa. Tra la costituzione fisio-psicologica dell’uomo comune e dell’uomo d’ingegno, di un qualunque militare, per esempio, e di un buon condottiere, non è possibile che non vi sia differenza alcuna, nè di qualità, nè di quantità; si potrà tutt’al più concedere che la differenza sia soltanto di quantità; ma quella che passa tra un buon condottiere e Napoleone è senza fine maggiore, così profonda e radicale, che Napoleone, l’uomo di genio, pare veramente d’un’altra tempra. Il concetto lombrosiano secondo il quale la diversità consisterebbe in una anomalia, ha fautori convinti ed avversarî vivaci: certo è però che il Nordau, dopo averlo seguito, lo nega senza suggerirne uno più soddisfacente.
II
Ora, come si spiega il mutamento dello scrittore tedesco?
Questa teoria lombrosiana ha suscitato, specialmente negli ultimi tempi, vivaci opposizioni; ma esse procedono da ragioni che non possono essere quelle del Nordau. Ha principalmente nociuto al concetto del Lombroso l’abuso che se n’è fatto. Molti studiosi che lo condividono, e lo stesso maestro che lo ha formulato, ne hanno cercato e addotto nuove prove; ma le prove, certune almeno, si sono ritorte contro di esso.
Per esempio: Cesare Beccaria avrebbe patito di megalomania, perchè, come scrive il Verri, «quando è lodato è pazzo di vanità, ha dello spirito, è brillante. Fate che si cominci a trascurarlo, ch’egli per lo stesso principio vi abbandona e mette la coda in mezzo alle gambe come un bambino». Ma ciò accade non soltanto al Beccaria, sibbene a tutti i filosofi e ad ogni semplice mortale: la lode solletica e la trascuraggine umilia. È questo un sintomo patologico, o non piuttosto il giuoco naturale delle passioni, la legge eterna dell’umana natura? Il grado, l’intensità di questa reazione potrebbe dimostrarne la gravità, il carattere morboso; ma noi non possiamo misurare le reazioni avvenute in chi non è più, sulla fede di ciò che ne scrisse un amico, il quale per suo proprio conto obbediva alla stessa legge delle stesse passioni. La megalomania, da un’altra parte, pare che dovrebbe essere quella di chi ha un concetto di sè troppo grande e sproporzionato alle reali sue qualità; quindi il genio non potrebbe essere, per definizione, megalomane. E, per considerare un altro caso, tutte le volte che l’uomo si propone il problema metafisico, l’ignoranza e il dubbio lo inquietano e turbano: questo è un effetto naturale, non già follia. Tanto più che, dove manca il dubbio, dove si trova una fede cieca, la scuola antropologica vede un’altra follia, una monomania. In tutti questi casi, e negli altri simili, volendo trovare le prove morali della degenerazione e della pazzia, bisognerebbe procedere con somma prudenza; perchè i giudizî sui fatti morali sono molto difficili, e discutibili, e discussi; e perchè, adducendo tutte le passioni e tutti i sentimenti come altrettante prove di pazzia, si potrebbe estendere il giudizio e considerare, secondo ha fatto un certo grossolano buon senso, tutto quanto il mondo una gabbia di matti, e per conseguenza non trovare in nessun luogo l’uomo sano o, come si dice, normale. Quindi, lasciate da parte le prove mal sicure, bisognerebbe cercare le valide e innegabili; invece, l’accumulazione delle prove dubbie dà argomento di critica agli oppositori.
Ma questa non può essere la ragione del mutamento del Nordau. Perchè, non solamente egli non s’inquieta dell’ambiguità delle prove; ma, al contrario, non ha proceduto, nella sua Degenerazione, se non per via di interpretazioni abusive, di esagerazioni arbitrarie, di deduzioni temerarie.
