Il buon cuore - Anno X, n. 08 - 18 febbraio 1911/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Religione Società Amici del bene

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IN NAZARETH



Un giorno Gesù stava seduto sulla soglia della bottega di suo padre. Contava appena un lustro, ed era intento a formare dei cuculi con un mucchietto di argilla sciolta, donatagli dal vasaio che stava dirimpetto.

Era più felice dell’usato: tutti i fanciulli del quartiere gli avevano detto che il vasaio, uomo sgarbato, non si lasciava intenerire nè da sguardi amichevoli, nè da dolci parole, ed egli non aveva mai osato chiedergli cosa alcuna.

Ed ora non sapeva quasi rendersi conto di quello che era avvenuto: mentre egli dalla soglia della sua bottega fissava con intimo desiderio il vicino che allestiva i suoi vasi, questi, uscito dal negozio, gli aveva donato tanta argilla quanta ne sarebbe occorsa a formare una brocca da vino. Sulla gradinata della casa accanto sedeva Giuda: era brutto, di capello rosso, colla faccia piena di lividi e il vestito tutto strappi, riportati nei continui litigi coi ragazzi della strada. In quel momento era tranquillo, non provocava nessuno nè si azzuffava, ma stava lavorando come Gesù, con un pezzo d’argilla. Egli però non se l’era procurata da sè: non si fidava quasi a passare dinanzi al vasaio, per tema d’esser cacciato a colpi di bastone, poichè quegli lo accusava di gettare continuamente pietre sulla sua fragile mercanzia.

Era stato Gesù che aveva diviso con lui la sua provvigione. Appena terminati i loro cuculi, i due fanciulli li disponevano in cerchio. Erano simili ai cuculi d’ogni tempo: un po’ di terra rossa li sosteneva in luogo di piedi; avevano la coda corta, punto collo e ali appena visibili. Con tutto ciò appariva subito una differenza nel lavoro dei piccoli camerati. Gli uccelli di Giuda erano sbiechi e capitombolavano; per quanto si affaticasse colle sue piccole e forti dita non riusciva a far loro un corpo aggraziato e bello. Gettava degli sguardi furtivi dalla parte di Gesù per vedere come riuscisse a formare i suoi uccelli così proporzionati e lisci come le foglie di quercia nelle foreste del monte Tabor. Ad ogni uccello che gli usciva dalle mani Gesù si sentiva più felice. Gli sembravano uno più bello dell’altro, li ammirava con fierezza e con amore. Sarebbero dovuti diventare i suoi compagni di giuoco, i suoi piccoli fratelli, avrebbero dovuto intrattenerlo con dialoghi, dormire nel suo letto, e quando sua madre lo lasciava solo cantargli le loro canzoni. Non si era mai reputato tanto ricco, non si sarebbe mai più sentito nè isolato, nè abbandonato.

Curvo sotto il suo grave carico, passò l’acquaiolo dall’alta statura, e subito dietro lui l’ortolano, troneggiante fra due ceste vuote, sul dorso del suo asino.

L’acquaiolo posò la mano sul capo biondo e ricciuto di Gesù e gli richiese dei suoi uccelli. Gesù raccontò che avevano nome e che potevano cantare. Tutti i suoi uccelli erano venuti da paesi stranieri e dicevano cose note soltanto a lui e a loro. Gesù parlava in modo che l’acquaiolo e l’ortolano dimenticarono i loro negozi per ascoltarlo. Quando stavano per riprendere il cammino, Gesù accennò loro Giuda: «Guardate che belli uccelli fa Giuda» disse.

L’ortolano trattenne bonariamente il suo asino e domandò a Giuda se anche i suoi uccelli avevano nome e sapevano cantare. Ma Giuda non capiva nulla di ciò e taceva ostinatamente senza levar gli occhi dal suo lavoro: l’ortolano stizzito urtò col piede uno dei suoi uccelli e seguitò a cavalcare.

Passò così il pomeriggio: il sole scese tanto basso che il suo raggio potè passare attraverso la piccola porta della città, che, ornata dell’aquila romana, si ergeva alla fine della strada.

