Il bugiardo/Nota storica
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NOTA STORICA
«El Busiaro sul desegno / De Cornelio lavorà, / Ha piasesto, e sta xe degno / D’esser spesso replicà» (Foffano, Due documenti goldoniani. N. Arch. Ven. 1899, T. XVIII). Così, nel Complimento recitato da Rosaura dopo i Pettegolezzi, il Goldoni confessava la fonte e si compiaceva del successo. Nell’ediz. Bettinelli (1753, T. IV), tolta alle sue cure, del Corneille non è parola, e se ne dolse il poeta (Ed. Paperini, I, p. 242) come di torto fatto alla sua onestà. A una recita del Menteur a Firenze, opera di dilettanti, s’èra detto: «Ecco una buona commedia, ma il carattere del bugiardo si potrebbe rendere assai più comico». (Mem. II 8 ). Due decenni più tardi un critico famoso dichiarò, senza eufemismi, intero il pensiero del Goldoni: «Secondo me il Menteur non dà segno di verun talento comico». (W. A. Schlegel, Corso di lett. dramm. Napoli, 1859, p. 197). Il modo di rendere più esilarante la commedia, il Goldoni lo trovò nell’anno fatale delle sedici. Composta già nel 1748, ma «giudicato a proposito di non esporla» perchè cattiva, venne rifatta di sana pianta due anni dopo (Ed. Paperini, VII, p. 187). Il Goldoni vi resta assai più lontano dal Corneille, che non questi dalla Verdad sospechosa di Alarcon (non di Lope de Vega, come, per errore allora comune, scrive il Nostro), da lui imitata. Era ricorso al Menteur per bisogno di riposare la fantasia? Tutt’altro. Svolgere la tela con novità di atteggiamenti e di episodi, e anzitutto con sicura visione della vita drammatica, richiedeva assai più forza inventiva che non il recare sulla scena il comunissimo tipo del bugiardo. Del nuovo aggiunto l’a. si gloria e, salvo la modestia, non ha torto. Il contrasto creato tra l’amante timido e l’impudente, il sonetto, le lettere, Arlecchino che, con poca fortuna, scimmiotta il padrone, sono elementi felicissimi che crescono brio e comicità al lavoro. Non tutta farina del gran sacco goldoniano è forse la gustosa trovata del sonetto. Nel Giudice impazzato del Gigli, autore famigliare al Goldoni, un poeta da strapazzo s’imbatte in un contadino, avviato per certa lite al tribunale, e gli recita un suo sonetto che quegli riferisce verso per verso ai casi suoi (A. I, sc. X). E più deve forse il Bugiardo, secondo Achille Neri, alla Feinte inutile del Romagnesi, altra eco del Menteur; p. e. l’idea della dimora incognita che Lelio vorrebbe fare a Venezia, se l’incontro col padre non frustrasse i suoi piani; quella del servitore che imita il padrone, e l’altra dell’amante timido: affinità di tratti «che non è per avventura da credersi fortuita; onde si verrebbe a concludere che al commediografo veneziano non rimase ignoto il lavoro dell’attore francese, in tanto grido a’ suoi di [Rasi, I comici, ecc. II, p. 400-402], ed oggi quasi interamente dimenticato». (Un’imitazione del «Menteur». Fanf. d. domen. 1888, n. 14). Ma non nel nuovo soltanto è palese la superiorità dell’ingegno comico del Goldoni di fronte al Corneille. Si vegga quanto movimento e quale maggior verisimiglianza abbia la grande scena fra babbo e figliolo (A. II, sc. XII), ricalcata sulle orme del Menteur (Giacosa, L’arte di C. G. in Comm. scelte di C. G. Milano, Hoepli, 1902, pp. XVIII-XXVI).
