Il cedro del Libano/La fuga di Giuseppe
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LA FUGA DI GIUSEPPE
Giuseppe era fuggito di casa. Il perchè non lo sapeva precisamente neppure lui. Aveva tredici anni; l’età ingrata; ed era come affetto da manìa di persecuzione. A suo parere, tutti gli volevano male; tutti lo disprezzavano, lo trascuravano; non solo, ma lo maltrattavano anche, se si trovavano a contatto con lui: il che, del resto, avveniva di rado, poichè la madre era sempre fuori di casa, e il padre nel suo frequentato studio di avvocato. Di questo studio era designato a successore il piccolo taciturno Giuseppe; ma egli non la intendeva così: egli detestava le chiacchiere, le interessate compagnie: amava i grandi silenzii, le vaste solitudini: dei rumori gli piacevano solo quelli dei motori, delle tempeste, delle folle plaudenti agli eroi vittoriosi. Per questo aveva deciso di scappare di casa, trovare una sua strada, vivere di sè stesso, come gli uccelli dell’aria. Intanto, cominciò col rubare: non dal cassetto del padre, per non accrescerne il furore, ma da quello della madre. Sapeva, poichè i misteri più complicati della casa gli erano noti, che la madre aveva, all’insaputa del padre, un discreto deposito destinato alle differenze del sarto: quindi non si sarebbe accusata. Ed egli attinse da quei fondi segreti il necessario per vivere i primi tempi dopo la fuga; poi pensò con abilità volpina al modo di disperdere le sue tracce: sarebbe andato a piedi fino alla prossima stazione, non eccessivamente lontana dalla città dove egli viveva.
La strada la conosceva bene: la fortuna lo aiutava: il padre assente per affari, dalla parte opposta dov’egli si dirigeva; la madre ad un ricevimento che sarebbe finito tardi. Egli non pensava alla disperazione di lei, sola in casa, nell’accorgersi della fuga di lui: gli spiriti forti e avventurosi devono essere duri, se occorre anche crudeli: ed egli credeva di essere già un forte.
Cammina cammina, intanto faceva di tutto per nascondersi ad ogni incontro; e gli era facile, perchè la strada, tutta svolte, serpeggiava fra poderi assiepati, e ogni tanto aveva, come un fiume gli affluenti, scorciatoie e viottoli che si perdevano nel fitto delle vigne e dei frutteti. Frutteti estesi come boschi, che odoravano di pesche e di pere, del cui colore le casette dei coloni sembravano tinte: e tutto intorno era quieto, arioso, felice di offrire la sua pacifica ricchezza: solo l’anima del fanciullo si chiudeva sempre più in un’aridità stanca e senza sfondo.
Egli aveva calcolato male la distanza, percorsa sempre, prima d’allora, in bicicletta o nella macchina del padre: non finiva mai, adesso la strada; ed egli temeva già di non arrivare in tempo a prendere il treno. Affrettò il passo; quando non vedeva nessuno si metteva a correre, le sue gambe erano lunghe, corazzate dagli agili calzettoni sportivi; e allenate, anche; ma le vie del mondo sono più difficili di quelle ben tenute delle piste: corri, corri, Giuseppe; il sole al tramonto si diverte ad allungarle esageratamente, le tue gambe, e ingrandisce i tuoi piedi come se calzati con le scarpe delle mille leghe: d’improvviso il sole si nasconde dietro le vigne, ma per non ricomparire più; e anche Giuseppe si ferma e si sente solo, avvilito come l’uomo senz’ombra.
Riprese a camminare, cominciando però a credere di essersi smarrito: l’incontro con qualche viandante non gli dispiaceva più come prima; ma erano rapidi incontri; donne nere in bicicletta, violenti motociclisti che passavano come semidei avvolti in nuvole di polvere: carri di fieno, in cima ai quali il contadino filosofo si riposava come su un talamo ambulante. Oh, Giuseppe, piacerebbe anche a te partecipare a quel posto, per te, in questo momento, più fantasioso e comodo della prua di una nave, ed anche di una navicella di velivolo; e andare, andare, nel cerchio rosso-blu dell’orizzonte, così dolce sopra gli alberi già scuri; andare, andare, almeno fino alla stazione.