Un’altra ragione per la quale l’affermazione della nevrosi del genio dispiace e suscita opposizione è relativa all’importanza pratica della nuova teoria. Vi sono molti che la condividono, che la credono ormai innegabilmente dimostrata. Ma questi, pure riconoscendo che l’insistenza dei suoi propugnatori è legittimata dagli attacchi degli avversarî, pensano che le prove dubbie possano essere accettate ed accumulate per eccesso di zelo, e ne domandano naturalmente il perchè. La verità è sempre amabile in sè stessa, anche quando non è feconda di conseguenze utili, di pratici adattamenti; ma naturalmente, umanamente, il maggior zelo si rivolge alla difesa delle verità utili; ora, quando si sarà dimostrato a tutti, e insegnato anche nelle scuole, che i genî sono alienati e degenerati, qual è la conseguenza pratica e dov’è l’utilità? Si metteranno al manicomio, o si sopprimeranno, come a Sparta i deboli e contraffatti? No, certamente. Si cureranno le malattie delle quali sono infermi? Neanche, se le malattie sono lo scotto e la condizione del genio, se sono lo stesso genio. Allora, che cosa si farà? Niente, o ben poco. I genî non saranno soltanto ammirati, ma anche compatiti; non soltanto lodati per la loro grandezza, ma anche biasimati per le debolezze e gli errori; la qual cosa, in verità, si è fatta sempre. Alcuni, tuttavia, combattono la teoria del Lombroso perchè temono precisamente che sia diretta, o possa portare a comprimere, a deprimere i sentimenti d’ammirazione che il genio eccita nella mediocre e infima umanità, e a scemarne l’importanza sociale. E ciò che dice, per esempio, il Roncoroni, potrebbe avvalorare il timore. Questo studioso, che il Lombroso cita a titolo di lode, afferma che il genio, il genio quale si è manifestato finora, «non è la più elevata espressione della specie. Infatti, in esso si trova un grande sviluppo di alcuni elementi psichici che, per quanto elevatissimi, non sono, per le necessità del consorzio civile, e conseguentemente per il progresso della specie, così necessarî come quegli elementi, filogeneticamente più evoluti, che in lui vediamo alterati». Ciò significa che la grandezza del genio è poco importante, è poco utile, mentre utilissime e importantissime sono le qualità che a lui mancano? La proposizione sarebbe innegabile se tutti i genî fossero grandi per un verso e deficienti per un altro; ma non pare che le cose stiano a questo modo; perchè noi vediamo, a cagion d’esempio, un genio grandissimo per i sentimenti egoisti, come Napoleone, e un altro grandissimo nel senso diametralmente opposto, come Francesco da Assisi; la stessa opposizione vediamo tra il genio filosofico del Nietzsche e quello del Tolstoi; vediamo ancora altri genî grandi per la forza della fede, ed altri per la forza del dubbio, e via discorrendo. E se le buone qualità sono scontate dalle cattive, se le qualità buone non sono buone del tutto, e viceversa, i benefici effetti del genio compenseranno i perniciosi; i genî non saranno considerati nè come indispensabili nè come inutili al procedere dell’umanità; e quella del compenso e dell’equilibrio parrà veramente una delle maggiori leggi al mondo.
