Il buon cuore - Anno X, n. 26 - 24 giugno 1911/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Una parola franca sulle vittime dell’aviazione

Le ultime notizie sulle gare aviatorie hanno dimostrato con tragica efficacia che l’aeroplano miete le sue vittime non soltanto fra chi vola, ma pur anche fra chi assiste al volo.

Il che potrebbe, se ce ne fosse il bisogno, concorrere a provare quanto il nuovissimo strumento di dominio dell’aria sia imperfetto e pericoloso e come si appalesi fallace la volontà dell’uomo al quale è asservito.

Dunque la nuova scienza, che ha messo superbamente l’umanità in una posizione di supremazia mai sperata, dovrebbe dirsi effimera?

Si devono abbandonare le vie dell’aria per ritornare a quelle della terra meno veloci ma anche meno malfide? No: il cammino del progresso non s’arresta nè si torna indietro nella gran marcia verso l’ideale della perfezione umana in tutti i campi dello scibile, che si annunzia sempre più feconda di risultati e più ricca di vittorie. Ma non conviene dinanzi a un simile dispendio di vite umane fermarsi a quelle considerazioni che la fredda logica consiglia per ridurre tale olocausto nel più ristretto limite possibile?

Tutte le nuove scoperte hanno voluto un lungo martirologio di vittime oscure e gloriose e nessuna conquista si ottenne senza un largo tributo alla morte che vigila e spia per trionfare dell’inesperienza e dell’errore. Cerchiamo dunque di prevedere l’errore e di acquistare l’esperienza senza follie e senza perdere di vista lo scopo precipuo e finale di ogni intrapresa: la sicurezza nel risultato.

E incomincio subito col domandarmi se le gare di aviazione per la velocità e per l’altezza, per i lunghi percorsi e per le difficili prove siano veramente utili.

Francamente, non certo in quella maniera che dovrebbero. Sono senza dubbio da ammirarsi i magnifici sforzi di volontà di cui ci hanno dato prova i concorrenti alla Parigi-Roma, la tenacia dimostrata e la ferrea energia che non si piega nella lotta del piccolo uomo sul fragile sostegno contro le insidie del vento e le mille difficoltà del lungo cammino.

Ma purtroppo in tutti questi concorsi preme più la ricerca della gloria che inebria e del denaro che si guadagna, anzichè il severo studio dello strumento del volo e dei mutamenti da apportarvi per renderlo serio e sicuro.

L’aeroplano è essenzialmente una macchina complessa dove entrano in giuoco fattori di resistenza meccanica, di rendimento tecnico, di solidità di collegamento e di sicurezza di comando e di guida: tutto questo insieme è strettamente collegato all’uomo, ai suoi muscoli, ai suoi nervi, alla sua indole, talchè l’uomo stesso rimane assolutamente in potere della macchina.

E dovrebbe essere invece praticamente il contrario.

Ed è ciò tanto vero che un eroe dell’aviazione cadeva e moribondo diceva con entusiasmo: «La mia morte è certa, ma posso ora dirvi che il timone di profondità non ha funzionato!».

Dunque vi è qualche cosa che ad onta della volontà dell’abilità nostra non funziona.

Se si prende invece ad esempio un automobile completo e perfetto in ogni sua parte, se il conducente che lo guida dimentica la sua macchina, la vettura correrà ugualmente bene nella direzione datagli dallo sterzo e se un nuovo elemento, il terreno o un ostacolo non impedisce la marcia, non v’è ragione per cui s’arresti si guasti. E l’uomo permane incolume.

Se una macchina elettrica, a vapore o a gas di qualunque specie viene abbandonata dai macchinisti, essa continuerà a funzionare in una direzione sbagliata o in modo non rispondente allo scopo, ma funzionerà [p. 202 modifica]finchè la sorgente di energia, elettricità, acqua, vapore o gas l’alimenteranno.

Anche qui il macchinista non corre alcun pericolo.

E per rimanere nel campo dell’aria, un dirigibile abbandonato dai suoi piloti potrà arrestarsi o seguire il vento senza che per questo una catastrofe sia conseguente ed immediata.