[p. 60 modifica]Quella luce, sul cadere del giorno, era del tutto rosea, pareva mista a sangue e, penetrando nell’angusta strada, coloriva tutto quello che incontrava. Coloriva le brocche del vasaio, le assi che scricchiolavano sotto la sega del falegname e il candido lino che avvolgeva il volto di Maria. Ma sopratutto quella luce di sole era bella a vedersi riflessa dalle piccole pozze d’acqua raccolta fra le pietre grandi e scabrose che selcia vano la strada. Ad un tratto Gesù tuffò la mano nella pozza più vicina a lui. Gli era venuto in mente di dare ai suoi grigi uccelli quella scintillante luce di gole che aveva donato un sì bel colore all’acqua, alle mura della casa, a tutto ciò che stava lì dintorno. E per la luce era una gioia farsi prendere come il colore dalla tavolozza d’un pittore, e mentre Gesù la stendeva sopra i suoi piccoli uccelli d’argilla essa rimaneva immobile, e li copriva dalla testa ai piedi, d’uno splendore simile a quello del diamante.

Giuda, che di tanto in tanto gettava un’occhiata dalla parte di Gesù per vedere se faceva uccelli più belli e più numerosi dei suoi, emise un grido d’ammirazione quando scorse Gesù intento a dipingere i suoi cuculi colla luce del sole che prendeva dalle pozze della strada. Immerse egli pure la mano nell’acqua tentando di prendere quella stessa luce. Ma la luce non si lasciò afferrare da lui. Scivolava dalle sue dita e per quanto egli si affaticasse a muover le mani per ritenerla, essa fuggiva ed egli non ne potè procacciarne ai suoi uccelli nemmeno un tantino.

«Aspetta Giuda» disse Gesù «voglio venir io a dipingere i tuoi uccelli.».

«No» rispose Giuda «non li devi toccare. Sono abbastanza belli così.»

Si alzò, corrugò la fronte, strinse le labbra, pose il suo largo piede sopra gli uccelli e li mutò uno dopo l’altro in un mucchietto di creta. Dopo che li ebbe distrutti tutti se ne andò a Gesù che stava seduto, dipingendo i suoi cuculi, scintillanti come gioielli. Giuda li mirò un istante in silenzio, poi alzò un piede e ne calpestò uno. Quando ritrasse il piede e vide che il piccolo uccello era mutato in grigio fango, provò una gioia inebriante, rise e sollevò il piede per calpestarne un altro.

«Giuda» gridò Gesù «cosa fai? Non sai che son vivi e che possono cantare?»

Giuda rise e calpestò un secondo uccello. Gesù guardò intorno in cerca d’aiuto: Giuda era robusto e Gesù non aveva forza di trattenerlo. Cercò la madre, non era lontana, ma prima che giungesse Giuda avrebbe potuto distruggere tutti i suoi cuculi. Gli vennero le lagrime agli occhi. Giuda ne aveva già calpestati quattro, non ne rimanevano che tre. Gesù non poteva sopportare di vederli stare così tranquilli e lasciarsi calpestare invece di mettersi in salvo. Per destarli battè le mani e gridò loro: «Volate, volate!» Gli uccelli cominciarono a muovere le loro piccole ali e svolazzando timidamente giunsero sull’orlo del tetto, dov’erano al sicuro.

Quando Giuda vide che alle parole di Gesù i cuculi si erano mossi ed erano volati, cominciò a piangere, a strapparsi i capelli come aveva veduto fare ai vecchi quando erano in gran pena e angoscia. Si gettò ai piedi di Gesù e lì rimase avvoltolandosi fra la polvere come un cane, baciando i piedi di lui e pregandolo a calpestarlo come egli aveva fatto con i cuculi. In quel mentre Giuda amava Gesù, lo ammirava, lo pregava e al tempo stesso l’odiava.

Maria, che aveva seguito durante tutto il tempo, i giuochi dei due fanciulli, si alzò, sollevò Giuda, se lo mise in grembo e lo accarezzò.