Alarcon e Comeille avevano scritto in versi, «un merito di più» nota il Voltaire (Commentaire sur Corneille, ed. Beuchot, T. XXXV, p. 448-449). A creder suo i commediografi preferivano ormai la prosa, perchè si faceva più presto e con minor fatica. Non il Goldoni. La prosa rispondeva a quel senso della realtà scenica ch’egli possedette sovrano. Con questo, si capisce, via ogni ricercata eleganza e quella dignità nei personaggi, che il Rabany (C. G. ecc. Paris, 1896, p. 278) sente mancare. Dello stile «tutt’affatto prosaico e comunale» si duole anche il Carrer (Notizie su la comm. it. avanti C. G. Venezia, 1825, III, p. 131), ma nei rapporti tra le due commedie «dal lato della vivacità nel dialogo e nei caratteri» il suo giudizio pende a favore del Goldoni. Il quale segue l’originale solo nelle linee maestre della tela (serenata, casato, nozze progettate dal padre e simulate dal figliolo, cena in casa delle ragazze), ma con ciò che aggiunge di suo, per il contenuto delle singole scene, e dando non nel nome soltanto, ma nel fatto, cittadinanza veneziana a Lelio e alle sue vittime, Carlo Goldoni sostituisce in effetto commedia a commedia. «Il Bugiardo... merita di esser detto piuttosto creazione originale che imitazione» conclude perciò lo Skola un suo accurato parallelo fra le tre commedie (Corneille’s. Le M. und Goldoni’s Il B. in ihrem Verhältniss. zu Alarcon’s La v. s. Pilsen, 1884, p. 62). Nella critica storico-teatrale le esercitazioni letterarie sui rapporti tra i due lavori (battistrada benevolo e oggettivo il Voltaire) abbondano. Tranne pochissimi, cui sembra meschina cosa il Bugiardo (R. Lavigne nella Notice al Menteur. Paris, Hachette, 1889, p. 5,196) o addirittura indecoroso mettere il nome di un Goldoni allato a quello di Pierre Corneille (E. Copping, Alfieri and G. London, 1857, pp. 267, 268), il consenso sulla maggior vita drammatica conferita dal Nostro alla vecchia favola, è quasi generale (vedi oltre alle opere già cit. ancora Cronegk, Schriften, Carlsruhe, 1776, I, pp. 426-428; H. Auger, Physiologie du thèatre, Bruxelles, 1840, II, pp. 267, 268; F. U. Maranzana, Un tipo fortunato. Gazz. letter. Torino, 1885, 10 ott.; A. Neri, A proposito di un tipo fortunato, ibid. n. 43; J. Minor, Wahrheit und Lüge auf dem Theater und in der Literatur. Euphorion, A. III, fase. III [1896], pp. 272, 273, 309-312; G. Gabrieli, Due commedie, La vedetta. Fiume, 15 VII 1906; G. Gallica, Il Bugiardo di C. G. e la comm. dell’arte, Torino, 1907; C. Camerano, Il Bugiardo di papà G., Gazz. d. popolo della domenica, Torino, 23 febbr. 1908. Rientrano verisimilmente in questa rubrica le lezioni tenute sulla nostra commedia intorno al 1816 dal Beck all’Università di Halle (Masi, Studi sulla st. del tea. it., Firenze, 1891, p. 140) e da Arturo Graf nel 1904 all’Ateneo di Torino.
Tra le commedie più vive, più varie del Goldoni, ma certo non senza difetti. Arruffato, artifizioso troppo il terz’atto. Troppo uniformi nella loro antipatica volubilità e nelle gelosie vicendevoli le due sorelle, e odioso, ripugnante addirittura da ultimo il protagonista. Addosso al quale l’a., fidando ciecamente nell’opera moralizzatrice del ravvedimento finale, cui nella prima forma del lavoro prestava energico aiuto il bargello in persona (Ed. Paperini, A. III, sc. ult.), carica troppo la mano. Cade il Goldoni così in un difetto, del quale a proposito del Chiacchierone imprudente assai giudiziosamente ragiona: «Basta innamorarsi di un carattere grande, e volere in varie viste dipingerlo, facilmente si cade senz’avvedersene nella disorbitanza: e non val nemmeno il fidarsi dell’esempio di qualche originale stravagante, che ci somministri l’idea, poichè l’universale non vuole sopra le scene un vero estraordinario, ma un verisimile più comune» (Ediz. Paperini, v. VIII, p. 82). Se poi la figura incarna difetti o vizi, entra in campo anche la questione morale che, massime in Germania, ebbe sempre sì larga parte nelle critiche fatte al Goldoni. Dal Cronegk (op. cit.), ingenuamente persuaso che il castigo finale di Lelio bastasse a paralizzare i perniciosi esempi della bugia, al Werther (Römische Theater - Stagione, N. Wiener Tabhl. 