In tutti questi apparecchi, strumenti e meccanismi l’uomo comanda e dirige, ma non è schiavo, e vi è una perfetta indipendenza, sia pure temporanea, fra la volontà sua e il funzionamento della macchina.

Nell’aeroplano avviene perfettamente il contrario: se l’uomo vacilla, si distrae, sbaglia, la catastrofe è irreparabile e fulminea.

L’aviatore dirige il velivolo, ma questa direzione è un obbligo per lui. Curioso paradosso di un comando che dev’essere sempre esercitato per rimanere tale e che per di più è spesso praticamente inefficace. È a tale differenza sostanziale che è necessario pensare nello studio dell’aviazione. Il che non pare sia stato fatto sinora. Tanto vero che si continuano a dare premi vistosi per le gare dove è in giuoco soltanto l’abilità personale, senza curare affatto la bontà del meccanismo. E di fatti salvo dettagli di poca importanza, gli ultimi modelli di aeroplani di ben poco differiscono da quelli con i quali i primi pionieri iniziarono il volo. Si è modificato e alleggerito il motore, che è però ancora molto lontano dalla perfezione; si sono curati alcuni particolari costruttivi — ma il grande problema dell’equilibrio è rimasto insoluto, i timoni di profondità e di direzione funzionano quando vogliono e il vento ha capricci che costano sangue. E nel concorso poi dell’energia umana, siamo rimasti sempre a quella di un solo individuo, poichè i passeggeri trasportati non sono che peso di zavorra. In tutte le macchine in moto vi è sempre chi può sostituire l’azione di chi guida se questa manca o vi è la squadra completa a cui sono assegnati diversi compiti: nell’aereoplano, che è il più pericoloso, nessuno. Dunque strumento imperfetto e una sola mente, una sola energia per dirigerlo: la peggior condizione possibile per il successo. Ma vi è un altro ordine di considerazioni da tener presenti e che si ricollegano a quelle precedenti. Tutte le volte che l’uomo deve affrontare delle difficoltà tecniche di aspra soluzione, ha sempre ricercato con istinto speculativo di ingigantirle, mosso dalla chiara visione che i difetti si appalesano meglio grandi che piccoli, e sia quindi più facile allora correggerli.

Non diversamente, per meglio convincere, il ragionamento esagera gli estremi della discussione e qualche volta li conduce all’assurdo che è precisamente una delle forme più adoperate nella disciplina matematica per la ricerca della verità.

Nel campo della conquista dell’aria, è storia recente che i primi dirigibili di piccola cubatura furono un insuccesso: se si volle difatti lottare colla resistenza del vento, suddividere il lavoro dei piloti, studiate il funzionamento dei piani stabilizzatori e l’equilibrio delle masse sospese nell’aria, limitare gli effetti delle fughe di gas, impiegare l’aria come zavorra, si dovettero affrontare le cubature di 12.000 mc. e recentemente in Inghilterra si è giunti a 18 mila.

È soltanto così che si è potuto risolvere con larghezza di vedute e con abbondanza di mezzi tutto il vasto programma che presiede alla costruzione del nuovissimo apparecchio, poichè l’ingente peso sollevato lasciava il margine necessario per tutti i complicati meccanismi di propulsione e di manovra.

L’aereoplano invece si è cristallizzato nelle piccole forme e nelle modeste proporzioni della sua nascita, cercando di alleggerire tutto quello che doveva invece essere rinforzato e di mantenere il problema dell’aviazione entro gli stessi angusti limiti dei primi tentativi.

Nessuna idea di proporzionare alla cresciuta potenza dei motori la costruzione dell’apparecchio; quasi unica cura aumentare la velocità senza por mente alla sicurezza e all’equilibrio.

E il povero Delagrange trovò appunto la morte in quel motore «bolide» che nessuno gli aveva sconsigliato di applicare al suo aereoplano.

E tutti i motori rotativi che la meccanica moderna ha costruito con dolorosa facilità durano da 80 a 150 ore e perdono cilindri a 800 metri d’altezza.