«Povero fanciullo!» gli disse «tu non sai che hai tentato di fare ciò che non è in potere di persona alcuna. Non arrischiarti più in simili cose se non vuoi divenire il più infelice di tutti gli uomini! A che può mai andare incontro quello fra noi che voglia gareggiare con Colui che dipinge colla luce del sole e anima col soffio di vita la morta argilla?»

Samarita.


PER GIUSEPPE CANDIANI


Tutti ricordano l’affetto e le cure che portò alla istituzione della Casa dei Veterani di Turate, il comm. Giuseppe Candiani, valoroso combattente per l’unità della Patria, prima, fecondo ed operoso lavoratore per la redenzione industriale della nuova Italia, poi.

Era doveroso adunque per la Milano industriosa ed operosa, memore degli uomini che concorsero ad illustrarla, a portarla all’alta considerazione, di cui oggi meritamente gode, il ricordare con un omaggio postumo, il più cospicuo benefattore della Casa di Turate, nel primo annivesario della sua morte.

Il comm. Candiani, dopo lunga e penosa malattia, sopportata con quella fortezza che Egli manifestò in indicibili traversie, circondato sempre dalle più affettuose cure della diletta moglie, delle amatissime figlie e dei figli distintissimi, cristianamente confortato, cessò di vivere il 16 marzo 1910.

Una delle più simpatiche caratteristiche della Casa dei Veterani di Turate è quella serie di busti dei benefattori della patriottica istituzione, sparsa nei magnifici viali del grandioso parco.

Era quindi naturale il pensiero di ricordare in quel posto il Candiani con un monumento. A questo scopo si costituì un Comitato, che tenne una importante adunanza la scorsa domenica.

Il Pro-Sindaco on. Greppi assunse la presidenza della riunione. La signora Teresita Friedmann Coduri, segretaria del Comitato, lesse le moltissime adesioni fra cui notevoli quelle dei senatori Giuseppe Colombo, marchese Ettore Ponti, Golgi, Speroni, Pirelli, del Prefetto sen. Panizzardi, dell’assessore Scherillo, di Guido Baccelli, della principessa Trivulzio, ecc.

Il Presidente del Consiglio, on. Luigi Luzzatti, inviò il seguente telegramma:

«Faccio plauso a codesto Comitato che ebbe la felice idea di ricordare degnamente il compianto comm. Candiani e sono lieto di poter partecipare al Comitato stesso».

[p. 61 modifica]Per acclamazione furono nominati Presidenti onorari del Comitato l’on. Luzzatti e l’on. Greppi ed a Presidente effettivo il comm. Gabba, la signora Teresita Friedmann Coduri, Segretaria, l’ing. cav. E. G. Pedrazzini a cassiere.

A far parte del Comitato vennero quindi chiamati i signori:

Comm. ing. Luigi Alzona — Prof. cav. Paolo Arcari On. sen. Guido Baccelli — Comm. Emilio Banfi — Prof. Giovanni Bertacchi — Giuseppe Bianchi — Prof. cav. Gaspare Colombi — Sen. comm. prof. Giuseppe Colombo — Dott. cav. Alfredo Colombo (Como) — A. M. Cornelio — Myriam Cornelio Massa — Comm. sen. Emilio Conti — Comm. Alberto Corbetta — Nob. comm. avv. Capitani d’Arzago — Comm. Ambrogio Dellachà (Torino) — Dott. sen. Malachia De Cristoforis Teresita Friedmann Coduri (segretaria) — Dott. Tommaso Gallarati Scotti — Cav. dott. Giuseppe Gallavresi Comm. gen. Alberto Gabba — Comm. avv. Bassano Gabba — Comm. sen. prof. Camillo Golgi — Comm. Francesco Gondrand — On, comm. Angelo Lucchini Cav. E. A. Marescotti — Sen. comm. Miraglia — E. T. Moneta — Comm. prof. Francesco Novati — Comm. sen. avv. Carlo Panizzardi — Cav. uff. Roberto Perego — Cav. ing. E. G. Pedrazzini (cassiere) — Sen. comm. G. B. Pirelli — Sen. march. Ettore Ponti Cav. Ernesto Reinach — Cesare Prandoni Comm. Giulio Ricordi — Gaetano Rocca — Cav. prof. Michele Scherillo — Grand’uff. sen. Giuseppe Speroni — Principe Trivulzio Della Somaglia — Dott. cav. Ettore Verga — Cav. uff. Giordano Zocchi.