Ora, per tornare al Nordau, qui pare che sia propriamente l’origine del suo dissidio con la scuola italiana. Tutta la sua ipotesi dello sviluppo speciale di speciali centri nervosi tende a stabilire una gerarchia dei genî, e delle facoltà dalle quali dipendono, gerarchia in forza della quale la sensibilità e il sentimento sarebbero inferiori al raziocinio ed alla volontà. Le produzioni artistiche lo fanno sorridere perchè, derivando soltanto da una speciale potenza sensoria e sentimentale, eccitano commozioni, ma non suggeriscono pensieri. Volentieri egli ripeterebbe con un antico matematico al finire di una sinfonia: Qu’est-ce que cela prouve? Nulla, evidentemente: la Nona Sinfonia non prova nulla, ma il Binomio di Newton non fa nulla provare. Tuttavia tale distinzione non dev’essere tanto radicale, se è vero ciò che alcuni matematici moderni vengono affermando e che il visconte d’Adhémar ha ultimamente esposto in uno studio pubblicato nella Revue des deux mondes. Questi matematici, adunque, sostengono che con i loro lavori non pensano tanto di raggiungere certi risultati positivi, quanto di procurarsi una commozione estetica; e la geometria e l’algebra e tutte le scienze esatte non sarebbero soltanto fonti di un godimento artistico, ma anche supreme forme dell’arte. Se questo agguagliamento della scienza all’arte si deve giudicare effetto di una esagerazione, non meno esagerato in senso contrario è il concetto del Nordau, secondo il quale fra arte e scienza c’è un abisso, e tutto il credito è da accordare alla scienza e l’arte ha un valore infimo. Un pianista come Listz è per lui altrettanto geniale quanto un perfetto ballerino: in entrambi l’eccellenza dipende dallo sviluppo dei centri di coordinazione dei movimenti. Il solo senso del colore produce un Mackart, cioè un uomo che sa combinare abilmente le tinte piacevoli come le sanno combinare il clamidodera, il ptilonorinco ed altri uccelli australiani costruttori di pergole multicolori. Un Beethoven o un Raffaello egli concede che si distinguano dai cani ammaestrati: ma saranno da considerare come veri genî? No. «Se il genio è giudizio e volontà a un grado di perfezione straordinario, che cosa farò dei genî emozionali, dei poeti e degli artisti? Ho ancora il diritto di ammettere che i poeti e gli artisti possano essere genî? Ebbene: questo diritto mi pare per lo meno contestabile...». I genî di prim’ordine, i soli veramente degni del nome sono i grandi capitani, i grandi legislatori, i grandi ordinatori degli Stati: con la massima lucidità di giudizio essi hanno una volontà talmente forte da sottoporre e disciplinare tutti gli altri uomini. Poi vengono i grandi inventori e scopritori, nei quali la volontà è meno geniale, perchè non lotta contro le vive forze dei simili, ma contro le resistenze passive della natura. In terzo luogo vengono i genî di solo giudizio, senza corrispondente sviluppo della volontà, cioè i pensatori, i filosofi. Finalmente, nella quarta categoria, quasi come una concessione, il Nordau comprende i poeti e gli artisti. «Questa gerarchia è la sola naturale, perchè poggiata su basi organiche», perchè determinata «dalla dignità dei tessuti e degli organi»; in altre parole: perchè le facoltà del giudizio e della volizione che formano i genî delle tre prime classi sono facoltà esclusivamente umane, senza riscontro nell’inferiore mondo dei bruti; mentre i genî di quarto ordine, i poeti e gli artisti, riconoscono la loro eccellenza dalle facoltà sensitive, le quali non sono del tutto nostre, ma comuni a noi ed agli animali.
Ora, prima di ogni altra cosa, un evoluzionista come il Nordau si vanta di essere può sostenere senza contraddizione che il giudizio e la volontà appartengano esclusivamente all’uomo, che siano apparsi in lui di punto in bianco, che non si riscontrino in grado embrionale, rudimentale, infinitamente piccolo anche nei bruti? Vuol egli mettere da parte tutta una scienza, la psicologia comparata? Certo, la distanza tra le facoltà mentali degli uomini e quelle dei bruti è enorme; ma altrettanto enorme è la distanza dalle facoltà sensitive e sentimentali nostre a quelle degli animali. Nessuno ancora ha visto un animale piangere o ridere; e l’artista che eccita in noi questi moti non li eccita automaticamente; anch’egli si serve del giudizio e della volontà. Certo le capacità si diversificano, si sviluppano variamente e si specificano in un senso o nell’altro; non abbiamo bisogno di ripetere ciò che già dicemmo ragionando dei rapporti della scienza e dell’arte; ma, perchè esse sono distinte, diremo che l’artista non ha nessuna delle facoltà umane dello scienziato, e viceversa; mentre sappiamo che sapienti e poeti furono un tempo, da Empedocle a Leonardo, e possono ancora essere, sebbene troppo raramente, un genio solo? Diremo, col Nordau, che il genio artistico «non è altro che un organetto» capace solo di ripetere meccanicamente certi pezzi di musica, mentre il genio scientifico crea liberamente? Dice egli sul serio quando afferma che il genio scientifico, filosofico, politico è «affrancato» dalle commozioni, dai sentimenti? Dove sono queste separazioni così profonde tra uomini ed uomini? Non sarà creazione, se il Nordau non vuole, quella del poeta; ma allora chi al mondo ha creato mai nulla? C’è qualcosa di nuovo sotto il sole? La creazione, se questa parola si può adoperare, non è tanto degli ordinatori di popoli, quanto degli speculatori di dottrine, quanto dei trovatori di immagini?