E i fili di acciaio di collegamento lavorano a 120 kg. per millimetro quadrato. Il legame speciale impiegato per le ossature è cimentato a sforzi esagerati; i timoni di profondità e di direzione sono manovrati con fili come dei giocattoli. Tutto ciò senza contare tutti gli altri inconvenienti minori che rendono in complesso il moderno velivolo non dissimile da quegli apparecchi da circo sui quali l’uomo si affida dinanzi alle folle che gioiscono al salto del plongeur o al cerchio della morte.

Ora è facile scoprire i difetti e anche additarne le cause, ma è difficile trovare i rimedi.

Alcune norme adatte a coordinare gli studi, gli sforzi i capitali possono però giovare a mutare indirizzo: le riassumo in taluni punti principali:

i. — I motori attualmente sono miracoli di costruzione meccanica ma hanno poca durata e incerto funzionamento, e ciò è dovuto alla ricerca faticosa per alleggerirli.

Bisogna invece dare al motore tutte le qualità necessarie di potenza, solidità e durata senza preoccuparsi soverchiamente del peso.

2. — Un motore non basta: e allo scopo di dividere la generazione dell’energia e di avere maggiore stabilità nell’apparecchio conviene avere due eliche di trazione e non di propulsione. Quindi due motori distinti come funzionamento, ma collegati con elementi flessibili o cardanici per la sincronità del movimento delle eliche.

3. — Il tipo a monoplano ha dato i migliori risultati. È necessario conservarlo dando alle ali il più ampio e razionale sviluppo rendendole rigide e manovrabili e abbandonare le fragili orditure di legno e tela.

4. — Gli aviatori, non uno solo, devono dominare l’apparecchio per meglio dirigere il volo e per trovarsi in condizioni di sicurezza sempre relativa, ma migliore, in una caduta.

La navicella sarà quindi collocata in alto, e poichè [p. 203 modifica]il peso degli uomini sarà trascurabile rispetto a quello della cabina motrice, ciò non influirà sulla necessità di mantenere basso il centro di gravità.

5. — Gli apparecchi di direzione e di profondità dovranno essere di grande superficie e doppi in modo che uno funzioni di riserva all’altro; i collegamenti e i comandi fatti con materiale di prim’ordine e robusti in modo da rendere impossibile o per lo meno difficilissima la rottura.

Tutti questi principi ci riconducono infallantemente alla necessità di un aumento di peso negli apparecchi, vale a dire a studiare il problema del grande areoplano di dimensioni e potenza assai maggiori dell’attuale e a indirizzare assolutamente gli studi sulla via della areonave.

Ing. Riccardo Memmo.

e la poesia mistica umbra

S’era al tempo delle spirituali esili forme angeliche sboccianti sotto il pennello del frate che dipingeva per riverenza in ginocchio: dell’Angelico; al tempo che la severa ed eretta figura bizantina s’avvivava d’un dolce soffio, accogliendo nei volti e negli atti il lume di dove «il giojr s’insempra». E quasi fiore che sboccia accanto a fiori nella molle e diffusa munificenza del prato, di questo rinnovellamento per l’alto, sorgeva il dolcissimo e meraviglioso cantore, sorgeva, nuova forma, la poesia religioso-mistica, perdentesi in tutta la primitiva fragranza dell’inno spontaneo in quei cieli ombrati d’oro e di viola, in quel sole che una penna italiana così felicemente ritrasse.

Il sole nel radiante azzurro immenso

fin degli Abbruzzi al biancheggiar lontano,
folgora, e con desio d’amor più intenso

ride a’ monte de l’Umbria e al verde piano.