Dopo un telegramma inviato all’on. Luzzatti, la seduta si sciolse, e fra poco il Comitato sarà convocato per le definitive disposizioni.

Si ritiene di poter inaugurare il monumento, affidato al Barcaglia, il giorno anniversario della morte dell’Uomo da tutti rimpianto.

INDISCREZIONE

Un’amica dell’anima mia volle fosse per me un quadernino di sue note interiori, dove essa si effondeva, davanti a Dio, come in una preghiera. Il libriccino modesto, rilegato in tela nera, lucida, che si screpola qua e là, rappresenta un tesoro per me, un tesoro come le sono tutte le testimonianze vissute dello spirito. Ne copio qualche pagina: forse non a tutti passerà inosservata e, giovasse anche a un’anima sola, quel profitto morale di un’anima sorella basterà a giustificare l’indiscrezione.

15 novembre 18....

La piena, l’insistenza del dolore m’avevano esaurita ed esasperata insieme: i miei ideali infranti, incompresi, pareva avessero perduto il loro fascino benefico, e li pensavo come si pensa a un’illusione che fu immensamente cara, ma della quale non saremo vittima più, dopo la dura esperienza.... Credevo così e cedevo, mi adagiavo nel mio affanno cocente e mi strascinavo, compiangendomi e compassionandomi..... Ma quando proprio non reggevo più, venne la luce dall’alto. Fu l’ispirazione di visitare l’amico di babbo, che mi tien cara come una figliola, che, quasi, mi è una guida spirituale....

Sono stata a trovarlo stamani, e gli ho narrato tutta l’anima mia, tutto il buio che avevo dentro, e l’avvilimento e la decisione di cambiar strada, di mutar strada, di mutar meta, visto che, con il mirar troppo alto, mi logoravo e non trovavo che amarezza.....

Il buon amico non mi ha contradetta, non mi ha rimproverata, non ha avuto una parola amara, ma una solenne, paterna dolcezza; un sentimento che mi avvolgeva, lo sentivo, anche mentre taceva, ascoltandomi, e che poi risonò, ammonitore e benefico, nella cara, venerata parola.

«Ebbene, e per queste cose tu vuoi rinunziare al bene?! Tu lo sai dove solo puoi trovare felicità: se rinunzi a quello che ti resta? Rammenta che non c’è felicità senza virtù, nè virtù senza dolore».

Io tacevo, io penetrevo in me stessa, io risentivo in me, nel profondo, che era vera quella parola, che spento davvero l’ideale della mia vita, sarei stata la più misera delle creature, che solo nel lavoro umile e costante, nonostante il dolore, io potevo trovare la ragione e il pregio della mia esistenza....

Io tacevo, ma sentivo l’efficacia di quella parola, che l’uomo venerando, prima che a me, aveva detto a sè. La sua parola, egli stesso mi pareva l’incarnazione di quella verità.... ed ho arrossito, io, ch’egli benefica della sua amicizia, d’aver chiuso gli occhi e lasciato, quasi, inaridire il cuore: ne ho provato rimorso e, nel pentimento, ho sentito in me risorger l’ardore....

Son rimasta a lungo, ritemprando lo spirito in quella conversazione, che per me ha avuto qualcosa di sacro, ed ora son qui, co’ miei dolori, ma con una speranza rinata che quasi li trasfigura.

L’amico del babbo mio prega, la molta coltura e l’ingegno eletto non diminuiscono l’ardore della sua pietà, la freschezza della sua fede: io son sicura che la sua preghiera mi raggiunge ed io ci conto come su una protezione celeste!

23 dicembre 18....

Sono stata a visitare la signora Giovanna.