17 marzo, 1897), il quale per riguardi etici lo condanna senza più al bando dalla scena, è tutto un affannarsi intorno a questo povero Lelio, bilanciare il danno che dall’abito di spiritose invenzioni potesse derivare all’umanità, e pensare ai ripari. Ma il buon senso in persona di Ludwig Tieck mise le ragioni dell’arte al di sopra di grette ubbie moralistiche, quando un Carneade della scena, per far del Bugiardo una scuola di virtù, tolse spirito e sapore alla commedia: «... così l’autore, a me ignoto, mutando gli incidenti allegri, trasformando i personaggi comici in fior di galantuomini, e all’ironia sostituendo la virtù e la morale, finì col fare d’una vera commedia una parodia in verità ripugnante». E voleva che tutt’al più si tagliasse qua e là, ma all’essenza, al carattere dell’opera nulla si togliesse, perchè «questa commedia che bisogna mettere tra i capolavori del Goldoni ritiene verità e sostanza solo se la scena è a Venezia, nè devono mancarvi la maschere. Papà Pantalone resti comico anche nel suo dolore. Commozione e persino dignità, la dignità dell’uomo onesto sì crudelmente provato, non escludono già la comicità del personaggio. Trovare tale accordo è appunto compito bellissimo d’un attore intelligente». (Kritische Schriften. Leipzig, 1898, vol. Ili, p. 219-223).
Ma doveva essere proprio commedia di carattere il Bugiardo? Chi ben guardi, non consente. Anche l’appunto mosso dal Goldoni al Corneille prova che la fantasia del poeta aveva intravvisto un’allegra commedia d’intreccio (Schmidbauer, Das Komische bei Goldoni, München, 1906, p. 21), dove la bugia - come più tardi, in un altro capolavoro, un ventaglio - metta in iscompiglio tutto un piccolo mondo. Anzi Lelio, eco affievolita del Capitano, le maschere e la scena ch’è in gran parte sulla pubblica via fanno pensare senz’altro alla commedia dell’arte (Gallico, op. cit.). Pregiudizi moralistici e pretesa di tipi profondamente studiati qui non ci hanno che vedere. Di caratteri emerge uno solo, simpatico sempre, più vivo che mai - Pantalone, - tanto vero e tanto ingenuo nell’innata bontà sua, che Jacopo Corsini, il comico-poeta (vedi Nota al Serv. di due padroni) aveva ragione di mettergli in bocca versi come questi: «.. se padre talor costui [Lelio] mi chiama, / Sul dubbio che ancor qui mentire ei puole / Rinunzio un tal diritto a chi lo vuole», e un’altra volta, variando lo stesso pensiero: «O la nutrice baratollo in fasce / O mia moglie mi fè qualche scherzetto».
Alla fortuna del Bugiardo è testimonianza, più eloquente ancora della ricca messe di studi fioritavi intorno (vedi anche A. Momigliano, Lo stile e l’umorismo nel «Bugiardo». Asti, 1904), la vitalità costante e oggi ancora fresca sulla scena. Ricordiamo a questo luogo l’interpretazione finissima che Ferruccio Benini ed Emilio Zago danno alle parti di Lelio e di Pantalone. Oltre alle numerose riduzioni della commedia a scopo educativo (Salvioli, Bibl. univ. del tea. dramm. it. Venezia, 18%, I, col. 568; ancora: Il bug. comm. di C. G. ridotta p. ist. maschili. Torino, 1895). Ne esistono versioni in lingua italiana (Il bug. ecc. Sec. ediz. Monaco, 1858) e - ahi - senza maschere (Salvioli, ibidem, e Il bug. comm. in 3.a rid. per la sce. mod. senza masch. e dal dial. venez. Roma 1876). «Rifatto sul gusto delle nostre scene, sull’originale dell’inimitabile Goldoni» fu il Bug. anche da G. B. Lorenzi (Croce, I teatri di Napoli ecc. Napoli, 1891, p. 541; Di Giacomo, Cronaca del teatro S. Carlino. Trani, 1885, p. 89). Un adattamento siciliano lo dobbiamo a Giuseppe Colombo (Russo-Aiello, Tragedia e scena dialettale, Torino-Genova, [1908], p. 216). In dialetto milanese recitava la parte di Pantalone il Moncalvo (I teatri, 1828, vol. 2°/2, p. 694).