Sorge nel tempo della formazione delle poesie italiche con un contrasto grande, tra le esercitazioni di endecasillabi sapienti della dotta Bologna, tra il vaneggiamento madrigalesco della poesia provenzaleggiante, quasi rosellina di siepe gentilmente spicca sul nero degli abeti e sulle tenere siepi di biancospino. Sorge poesia popolare, non popolare perchè fatta dalla facili rime che il popolo lietamente compone nei solazzi campagnuoli, senza quasi egli ne abbia coscienza, e che è l’eco spontanea del sentimento di tutti, della quale nessuno saprebbe indicare l’autore, che spunta un bel giorno in forma concreta, non si sa dove, non si sa quando, ma popolare come quella che è l’eco della prima, meno spontanea forse, ma avente con quelle intime relazioni, non più solamente parlata, ma già passata attraverso una elaborazione letteraria, insomma raccolta artistica della vera poesia popolare. Questo del gruppo mistico, essendo S. Francesco d’Assisi anima troppo diversa per poter fondersi col popolo. Parlo invece di fra Jacopone da Todi, precursore quasi del gentil cavaliere della povertà, anima ardente e fiera che da un drammatico caso della vita porta l’ardente anima popolana a espandersi in fuoco d’amore divino, in zelo fierissimo di rimbrotti e d’anatemi perchè s’allontana dalla retta via, che porta pure il delicato senso del popolo a darci versi dolcissimi, dipingenti soavemente scene piamente materne, rime freschissime d’una ingenuità fanciulla ed argentea, quasi zampillo cristallino e tinnolo di lieve fonte che corre a balzelli e a rivoletti fra ciottoli vestiti di muschio.

Abbiamo prova di questo suo intimo cuore soave in quelle «delizie materne» dove così devotamente e così umilmente egli apostrofa il gentile miracolo della Vergine concepita soave fra tutte le madri umane.

Quando un poco talora il di dormia,
tu, destar volendo il paradiso
(dice parlando del piccolo Gesù in culla)
pian piano andava che non si sentia

ponevi il tuo viso al santo viso
poi gli dicevi con materno riso:
non dormir più che ti sarebbe rio.

Ma ecco appare si com’egli appare
subitamente cosa che disvia

per meraviglia, tutt’altro pensare,
l’astro che di sua luce irradia quel breve e poetico cielo: S. Francesco d’Assisi:
In tra Tupino e l’acqua che discende

dal colle eletto del beato Ubaldo
fertile costa d’alto monte scende

· · · · · · · · · · ·
Di quella costa, la dov’ella frange
più sua rattezza, venne al mondo un Sole.
Ci dice di lui Dante nel decimo primo canto del suo Paradiso.

E per la vita, che, pur aspra della macerazione austera dell’inferiore spirito, pel mistico suo sposalizio con Madonna Povertà, andiamo alla sua poesia, alla dolce, alla candida sua poesia del trecento così soave ed amante.

Oh! «canto del Sole» elevato certo in una vasta e verdissima pianura, con a fianco l’agnelletta donatagli dalla gentile Matelda, fra un armonioso stormire di rami animati dai piccoli uccelli, presso a un chiaro rivoletto d’acqua!

«Il luglio ferve e il canto d’amor vola dal piano laborioso!»

«Laudato sia, Dio mio Signore con tutte le creature, specialmente per messer lo Frate Sole, il quale lo giorno illumina noi per lui. E ello è bello e radiante e con grande splendore di Te, o Signore, porta significazione».

E avanti, con questo fresco gitto d’una poesia che più non rivive, lodando Suora Luna e di Frate Vento, affettuosamente parlando di Suora Acqua «la quale è molto utile, umile e casta», e di Frate Fuoco che a «è bello, fecundo e robustissimo e forte».

E via così tra bellezze e tristezze tutte stimando degne di canto perchè uscite dalla mano di Dio, affidandosi poi come bimbo incerto alla volontà suprema che [p. 204 modifica]tutto governa, chiudendo infine il suo inno con quella dolce laude a nostra Sora Morte corporale a che unisce un concetto altamente morale a una forma vivamente poetica.

E quando intorno a Lui aumenta la dolce spirituale famiglia di fratelli e discepoli, nuovo gioiello dell’arte francescana abbiamo i «Fioretti», che son così primitivi e così dolci, come deve essere stato nell’infanzia della terra, il conversare degli Angeli. Accresce singolarmente gentilezza ai suoi canti e ai suoi dettati, il fatto che l’ispirazione di S. Francesco, procede da quella sua misera condizione così spoglia d’ogni più elementare cosa, e pur così confidente!

Ma perch’io non proceda troppo chiuso

Francesco e Povertà, per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.