L’ho trovata, nella sua povera stanza a terreno, serena e forte, in mezzo alla povertà e all’oblio come l’ho vista, un tempo, nell’agiatezza e nella società.

Che esempio in queste vite di martirio e di eroismo! M’ha parlato della tregua che, in questi giorni, trova a’ suoi patimenti, e poi ha soggiunto: «Eppure come si prega bene, quando si soffre!» Ho pensato alla frase ardente di Teresa: o patire, o morire! Pareva che invocasse il soffrire come, quasi, condizione di più profonda unione con Dio!

24 dicembre 18....

Oggi sono stata a confessarmi: l’ho fatto con conforto infinito e la voce autorevole del sacerdote, che m’ha conosciuta fin da quando era una bimba, ha [p. 62 modifica]giovato ineffabilmente all’anima mia. Oh, Dio è ben buono con me! Stasera ho l’anima tutta in esultanza e affretto con il desiderio il momento della Comunione.... Come voglio ridarmi a Gesù e supplicarlo che benedica i miei propositi buoni, che mi salvi dal male, che non permetta perda mai il coraggio del bene.

ADDIO ALLA CAMPAGNA



Oh desiato fresco odor de l’erba!
oh dolce pace di solinghi colli!
oh, smaltati di fiori, aulenti campi!
mentre giocondo su voi splende il Sole
e accenna da lontan tremulo il mare,
doman più non berrò la vostra luce!


Sospira l’alma a vostra pura luce,
qual fiera anela in selva a la Verde erba,
qual sol cadente anela a sera il mare!
Oh profumato susurrio dei colli,
dolce è scaldarsi, a la vostra ombra, al Sole
e al verde riso dei gemmati campi!


Nè selve mai, nè forre o verdi campi
nel petto infonderan più viva luce,
nè mai mi arriderà più lieto il Sole!
Parte de l’alma mia con sè tien l’erba
che aulisce lieta in questi dolci colli,
cui più seren guarda da lungi il mare!


Io partirò. Quale un errante in mare
nocchiero o belva spersa in folti campi
sarò, poi che lasciati avrò i bei colli.
Oscurarsi nel cor vedrò la luce
e rimarranno i miei sospiri in erba,
cui nullo scalderà raggio di sole.


Ma te nei sogni miei, fulgido Sole,
ma te, lontano tremolio di mare,
io sognerò, qual fiera la fresca erba.
E dovunque io vedrò riso di campi,
tornerò col pensiero a la tua luce,
e lieto riso di fioriti colli!


Oh chi mi strappa ai dolci verdi colli?
oh chi mi strappa a tal riso di Sole,
che l’anima inondò di calda luce?
Chi come in alto procelloso mare
mi sbalza e a me degli odorati campi
toglie la vista ed il tepor de l’erba?


Qual’arid’erba sparsa in nudi colli,
quai tetri campi, onde rifugge il Sole,
sarà mia vita, o mar privo di luce!

Francesco Macry Correale.



UNA GRANDE ANIMA FEMMINILE


La scrittrice Ellen Keller


È ormai conosciuta nei due mondi, ma non con esattezza. Di lei si dicono molte cose, alcune delle quali se furono vere un tempo, ora non lo sono più, grazie alla vittoria che ella riportò sul proprio destino. Erra chi la ritiene oltre che cieca, tuttavia sordomuta. Debellati i difetti della sua infermità col sostituire la multipla forza dei tre sensi vivi ai due sensi mancanti, lanciatasi coraggiosamente come chi ama di passione la vita vuole e brama e lotta, trovò anche la sua strada: una strada pressochè nuova dove si colgono fiori per l’anima e veri per la scienza. Domina in tutta l’opera sua o pensi o parli o scriva il proposito fermo di rivendicare ai ciechi e ai sordi, pieno e incondizionato il diritto di cittadinanza tra le creature attive; nel suo Mondo in cui vivo trovate pagine eloquenti contro la facile pietà che isola il sordo e lo lascia ammutolire al cieco altro non dona fuor che un cane ed un bastone; ogni capitolo è un processo a fondo contro i preconcetti che vorrebbero disconoscere i valori morali potenziali a questi disgraziati, sfida e vince con un diluvio di prove e logica battagliera di prim’ordine.

