Pagina:Il buon cuore - Anno X, n. 08 - 18 febbraio 1911.pdf/3


IL BUON CUORE 59


Il comprendere però è un dono: lo dice chiaro il Vangelo, parlando di cosa concessa e di cosa non concessa.

Noi falseremmo lo spirito evangelico se ci atteggiassimo a una passiva aspettazione di luce o ci rassegnassimo a esserne privi.

Dio, che chiede la confessione della nostra impotenza, l’umile riconoscimento della nostra miseria, non ci dispensa però, anzi domanda lo sforzo nostro personale per disporci ad avere i suoi doni.

Non è una recezione passiva che si deve attuare dal canto nostro ma una ricerca costante, ininterrotta, sincera. Invocando e attendendo, dobbiam lottare per raggiungere, per avere.

Sia degna e pura la nostra vita, sia sincero il nostro desiderio del bene: risponda a verità, a intimo sospiro del cuore, la richiesta di comprendere e accogliere la parola divina e, per ciò, siam vigili e attenti per non lasciarla risonare invano accanto a noi.

Purifichiamo il cuor nostro da ogni pregiudizio, da ogni antipatia, temiamo sempre, per la nostra limitazione, di non comprendere o di non comprendere interamente le parole con cui Dio ci parla.

Noi ci mettiamo nella luce migliore per ammirare un bel quadro e, a un concerto, cerchiamo i posti ove l’audizione è più perfetta; mettiamoci anche nello stato morale richiesto per udire la parola di Dio.

Dio, vedendo la nostra volontà e i nostri sforzi buoni, ci aiuterà, e, quando i suoi santi ci parleranno a nome suo, egli renderà sensibile il nostro cuore e aperta la nostra intelligenza.

«Non ardeva il cuor nostro mentre Egli parlava?» dissero i due discepoli di Emmaus dopo aver riconosciuto Gesù.

Anche a noi il Signore concederà questa commozione divina, quando ci parla con la parola de’ suoi figli migliori, se anche noi, come i due discepoli, avrem tristezza per l’impressione quasi di un abbandono suo e un santo ardore di esser solamente e sempre con Lui!

Educazione ed Istruzione


IN NAZARETH



Un giorno Gesù stava seduto sulla soglia della bottega di suo padre. Contava appena un lustro, ed era intento a formare dei cuculi con un mucchietto di argilla sciolta, donatagli dal vasaio che stava dirimpetto.

Era più felice dell’usato: tutti i fanciulli del quartiere gli avevano detto che il vasaio, uomo sgarbato, non si lasciava intenerire nè da sguardi amichevoli, nè da dolci parole, ed egli non aveva mai osato chiedergli cosa alcuna.

Ed ora non sapeva quasi rendersi conto di quello che era avvenuto: mentre egli dalla soglia della sua bottega fissava con intimo desiderio il vicino che allestiva i suoi vasi, questi, uscito dal negozio, gli aveva donato tanta argilla quanta ne sarebbe occorsa a formare una brocca da vino. Sulla gradinata della casa accanto sedeva Giuda: era brutto, di capello rosso, colla faccia piena di lividi e il vestito tutto strappi, riportati nei continui litigi coi ragazzi della strada. In quel momento era tranquillo, non provocava nessuno nè si azzuffava, ma stava lavorando come Gesù, con un pezzo d’argilla. Egli però non se l’era procurata da sè: non si fidava quasi a passare dinanzi al vasaio, per tema d’esser cacciato a colpi di bastone, poichè quegli lo accusava di gettare continuamente pietre sulla sua fragile mercanzia.

Era stato Gesù che aveva diviso con lui la sua provvigione. Appena terminati i loro cuculi, i due fanciulli li disponevano in cerchio. Erano simili ai cuculi d’ogni tempo: un po’ di terra rossa li sosteneva in luogo di piedi; avevano la coda corta, punto collo e ali appena visibili. Con tutto ciò appariva subito una differenza nel lavoro dei piccoli camerati. Gli uccelli di Giuda erano sbiechi e capitombolavano; per quanto si affaticasse colle sue piccole e forti dita non riusciva a far loro un corpo aggraziato e bello. Gettava degli sguardi furtivi dalla parte di Gesù per vedere come riuscisse a formare i suoi uccelli così proporzionati e lisci come le foglie di quercia nelle foreste del monte Tabor. Ad ogni uccello che gli usciva dalle mani Gesù si sentiva più felice. Gli sembravano uno più bello dell’altro, li ammirava con fierezza e con amore. Sarebbero dovuti diventare i suoi compagni di giuoco, i suoi piccoli fratelli, avrebbero dovuto intrattenerlo con dialoghi, dormire nel suo letto, e quando sua madre lo lasciava solo cantargli le loro canzoni. Non si era mai reputato tanto ricco, non si sarebbe mai più sentito nè isolato, nè abbandonato.

Curvo sotto il suo grave carico, passò l’acquaiolo dall’alta statura, e subito dietro lui l’ortolano, troneggiante fra due ceste vuote, sul dorso del suo asino.

L’acquaiolo posò la mano sul capo biondo e ricciuto di Gesù e gli richiese dei suoi uccelli. Gesù raccontò che avevano nome e che potevano cantare. Tutti i suoi uccelli erano venuti da paesi stranieri e dicevano cose note soltanto a lui e a loro. Gesù parlava in modo che l’acquaiolo e l’ortolano dimenticarono i loro negozi per ascoltarlo. Quando stavano per riprendere il cammino, Gesù accennò loro Giuda: «Guardate che belli uccelli fa Giuda» disse.

L’ortolano trattenne bonariamente il suo asino e domandò a Giuda se anche i suoi uccelli avevano nome e sapevano cantare. Ma Giuda non capiva nulla di ciò e taceva ostinatamente senza levar gli occhi dal suo lavoro: l’ortolano stizzito urtò col piede uno dei suoi uccelli e seguitò a cavalcare.

Passò così il pomeriggio: il sole scese tanto basso che il suo raggio potè passare attraverso la piccola porta della città, che, ornata dell’aquila romana, si ergeva alla fine della strada.