Il cedro del Libano/La lettera

La lettera

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La fuga di Giuseppe Ornello

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LA LETTERA

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Adesso che Gina era alta e soda, una vera Giunone ancora in sottanina rosa, e ancora tanto pacioccona da pensare solo alle faccende di casa, adesso che lo stipendio del babbino era calato, e lei poteva trastullarsi con l’aspirapolvere come con uno dei giocattoli appena abbandonati, si pensò di licenziare la serva elegante quanto birbante, e prendere una ragazzina di campagna, di quelle robuste e smaliziate che lavorano più delle grandi. Venne la ragazzina, con una testina nera, due codine di trecce, due occhietti vivi, i dentini acuti: tutto di topo campagnolo, ma di quelli buoni, che rovinano interi seminati.

Lavorare lavorava: e poi si affezionò subito alla casa, agli oggetti di cucina, ed anche alla signorina, che le faceva da maestra di economia domestica. Più che affezione era un senso di ammirazione quasi morbosa: le toccava i vestiti, le scarpe, le andava sempre appresso; e sembrava, accanto alla gigantesca bambolona, una di quelle figurine disegnate a fianco di un tronco d’albero secolare per farne risaltare e misurare la grandezza.

Però Gina si accorse che Topolina, per [p. 172 modifica]quanto rispetto le dimostrasse, altrettanto non usava con le sue robucce: trovava sempre l’armadio in disordine, e nei cassetti, i nastri, i collarini, le cianfrusaglie, persino i bottoni, tutto frugato.

— Ohè, che facciamo? Lascia stare la mia roba, o se no lo dico alla signora padrona.

Spauracchio della signora padrona! Più grande per la servetta non poteva esisterne.

— Senti, signorina, ti giuro che non ho toccato un filo: non so neppure aprire l’armadio e i cassetti; te lo giuro sull’anima mia.

— E allora? — dice la bambocciona, propensa a credere.

— Allora, bisogna parlare piano però; te lo dico in confidenza: c’è, nelle case, in tutte le case, dei poveri e dei signori, un folletto invisibile, che si diverte a frugare le robe, a nascondere gli oggetti, ad aprire e chiudere: per far male alla gente, per metterla in sospetto e subbuglio; ammazzato sia.

— Ma va’, va’, va’...

— Altro che va: è proprio vero. Del resto tu, signorina, hai detto l’altro giorno che credi all’angelo custode: quello che è sempre alla nostra destra. L’hai detto? È vero, sì, perchè mi pare di vederlo, alla tua destra, anche in questo momento, tutto con le ali d’oro.

— Ma sta’ zitta; non bestemmiare.

— Vuol dire, — concluse imperterrita la servetta, — che l’altro sta dalla parte sinistra: nero come il pipistrello.


Sarà, non sarà. La fantasia di Gina è ancora come invasa da una chiara vaporosità [p. 173 modifica]mattutina, quella che, in certe giornate di marzo, precede lo sfolgorare diamantino del sole già primaverile.

Leggende, favole, novelle d’amore lette di nascosto dalla mamma, confusi desiderî e rimorsi senza causa, melanconie e pazzi impeti di gioia, si confondono in un trasparente gioco del suo cervello: il cuore non è intaccato; e neppure l’appetito e il formidabile sonno delle lunghe o corte notti dell’anno suo quindicesimo di età.

Ad ogni buon fine chiuse a chiave l’armadio e i cassetti, e si convinse che il folletto non era abbastanza sfrontato da possedere chiavi false.

Ma fu la volta dello scrittoio. Ella non andava più a scuola, e ne era felice; conservava però i suoi quaderni, possedeva carta da lettere, cartoline illustrate, calendari e buste chiuse, con dentro tutti i più misteriosi segreti di Pulcinella.

Il folletto aprì le buste, richiudendole malamente con la saliva, sfogliò i quaderni, rubò qualche cartolina con la viola del pensiero, macchiò d’inchiostro il panno del piccolo pulito scrittoio.

— Senti, Caterina; se tu ti azzardi a frugare qui ancora, ti prendo, ti lego stretta come un salame, e ti faccio rimandare a casa tua.

Questo si chiamava parlare: e Caterina si spaventò più che per lo spauracchio. Tuttavia insisteva, bugiarda per indomabile natura:

— Ti giuro che non ho toccato niente. Ma se non so leggere!