La Keller è ora trentenne: all’età di venti mesi perdette, in conseguenza di una malattia, la vista e l’udito, quindi la parola: con tutto ciò nel 906 si laurea all’università di Radcliffe e desta mille volte la meraviglia perchè parla, oltre la sua lingua, francese, italiano e tedesco, pronta a rivelarsi scrittrice di pensiero e artista finissima. Per circa sette anni visse in uno stato di quasi abbruttimento fra i genitori disperati e impotenti a trarre dal loro amore la sua salvezza. Ma un’aura provvidenziale proteggeva la piccola sperduta nel buio. Una donna colpita essa pure di cecità e guarita più tardi, Miss Sullivan, fu l’istitutrice che le venne a fianco aprendole subito un’era nuova di risveglio, di studio e di speranza. Elena Keller non si separerà mai più dalla sua fata benefica. Tutto le deve, dalla parola alla gloria. Ascesero insieme una strada di spine e di rose. Seguiamole un poco di sosta in sosta.

L’istitutrice non indugiò in moine: incominciò senz’altro. Eccole a passeggio una mattina di primavera: ecco una fonte a cui una donna attinge dell’acqua. Miss Sullivan prende la mano della bimba e la mette sotto lo zampillo freschissimo e mentre questa è tutta compresa nella sensazione del gelo, ella le scrive sveltissima sulla palma dell’altra mano la parola: «acqua»; una, due tre volte. L’esperimento ebbe successo. Sull’istante — dice la Keller — mi si destò un ricordo indistinto come di qualcosa dimenticata da lungo tempo di botto mi fu rivelato il mistero del linguaggio. «Io sapeva oramai che «acqua» traduceva quella cosa fresca colante nella mia mano». Un ardore nuovo di illimitata speranza la stimolò all’ubbidienza, le moltiplicò la fiducia nella sua maestra e lo stesso giorno imparò altre parole, le più belle: papà, mamma, sorella: [p. 63 modifica]parole che le balenarono nel cuore la luce dei sentimenti ad essi uniti, «Quella sera mi addormentai impaziente del domani».

È chiaro il metodo di Miss Sullivan. Ella le fece gustare le bellezze dei boschi odoranti, i fiori e l’erba, l’armonia delle linee e le fossette nella mano della sorellina. D’allora la febbre della vita non diede più requie alla futura scrittrice: furono anni di lavoro intenso: studi di lingue, di letterature, di storia: la filosofia le schiuse l’orizzonte della speculazione empiendola di serenità. L’idea di Dio l’accompagnò sempre onde il primo sgorgo del suo ottimismo è il sentimento di un dovere inconfortabile: quello di vivere per gli altri deririvando da sè tesori di esperienza.

«Io, cieca?, io sorda? È più difficile insegnare a pensare agli ignoranti che non insegnare a un cieco a vedere la grandezza del Niagara. Vi sono delle persone cieche di colori, sorde alle differenze dei suoni. Nelle gradazioni degli odori io percepisco il senso della distanza: in barca io sento tutta la solitudine e la vastità dell’oceano che riempie gli occhi. Noi ciechi possiamo volere essere buoni, voler amare ed essere riamati, diventare più saggi. Anche noi possediamo queste forze spirituali come tutti i figli di Dio, dunque anche noi vediamo i lampi e udiamo i tuoni del Sinai. Noi pure entrianio nella terra promessa».

Vedete a che meraviglioso sviluppo maturò la sua vita interiore, come si conciliò con l’esistenza. Negli Stati Uniti dove il suo nome è popolare e ricercato ornamento delle prime riviste; Elena Keller è la più infaticabile lavoratrice per migliorare la condizione dei ciechi, con gli scritti e con la presenza ella anima, consiglia, moltiplica energie. Accompagna il suo lavoro con un tono di profezia sicura: il suo periodare come il suo gesto sono così persuasivi da rendere vana ogni resistenza. È dunque duplice la sua efficacia perchè mentre scopre verità per la scienza le corrobora di un colore spirituale che è come un raggio di sole sul ramo carico di frutti. Dopo l’Histoire de ma vie — che è romanzo e trattato nello stesso tempo, documentato di tutti i particolari sfuggevoli — ci dà un’opera plasmata sempre col medesimo spirito ma di una originalità impressionante. Nel mondo in cui vivo. Per lei la mano è tutto: il suo udito e la sua vista, la mano le apre i giardini dei colori, l’innalza alle sfere della musica. «Se la musica si potesse vedere, io potrei indicare il punto ove vanno le note dell’organo».