La classificazione dei genî non si deve pertanto fondare sulla «dignità» dei loro diversi attributi, i quali sono tutti degni egualmente; potrà solo dipendere dall’utilità delle loro opere. Un legislatore sarà maggiormente venerato che un filosofo, perchè l’opera sua maggiormente importa alla maggior parte degli uomini; uno scienziato avrà più lodi che un artista, perchè le sue scoperte sono più feconde di risultati positivi. Ma l’artista non lavora proprio ad altro che a procurarci un momento di piacere? Non può anch’egli parlare al nostro giudizio? E dato pure che non produca null’altro che sensazioni piacevoli, queste sono del tutto sterili e senza importanza notevole? La poesia non ha la sua utilità nella vita; non è, a giudizio di tanta parte del genere umano, ciò che le dà sapore e prezzo? Dice il Nordau: «Se in una tribù di Pelli Rosse sorgesse un Descartes o un Newton, sarebbe considerato come un membro inutile all’orda: ogni fortunato cacciatore d’orsi, ogni guerriero che porti già le cuti di molti cranî di nemici alla cintura, gli sarà anteposto». Certamente; ma questo esempio ha un significato contrario a quello che il Nordau gli vuole attribuire. In mezzo a Pelli Rosse non sorgono e naturalmente non possono sorgere altro che cacciatori e guerrieri; lo stesso autore ha bene osservato che in una città abitata tutta quanta da ciechi un solo veggente chiederebbe invano che si illuminassero di sera le vie. Ora, se le strade sono illuminate in tutte le città del mondo, ciò accade perchè la gente non è cieca; e se gli artisti che il Nordau tratta con tanta irriverenza sono apprezzati ed amati, ciò accade precisamente perchè la gente è capace d’intenderli. Essi non ci sono già piovuti dalla luna; escono anzi dalle vive viscere di questa nostra società dove non usa più portare alla cintura il cuoio capelluto dei nemici uccisi in guerra, ma si provano nuovi bisogni morali che chiedono urgentemente di essere appagati. E se lo stesso Nordau riconosce che soltanto per un ricordo dei tempi selvaggi e barbari si accorda anche oggi «il posto supremo al soldato», come poi vuole che Alessandro e Cesare e Bonaparte siano da chiamare genî più alti, più puri, più esclusivamente umani di Platone, di Dante, di Shakespeare? Non si potrebbe sostenere con fortuna precisamente l’opposto?
E la stessa idea di questa classificazione, di questa gerarchia, non è poco felice? Se il paragone non fosse, come dice il motto, odioso, non sarebbe inutile? Quando avremo dimostrato che Washington vale più di Vittor Hugo, forse non leggeremo più la Leggenda dei Secoli, o dovremo mettere la statua del suo autore sopra un piedistallo dieci centimetri più basso? E se, per confessione del Nordau, i filosofi dell’avvenire non stimeranno le dottrine del Darwin «più di quanto noi stimiamo oggi le teorie filosofiche di Parmenide o d’Aristotile», se il tempo distrugge le leggi come i quadri, le statue come i regni, le dottrine come gli edifizî, se tutte le cose umane sono egualmente caduche, perchè queste distinzioni?
Ma io dimentico che uno dei libri più singolari di Max Nordau porta un titolo molto significante. Si chiama Paradossi, e da quanto pare non è ancora finito.