E neppure questo era vero, perchè le cartoline che arrivavano alla famiglia portavano le [p. 174 modifica]impronte delle sue dita unte: le lettere no; perché erano sempre indirizzate al padrone, e con lui non si scherzava; e poi non attiravano neppure la curiosità di Caterina. Chi poteva scrivere a un vecchio bacucco grassone, già pelato, con due paia di occhiali sul naso di patata in germoglio? Anche la signora non riceveva lettere. Fu quindi un avvenimento straordinario, un lunedì di giugno, quando Caterina, di ritorno dalla spesa, ritirò la posta, e fra alcuni giornali trovò una lettera indirizzata alla signorina Gina Martelli: proprio a lei. Busta quadrata, di quelle grigie a ghirigori che non vogliono essere eleganti ma neppure meschine; calligrafia chiara, minuta e un po’ angolosa, come quella degli intellettuali o degli studenti di matematica: (giusto, ce ne stava uno al secondo piano del palazzo); scrittura da uomo, ad ogni modo; e Caterina la sentiva dal fiuto, come il cane sente l’odore del tartufo anche se non sa che cosa è.

E Caterina non sa ancora che cosa è l’amore, ma la sua malizia va oltre questo sapere: sa che gli uomini e le donne si vogliono bene e si sposano, e ne sono tutti contenti: precisamente non sa perché; e vorrebbe istintivamente, saperlo; come appunto forse anche il cane ansioso vorrebbe sapere perchè all’uomo piace il tubero scavato tra le foglie fracide del bosco. Per questo animalesco istinto, Caterina fa sparire la lettera nel saccoccino sdrucito della sua sottoveste, e non la consegna subito alla signorina. La signorina lavora, spolvera gli usci, come vuole [p. 175 modifica]la signora mamma, e non deve essere disturbata in questa religiosa faccenda.

Anche la ragazzina fu messa a lavorare: la casa era piccola e pulita come uno specchio, ma per la padrona era un vero castello, da lucidarsi tutti i giorni, da tener sgombro di mosche nemiche e di micidiale polvere. Ma, sfuggendo alla sua dispotica sorveglianza, le due ragazze trovavano il modo, ora l’una ora l’altra, di volare al balcone di marmo che dava sulla larga strada azzurra come un fiume, e pencolarvisi sopra, folli di giovinezza e di gioia.

Caterina, poi, con quella busta che le batteva sulla piccola coscia legnosa, sembrava una scimmietta sfuggita al laccio: avrebbe voluto arrampicarsi sui muri, correre sul tetto, aprire la lettera e godersela tutta per conto suo. Ma aveva anche paura: le sembrava che la signorina, con quei suoi grandi occhi nocciola, che sprizzavano raggi d’oro, le vedesse attraverso la sottana quel segreto scottante doppiamente colpevole: e già l’idea di mettere la lettera sul piccolo scrittoio della padroncina si affacciava al suo cervello di topo, quando sopraggiunse il padrone, con giornali, sbuffi e un irsuto involto dal quale scappò, sul marmo dell’acquaio, una aragosta ancora viva. Fu un subbuglio, una battaglia, ma anche un diversivo e, in ultimo, un divertimento.

La padrona ingaggiò lei, poichè gli altri scappavano ad ogni guizzo delle branche del crostaceo che pareva colto da epilessia, la non facile lotta. Con prudenza legò tutto intorno con uno spago i poveri arti della scabrosa vittima, e [p. 176 modifica]quando la ebbe ridotta all’impotenza, la buttò nell’acqua in bollore. Caterina guardava, da lontano, e si faceva rossa come l’aragosta nel suo bagno infernale; e pensava che sì, così, dev’essere l’inferno per i cattivi, per quelli che invece di rivolgersi alla destra, verso l’angelo custode, si volgono a sinistra verso il diavolo.

La padrona la scosse, ordinandole di tirar giù, dal secondo piano della credenza, il piatto speciale per il pesce: la signorina l’aiutò, anzi le fece paura togliendole la sedia di sotto i piedi e minacciando di lasciarla sospesa per aria. Ma non importa; salvo sia il piatto: ed ella saltò giù, si fece male a un piede, zoppicando cominciò ad apparecchiare la tavola. In fondo era felice: le piacevano le novità, il disordine, gli strilli della padrona e gli sbuffi beati del padrone che aiutava a sbattere la salsa per l’aragosta. Solo la signorina se ne stava silenziosa e distratta; pareva sapesse della lettera. La lettera! Caterina si tastò la sottana, e le parve di essere tutta vuota; poichè vuota era la tasca; e per quanto ella si palpasse in tutte le parti del corpo, e guardasse sotto e dentro la credenza, e poi in ogni angolo della casa, la lettera non si trovò più. Fu dapprima una disperazione paurosa, un desiderio di fuggire; poi, a poco a poco, l’astuta rassegnazione di chi sa il fatto suo. Era certo la signorina, che le aveva preso la lettera; ella preferiva credere fosse stato il folletto; e questa volta ci poteva giurare davvero; ma la signorina si guardava bene dal chiederle spiegazioni.