Il Bugiardo nel 1840 venne trasformato pure in «produzione melo-comica» su parole di Scotti e musica di M. Sciorati (A. Neri in Giorn. stor. e lett. d. Liguria, 1900, p. 467). Ma chi dettò e dove sono le note di quella serenata che con mirabile mossa tutto veneziana apre la commedia? Era forse ancora la stessa canzonetta che con musica di Francesco Brusa il Goldoni fece eseguire a Venezia nel 1732 (1733?) sotto le finestre di due donne da lui vagheggiate, interprete Agnese Àmurat «la cantatrice di moda per le serenate» (Mem. I, c. 25 e sull’Agnese Rasi, I comici ecc. 1, p. 38)? Il gustoso episodio, di sapore casanoviano, ma senza ingiuria al buon costume, fu drammatizzato di recente da Nino Berrini nel suo Avvocatino Goldoni (rec. la prima volta al Valle di Roma il 20 nov. del 1907 da Dora Baldanello), dove, con buon accorgimento, è riprodotta tale e quale la canzonetta del Bugiardo, musicata dal m.o Soffredini (vedi D. Oliva, L’avv. G. di N. B. Giorn. d’Italia, 22 nov. 1907). La canzonetta del Brusa aveva avuto fortuna a Venezia e si cantava dappertutto (Mem. ibid.). Il compositore, nel ’26 organista a S. Marco, era già noto per opere in musica e altro compose poi anche su libretti dello Zeno e del Metastasio. Il Goldoni lo dice poco fortunato (Ed. Pasquali, v. X, p. 15; Wiel, I teatri musicali di Venezia, Ven. 1897, Indice). Anche se nel Bugiardo non si ripetono musica e parole, si può ammettere forse, per la identità dell’episodio (una serenata per due donne senza che apparisca a quale vada l’omaggio), che il poeta nello stendere la commedia si giovò del ricordo. Così anche una volta un episodio vissuto avrebbe animato una scena del suo teatro (vedi in argomento A. Neri, A proposito ecc. cit.). Ma pur la graziosa canzonetta del Bugiardo, dal ritmo carezzevole con la rima che con bella armonia spezza sempre a mezzo il quarto verso, fu ben fortunata. Prima del Berrini l’aveva riprodotta V. Malamani nella Musa popolare (Il 700 a Ven. Torino-Roma, 1892, II, pp. 125-127) quasi componimento modello per le serenate. Alcune strofe cita e traduce il Somborn (Das venetianische Volkslied. Heidelberg, 1901, pp. 44-47) nell’esame minuto che ne dà. Altri veda se l’appunto di puerile insulsaggine fatto al ritornello sia giusto.
Prova non infallibile, ma certo delle più sicure per il valore d’una produzione teatrale, è la fortuna sua oltre i confini linguistici. Il Bugiardo fu tradotto finora (rispettivamente ridotto o imitato), una quindicina di volte almeno, in sette lingue (francese, portoghese, tedesca, inglese, russa, polacca, ungherese). Non si peritò di tradurla nella sua Stefano Aignan (Chefs-d’oeuvre du theatre Italien. Goldoni. Paris, 1822) col pericolo di toccare qualche sassata da connazionali troppo gelosi delle autoctone glorie, cui con sacrilega mano un Italiano aveva osato toccare. Nota l’Aignan che la trovata dell’amante sciocco, dei cui regali e attenzioni altri più ardito si vale, fu imitata dal Picard nel suo Café du printemps (Notice, pp. 12, 13, op. cit.). Del Bugiardo si giovò, assai probabilmente, anche l’inglese Samuele Foote, commediografo e attore, per il suo The liar, recitato nel 1761 (Minor, op. cit. p. 312). L’Ungheria, che già nel 1794 possedeva una traduzione del lavoro (J. Bayer, A magyar dramairodalom története. Budapest, 1867, I vol. p. 126), festeggiò il bicentenario della nascita del Nostro al Teatro Nazionale della capitale (il 13 aprile) con una nuova fedele versione di Antonio Rado (stampata nel 1882, n. 347-349 dell’Olcsò Könyvtar; sulla recita il bell’articolo di M. Ruttkay-Rothauser in Pester Lloyd, 14 