La lor concordia e i lor lieti sembianti
amore e meraviglia e dolce sguardo,
facean esser cagion de’ pensier santi.

E fu così alta la fiamma chiusa i quell’umile suo corpo, che il nostro pensiero corre a inebriarsi a quelle chiari fonti come anime sizienti alle mistiche rive, come per cercar nuova tempra di soavità e di purezza, come a colui che lieto, di se stesso giovinilmente canta:

E voi mi domandate in cortesia

chi fu delli miei versi lo maestro;
io l’ho dentro nel cor la poesia

e canto quello che mi detta l’estro.

Fernanda Zorda.

LE SIGNORE E IL DUELLO

L’unione delle signore antiduelliste romane tenuta giorni sono per invito della loro presidente, duchessa Massimo Doria Pamphili, in presenza del capo della Lega italiana contro il duello, senatore Vittorio Scialoia, non solo risponde alla necessità di preoccuparsi di fatti recentissimi, ma continua e promette di avvivare fra noi quel moto antiduellista della donna, che sorto dapprima in Galizia, ha preso larghissimo sviluppo non là solamente, ma in Austria, in Ungheria, in Spagna e ha dato lieti saggi di sè anche in Italia, sull’esempio delle signore milanesi.

Quando, due anni addietro, circa tremila signore italiane presentarono un albo d’onore a tre ministri benemeriti della lotta contro il duello, esse mostrarono d’intendere a fondo le parole che addì 25 gennaio 19o5 il fondatore della Lega internazionale, principe Alfonso di Borbone, scriveva all’iniziatrice polacca del moto femminile, principessa Czartoryska.

«In poche occasioni l’onnipotenza della donna potrà esercitarsi con maggior successo, che nella lotta contro il duello, e certo poche donne la giudicheranno non degna del loro appoggio. Tutto il cuore della donna deve rivoltarsi contro l’uso barbaro che crudelmente infierisce facendo tante vittime, e tutta la sua intelligenza protesterà dinanzi ad un simile non senso che si commette spesso in nome di lei, profanando ciò che la donna ha di più bello. Con grandissima gioia vedo realizzarsi una speranza che carezzai fin da quattr’anni fa iniziando la mia opera. Da allora non cessai di raccomandare che si guadagnasse alla nostra causa la donna.»

V’è stato bensì qualche supt rficiale che ha detto: «ma che hanno a fare le donne col duello?» Non badava che esse c’entrano più di quel che si crede. Certo non siamo più nell’antica Boemia in cui le donne si battevano anche contro gli uomini; nè in Francia, sotto Luigi XIV, in cui una signora uccise tre uomini.

Non siamo più sotto Luigi XV, quando Madame de Nesle e la contessa di Polignac si batterono per i begli occhi del duca di Richelieu, e per ragioni simili la cantante Beaumeuil scese sul terreno con la ballerina Théodore. Non siamo nemmeno nell’America contemporanea, ove recentemente Marta Duran e Janna Luna si disputarono colle armi lo sposo. Queste, in tutti i tempi considerate per lo meno come eccentricità, hanno cessato da un pezzo in Europa.

Ma le donne influiscono ancora, e come, nel duello degli uomini! Alcune influiscono personalmente e direttamente. E queste, cioè le donne cagione del litigio sorto tra due uomini, dovrebbero accorgersi della triste speculazione che fanno, del caro prezzo con cui pagano la loro responsabilità. I codici cavallereschi definiscono privilegio per la donna quello di poter essere vendicata dalle armi altrui; ma una simile protezione vendicatrice danneggia precisamente l’onore di lei.

Tutti sappiamo infatti come si parla di una donna quando qualcuno si sia battuto per lei.

Apparisca infatti nelle vertenze d’onore la presenza misteriosa d’una donna colpevole, o la presenza aperta d’una donna senza colpa, in tutti e due i casi è dessa la vittima vera.

Se colpevole, il suo nome dovrebbe in ogni modo rimanere nascosto. Nell’obbligo di usarle questo supremo riguardo si trovano d’accordo la carità cristiana e in teoria la cavalleria moderna.

