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la signora mamma, e non deve essere disturbata in questa religiosa faccenda.

Anche la ragazzina fu messa a lavorare: la casa era piccola e pulita come uno specchio, ma per la padrona era un vero castello, da lucidarsi tutti i giorni, da tener sgombro di mosche nemiche e di micidiale polvere. Ma, sfuggendo alla sua dispotica sorveglianza, le due ragazze trovavano il modo, ora l’una ora l’altra, di volare al balcone di marmo che dava sulla larga strada azzurra come un fiume, e pencolarvisi sopra, folli di giovinezza e di gioia.

Caterina, poi, con quella busta che le batteva sulla piccola coscia legnosa, sembrava una scimmietta sfuggita al laccio: avrebbe voluto arrampicarsi sui muri, correre sul tetto, aprire la lettera e godersela tutta per conto suo. Ma aveva anche paura: le sembrava che la signorina, con quei suoi grandi occhi nocciola, che sprizzavano raggi d’oro, le vedesse attraverso la sottana quel segreto scottante doppiamente colpevole: e già l’idea di mettere la lettera sul piccolo scrittoio della padroncina si affacciava al suo cervello di topo, quando sopraggiunse il padrone, con giornali, sbuffi e un irsuto involto dal quale scappò, sul marmo dell’acquaio, una aragosta ancora viva. Fu un subbuglio, una battaglia, ma anche un diversivo e, in ultimo, un divertimento.

La padrona ingaggiò lei, poichè gli altri scappavano ad ogni guizzo delle branche del crostaceo che pareva colto da epilessia, la non facile lotta. Con prudenza legò tutto intorno con uno spago i poveri arti della scabrosa vittima, e


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