aprile 1907). Ma la fortuna maggiore l’ebbe anche questa commedia, come tante delle sue sorelle, in Germania, dove riuscì presto a soppiantare vittoriosamente il Menteur. Fu eseguita per la prima volta a Lipsia il 25 maggio del 1768 (Schaz, Des Herrn C. G. Beobachtungen ecc. Leipzig, 1789, III, p. 377). Benché il noto cronista teatrale C. H. Schmid in una notizia del 1770 la dicesse di gusto troppo italiano, per poter piacere nel suo paese (Theater - Chronik, Giessen, 1772, p. 19), già tre anni dopo il drammaturgo Giovanni Schink in una lunghissima recensione al Bugiardo, ridotto da S. F. Schletter (Vienna, 1781), scriveva: «Tra le commedie del Goldoni in verità nessuna è così popolare ne’ nostri teatri, nessuna si mantiene così a lungo ne’ repertori delle nostre compagnie come il Bugiardo. L’hanno cara pubblico e attori, e l’uno nell’interpretare la parte del bugiardo ci trova lo stesso diletto che l’altro a sentirlo». (Dramaturgische Fragmente, Graz, 1781, vol. II, p. 538). Dànno ragione al secondo tanto le notizie statistiche nelle storie dei mille teatri tedeschi, quanto una mezza dozzina tra versioni e adattamenti più o meno liberi (del Saal nel 1768, del Grünfeld nel 1803, dell’Ehnmfeld nel 1807, di F. L. Schmidt nel ’13 oltre alla già cit. dello Schletter. Nell’Epistolario di Hans v. Bülow si accenna a una traduzione fatta da suo padre Edoardo [Briefe, Lipsia, 1900, v. IV p. 356]. Anche in Germania, come da noi, la commedia penetrò nei teatri d’educazione, sempre, si sa, con le debite cautele (Der Lügner. Luslspiel in 3 Aufz. Für männliche Rollen umgearb. Paderborn, 1895. È traduz. dall’ital.).
A Nicolò Barbarigo, dedicatario, si rivolge pure il Goldoni in un capitolo per le nozze del fratello, N. U. Agostino (Componim. diversi, Pasquali, vol. II, p. 175). Stava per lasciare Venezia e memore che anche il Barbarigo era tra quelli che avevano protetto l’edizione di Firenze e aiutato lo spaccio (Mem. III, c. XXIII ), gli parla del privilegio ormai accordato alle sue opere a stampa e si lusinga che l’utile pecuniario da ricavarne possa agevolargli il rimpatrio.
E. M.
Questa commedia fu stampata quasi contemporaneamente, nel 1753, dal Bettinelli (t. IV) di Venezia e dal Paperini (t. I) di Firenze, seguiti l’anno stesso dal Pisani (t. IV) e dal Corciolani (t. IV) di Bologna, e dal Gavelli (t. I) di Pesaro. Fu poi ristampata a Torino da Fantino-Olzati (I, ’56) e Guibert-Orgeas (II, '72), a Venezia dal Pasquali (II, ’62), dal Savioli (XIII, ’72), dallo Zatta (cl. 2, t. III, ’90), dal Garbo (XIII, ’97), a Livorno, a Lucca e altrove, nel Settecento. — La presente ristampa seguì principalmente il testo del Pasquali, ma reca in calce le varianti delle altre edizioni, e in Appendice le scene dell’ed. Bettinelli dall’autore modificate o soppresse. Valgono le osservazioni già fatte per le commedie precedenti.
Nicolò Barbarigo (dell’Anzolo Rafael: n. 13 nov. 1716 da Marc’Antonio e da Maria Savorgnan, senatore nel ’60) è ricordato da C. G., nel capitolo citato sopra, fra i più cari suoi protettori, Valier, Falier, Balbi, Quirini, Zorzi, Beregan: «Tempo fu ch’i’ potea fra’ commensali, - O a liete veglie, ragionar con seco, - E a parte farla de’ miei beni e mali; - E mi sovvien che generosa meco - Ella fu sempre di consigli e doni, - Quand’era il destin mio torbido e bieco». Insieme con gli amici Nicolò Balbi, Zuanne Falier, Marin Zorzi e altri, ricevette nel ’75 Giuseppe II nel casino sotto le Procuratie (v. Nota stor. dell’Erede fort.); ed era anche in quel tempo Savio del Consiglio. Sopravvisse, come il Falier, alla caduta della Repubblica.