Ma il duello che fa? Ferma l’attenzione pubblica precisamente su questo segreto: ne accresce la curiosità e le dà un modo di mettersi sulla via di scoprirlo: in una parola fa sì che il a motivo delicatissimo a diventi pascolo del mondo intero. Il giorno prima del duello tutti ignoravano forse chi fosse la donna per la quale esso è avvenuto, o tutt’al più la si conosceva in un piccolissimo crocchio e in una sola città. Il giorno dopo, tutti i lettori di giornali si fanno questa domanda: «Chi sarà mai?» E dovunque ci sono uomini perseveranti nel voler sapere le cose che si dovrebbero ignorare, i quali uomini si trovano purtroppo dappertutto ed in folla, si viene a conoscere per filo e per segno, ciò che bisognava tener celato, ciò che i due combattenti stessi avrebbero voluto che non si risapesse da anima viva.

Lo scontro sul terreno, questa decantata panacea mondana, ha prodotto dunque una bellissima cosa: ha guastato irrimediabilmente davanti al mondo ciò che si sarebbe senza dubbio salvato se non si fosse fatto [p. 205 modifica]intorno ad una cosa e ad un nome un rumore di sciabole. Così la cavalleria che vorrebbe essere un mezzo di riparazione silenziosa, e che condanna i tribunali legali e tribunali d’onore, accusando con qualche ragione i primi, ingiustamente i secondi, di far troppo chiasso, diventa un mezzo di propalazione fragoroso ed infallibile; una vera diffamazione per mezzo delle armi.

Se il duello accade poi per causa di donne senza macchia, l’effetto disastroso sopra di loro è identico. Chi non ricorda due fra i recenti duelli mortali che turbarono l’Italia e la Francia?

In uno rimase ucciso un marito indebitamente geloso, nell’altro l’uomo che invano aveva tentato di dar ragioni di gelosia al marito.

Ebbene anche in questi due scontri, in cui per un caso raro le ferite toccarono a chi aveva torto, le vittime ulteriori, le vittime che non avevano peccato neppure d’imprudenza, chi furono? le due mogli, oneste entrambe, entrambi custodi di quell’onore domestico che i mariti avevano voluto vendicare o difendere. Poichè i nomi di esse improvvisamente dal duello gettati in piazza, nonostante le giustificazioni dei loro mariti, furono colpiti da quelle sentenze che i sapienti da caffè pronunciano in certe occasioni: «eh! non c’è fumo senza fuoco!»

Ecco perchè tutte le donne dovrebbero insorgere contro uno dei titoli che il duello s’arroga, quello d’essere il vindice dell’onor loro. Dovrebbero per proprio interesse bollarlo come un atto d’egoismo maschile, che prende l’onore donnesco a pretesto e se ne servono così bene da ucciderli; mentre i due combattenti, cavatisene spesso con una graffiatura, sono anche capaci di celebrare la loro pelle salvata e la reputazione femminile straziata con una buona stretta di mano.

Nel Fliegende Blatter venne testè una caricatura in parecchi quadri rappresentanti un duello alla pistola. I duellanti tirano così bene, che ad ogni colpo cade un padrino. Quando i quattro padrini sono tutti stesi, i due, incolumi, si riabbracciano affettuosamente.

Nei duelli in cui c’entra una donna, questi quadri non sarebbero più una caricatura; sarebbero la realtà. Ad ogni colpo di pistola o di spada, la moltitudine degli oziosi accorre al rumore; capisce che lontano di II, sta nel pianto una donna fino a ieri ignota; ne apprende il nome, si pasce della sua colpa o calunnia la sua innocenza, e quando i due cavalieri hanno finito di spassarsi colle armi, e hanno propalato e disonorato il nome dell’infelice, allora proclamano ehe il loro onore di uomini è salvo.

F. Crispolti.





PENSIERI


Ricompriamo il tempo: la mezzanotte è vicina; lo Sposo non può tardare; teniamo accese le nostre lampade. Presentiamo a Dio i nostri cuori miseri, vòti, perchè Gli piaccia riempirli di quella carità, che ripara al passato, che assicura l’avvenire, che teme e confida, piange e si rallegra, con sapienza; che diventa in ogni caso la virtù di cui abbiamo bisogno.