Come ha studiato la società? in qual modo ella conosce l’animo della persona che le sta davanti? Col tatto: nella stretta amichevole quando accoglie e quando congeda. La mano della persona sensibile esprime con un solo tocco dei polpastrelli ogni finezza di pensiero; il moto nelle dita rivela l’utilità del lavoro: il dolore l’umiltà, la pazienza sono rivelate dalla stretta grave e calma: alcuni ricambiano la stretta con una parsimonia allettata come temessero che si voglia loro far del male: costoro sono diffidenti. Ci son mani che non lavorano eppure non sono belle: i movimenti delle dita infantili si possono chiamare i fiori campestri del linguaggio.

Oltre gli amici, tutti gli animali, oltre la tigre, hanno parlato nella mano di Elena Keller. Per lei come per nessun altro è giusta la definizione che dice la mano organo di prensione, dacchè ella per mezzo di questa afferra e tiene tutto quanto trova nei tre mondi: fisico, spirituale e intellettuale.

Il tatto è il senso più profondo e filosofico. Pei ciechi e pei sordi esso è la salvezza: compagno fedele, vigile insonne, mantiene quasi ininterrotta la comunione tra essi e il mondo.

Qual’è l’atteggiamento degli uomini di fronte alle cose? Guardano e basta: l’occhio pago, superficialmente pago, impigrisce la mano, sconsiglia la fatica di un passo per avvalorare la conoscenza dell’oggetto veduto. Il cieco non è pigro: il tatto sitibondo più della vista, vuole l’esperimento, sempre: ed egli con le mani che sono le sue antenne, varca l’isolamento e l’oscurità.

Se il mondo visibile è pieno di meraviglie, miriadi di sensazioni che il cieco percepisce, non possono essere dagli altri, nemmeno intuite: il bisogno che dà all’occhio la potenza visiva, dà all’intero corpo una potenza sensitiva. «A me pare talvolta che la stessa sostanza della mia carne si trasformi in altrettanti occhi aperti».

Dalle citazioni frammentarie che ho riportato, scelte qua e là nella vasta opera sua, apparirebbe un temperamento più scientifico che non sentimentale e filosofico. Ma Elena Keller ha nell’anima un centro luminoso dove raggia la più pura essenza d’amore. Passa a traverso del tragico quotidiano senza riportarne ferita: dovunque tocca scioglie un dramma, inspira la pace. E questa virtù sua, eccezionale le dettò un breve succosissimo libro su l’Ottimismo; per lei la vita è bella, ogni ora è seminata di felicità e riesce a convincere che l’esistenza è un gran dono per chi la sappia vivere amando.

Trasse dalla cagion prima delle sue sventure un rivo soavissimo di poesia: un inno al Buio che fa piangere d’invidia molti occhi aperti che vedono meno bene dei suoi:

Benedetto, tranquillo buio,
al solitario esiliato che in te dimora
tu sei benefattore ed amico,
tu dai splendore alle più umili cose.

Ellen Keller non scrive una pagina che non sia piena di tesori. Non fa dello stile: ci comunica semplicemente la sua vita, dandoci con grazia e con gioia cognizioni personali rarissime, sensazioni e sentimenti molto più alti del comune livello spirituale, infine pagine d’arte create nella lotta, tradotte senza sforzo, con getto primitivo e leale: tutto in lei è esattezza, convinzione, vittoria vissuta.




Il Municipio di Milano ha ordinato 150 abbonamenti per distribuire in tutte le scuole i fascicoli dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI.