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to rispetto le dimostrasse, altrettanto non usava con le sue robucce: trovava sempre l’armadio in disordine, e nei cassetti, i nastri, i collarini, le cianfrusaglie, persino i bottoni, tutto frugato.
— Ohè, che facciamo? Lascia stare la mia roba, o se no lo dico alla signora padrona.
Spauracchio della signora padrona! Più grande per la servetta non poteva esisterne.
— Senti, signorina, ti giuro che non ho toccato un filo: non so neppure aprire l’armadio e i cassetti; te lo giuro sull’anima mia.
— E allora? — dice la bambocciona, propensa a credere.
— Allora, bisogna parlare piano però; te lo dico in confidenza: c’è, nelle case, in tutte le case, dei poveri e dei signori, un folletto invisibile, che si diverte a frugare le robe, a nascondere gli oggetti, ad aprire e chiudere: per far male alla gente, per metterla in sospetto e subbuglio; ammazzato sia.
— Ma va’, va’, va’...
— Altro che va: è proprio vero. Del resto tu, signorina, hai detto l’altro giorno che credi all’angelo custode: quello che è sempre alla nostra destra. L’hai detto? È vero, sì, perchè mi pare di vederlo, alla tua destra, anche in questo momento, tutto con le ali d’oro.
— Ma sta’ zitta; non bestemmiare.
— Vuol dire, — concluse imperterrita la servetta, — che l’altro sta dalla parte sinistra: nero come il pipistrello.
Sarà, non sarà. La fantasia di Gina è ancora come invasa da una chiara vaporosità mattu-
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