NOTTE DI LUNA


Quando la luna placida e tranquilla
piove la luce sulle cose in calma,
ne’ cieli immensi fissa la pupilla,
sorella della mia io cerco un’alma.

E sognando, mi levo a un’emisfero,
dove stano coloro che ho perduto:
i miei cari, che avvolti nel mistero
della morte, più mai non ho veduto.

Tu allor pietosa, o luna risplendente,
destando in me gentil melanconia,
co’ tuoi candidi raggi dolcemente
quai susciti ricordi all’alma mia!

Non ho che un solo amore ardente e santo,
un amor puro che mi tiene assorto:
oh madre, io ti perdei, ma t’amo tanto,
la tua memoria è tutto il mio conforto.

Quando miro la luna a notte tarda
ed in me piove la sua luce bella,
parmi veder mia madre che mi guarda
e in estasi d’amor parlo con ella.

Oreste Beltrame.




PIO ISTITUTO OFTALMICO

L’Assemblea generale ordinaria dei benefattori del Pio Istituto Oftalmico di Milano ha avuto luogo alle ore 14 del giorno 18 corr.

Intervennero del Consiglio il vice-presideute conte Febo Borromeo, il sen. Mangiagalli, il comm. Corbetta, l’ing. Radice Fossati, l’ing. cav. Giovanni Carones. In rappresentanza della Regina Madre, benefattrice dell’Istituto, intervenne il marchese Gioachino d’Adda Salvaterra, per il Ministro dell’Istruzione Pubblica il Provveditore agli studi comm. Ronchetti, per il ministero dell’Interno ed il Prefetto il conte Cesare Pongileoni, in rappresentanza del Cardinale Arcivescovo mons. Emilio Girola. Si notavano ancora numerosi benefattori.

Il vice-presidente conte Febo Borromeo, aperta la seduta, ricordò l’opera compiuta dall’Istituto durante l’anno 1910, dopodichè invitò l’ing. Radice Fossati, segretario, di esporre i dati economici e morali di detta gestione. Quindi pregò il Direttore, cav. prof. Luigi Ferri, d’informare sulle risultanze sanitarie e scientifiche della gestione stesse.

Risulta dalla chiara relazione che le giornate di degenza ascesero, a 16.373, per 812 ricoverati con una degenza media di giornate 20,16 con la presenza media nell’Istituto di ammalati 44,85 per ogni giorno.

[p. 206 modifica]Il Direttore fece osservare che qualora all’Istituto Oftalmico fosse concessa una maggiore larghezza di mezzi potrebbe venire, per la parte che lo riguarda, in ausilio all’Ospedale Maggiore, sgravandolo dall’obbligo delle malattie d’occhi verso i comuni foresi, perchè con la sua area potrebbe il numero dei letti essere elevato oltre i 160 con larghezza e modernità di servizi annessi e rispondere in tal modo degnamente a questo mandato. Questo rilievo torna ora opportuno in quanto lo sgravio verso i comuni foresi, rappresenta il desiderato dell’Ospedale Maggiore, del Comune di Milano, della Provincia, e dalle Autorità interessate. D’altronde le benefiche iniziative private, che in un trentennio fecer sorgere cinque nuovi ospedaletti specializzati, indicano la corrente dell’opinione pubblica per lo sgravio dell’Ospedale Maggiore verso i minori delle singole specialità: e tutte le statistiche dell’Istituto Oftalmico dimostrano la crescente tendenza dei malati d’occhi verso di esso, sopratutto dalla provincia.

Il vice presidente diede poi la parola ai revisori sulle risultanze della gestione stessa: questa si chiude con una deficenza di esercizio di lire 4518,92 ed un patrimonio netto di lire 943.707,45.

Passati alla votazione, vennero eletti a presidente l’avv. Diego Tenca, a consiglieri i signori Radice Fossati ing. Carlo, avv. Ulisse Sertoli, nob. Giulio Greppi. A revisori vennero riconfermati il cav. rag. Carlo Marelli, rag. Giuseppe Balconi, rag. Eliseo Caravaglia.