Ebbene, il suo desiderio fu in parte esaudito. Ecco che, dopo un’altra buona tirata, quando il rosso-blu del cielo si è spento in un colore di lavagna, egli arriva davanti a una specie di accampamento di selvaggi, fatto di capanne coniche, di paglia; ed anche di una casetta, in fondo, che sembra una di quelle piccole chiese, di assi e di mattoni, che i Missionari s’ingegnano di edificare appunto nei luoghi più lontani delle regioni non ancora civilizzate. Al nostro viaggiatore non dispiace il posto; e per un momento si incanta a guardarlo dal socchiuso cancello di rami che conclude il recinto, tanto più che una grande luna infocata sorge in una lontananza quasi marina, accrescendo il fascino nostalgico del paesaggio: anzi ha desiderio di fermarsi là, per una prima sosta: può anche darsi che ci sia da fare qualche cosa, utile per lui e per gli altri. Molte cose egli sa fare: potrebbe anche insegnare a leggere e scrivere ai selvaggi, come i suoi odiati maestri hanno fatto con lui: e quasi tutti i grandi uomini, scrittori, esploratori, inventori, hanno cominciato la loro carriera con l’esercitare i più duri mestieri. Poi ride e sbadiglia, con un ringhio di cane affamato: sa benissimo di fantasticare, e che il solo suo scopo è di introdursi nel recinto, avanzandosi fino alla casetta dei contadini per domandare se la strada per la stazione è quella: sa pure benissimo che non sdegnerebbe di comprare dagli stessi contadini una pera o un grappolo d’uva ancora acerba, per tappare in qualche modo il buco che gli si apre nello stomaco: ed entra, e passa fra l’una e l’altra delle fiabesche capanne, accorgendosi che sono alti e solidi pagliai, ad uno dei quali, già intaccato in cima, è appoggiata una scala a piuoli. Dai pagliai alla casa, della quale però Giuseppe osserva la porta e le finestre chiuse, c’è appena lo spazio dell’aia ancora ingombra di stoppa e di mucchi di pula; e tuttavia egli non ha il tempo di attraversarlo perchè un grosso cane nero, con gli occhi di brage, sbucato di dietro la siepe, urla con un boato di mostro, e gli corre incontro. Freddo di terrore, il ragazzo ebbe però l’istinto e la prontezza di arrampicarsi sulla scala a piuoli e salvarsi in cima al pagliaio; ma non del tutto sicuro di sfuggire all’assalto della bestia, ancora più inferocita dalla presa di possesso di lui.
Invano tentò di nascondersi in mezzo al fieno, per fortuna già smosso dal tridente del contadino: il cane non si chetava, anzi raddoppiava i latrati. Mai Giuseppe aveva sentito urli simili: e altri cani rispondevano, da vicino e da lontano, con un coro che, nel silenzio del crepuscolo lunare, accompagnava, quasi con una certa unanime solidarietà, la protesta furibonda del guardiano dei pagliai. Siamo qui, pareva a Giuseppe che dicessero; anche se ti riesce di fuggire dal tuo nido, ti prenderemo noi e ti succhieremo come un osso.
Il cane, giù, protestava più sdegnato, spettava solo a lui far giustizia dell’intruso: che egli scivolasse appena dal pagliaio e avrebbe il fatto suo.
— Mi sbranerà i pantaloni, — gemeva Giuseppe, frugando tra il fieno per nascondersi meglio, — mi morsicherà; se non morrò, dovrò per lo meno fare la cura antirabbica. Ecco che adesso il maledetto scava con le zampe la base del pagliaio; lo farà crollare; farà di me una pizza. Ecco che si arrampica sulla scala: se la tirassi su? Ma c’è pericolo di precipitare. Ma che diavolo fanno i contadini? Non sentono il chiasso? Perchè non vengono ad aiutarmi? Possono però anche tirarmi una fucilata. E, infine, che ho fatto io? Non sono un ladro; non avevo cattive intenzioni: non faccio male a nessuno. E dicono poi che i cani sono bestie intelligenti.
E gli veniva voglia di parlamentare col cane, di fargli intendere la ragione: si guardava bene però di aprir bocca e soprattutto di muoversi. Passerà anche questa; qualcuno verrà. Rassicurato alquanto, provava anzi, in fondo in fondo, un certo gusto al pericolo. Gli sembrava di essere un aquilotto, minacciato dal cacciatore, nel suo nido aspro illuminato dalla luna; e si pentiva di non aver preso, per paura di una contravvenzione, la rivoltella del padre. Così avrebbe dato una buona lezione al cane: e gli parve fosse questo suo coraggio, questo suo orgoglio di resistenza, a intimorire per suggestione la bestia; poichè i suoi urli cominciarono ad affievolirsi, a diventare quasi lamenti, a farsi anzi supplichevoli.
— Scendi, Giuseppe; vattene; sono stanco di abbaiare per un piccolo mascalzone quale tu sei.
Anche gli altri cani erano tornati ai fatti loro; e nel silenzio già glauco di luna, si sentivano, dalla strada, i fili del telegrafo vibrare come le corde di una chitarra. Così, almeno, sembrava a Giuseppe; e gli parve che quei fili lavorassero parlando di lui. La madre, a quell’ora, già scoperta la fuga del suo Giuseppe, ne comunicava la notizia alla questura: la questura la trasmetteva alla stazione, e questa alle altre stazioni del regno: tutta una nazione era in subbuglio per lui. Ma poi si accorse che si trattava dell’impassibile canto dei grilli.
Finchè non tornò, in motocicletta, il contadino: aveva accompagnato la moglie per la visita annuale ai genitori di lei, con relativo banchetto per la lieta occasione: adesso egli era più allegrotto del solito.
Quando si accorse dello strano uccello appollaiato sul pagliaio si mise a ridere come un pazzo. Tuttavia Giuseppe scese con una certa dignità, anche perchè l’altro teneva fermo il cane; e spiegò a modo suo l’avventura.
— Sono arrivato fin qui passeggiando; e adesso, per il vostro schifoso cane, faccio tardi a tornare a casa: sono il figlio dell’avvocato Volpini.
Allora il contadino, quasi intimorito, si offrì di accompagnarlo a casa in motocicletta.