Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXV
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CAPITOLO XXV.
Mia prima arringa. — Mie avventure con una zia ed una nipote.
La causa che mio zio veniva a propormi era una contestazione proveniente da una servitù idraulica. Un mugnaio aveva comprato un filo d’acqua per dar moto ai suoi mulini, ed il proprietario della sorgente l’aveva deviata: si trattava dunque di ristabilire l’attore in tutti i suoi diritti, dei danni sofferti, ed ogni altro interesse. La città di Crema aveva preso parte e causa in favore del mugnaio. Esisteva un modello dimostrativo, ed erano nati processi verbali, fatti, violenze, ribellioni. La causa era mista di civile e criminale, e dovevano giudicarla gli Avogadori, magistratura autorevolissima, simile appunto a quella dei tribuni del popolo romano. Avevo per avvocato contrario il celebre Cordelina, l’uomo più dotto e più eloquente della curia di Venezia: egli doveva parlare il primo, ed io rispondere sul fatto senza scritti e meditazioni. Si dà l’appuntamento del giorno; ed io mi porto al tribunale della Avogarìa. Il mio avversario parla per un’ora e mezzo; lo ascolto, e non lo temo. Finita la sua arringa, do principio alla mia; procuro, mediante un patetico preambolo, di conciliarmi il favore del giudice. Era la prima volta che mi esponeva, e avevo bisogno d’indulgenza; entro in materia; attacco di fronte l’arringa di Cordelina. I miei fatti son veri, buona la mia voce, la mia eloquenza non dispiace: parlo per due ore, concludo, e mi trovo dalla testa ai piedi in un mar di sudore.
Mi aspettava il servitore in una camera vicina, ove mi mutai la camicia: era stanco, sfinito. Ecco mio zio: — Caro nipote, vincemmo, e la parte contraria è condannata nelle spese. Coraggio, caro amico, egli continua, coraggio, questo primo saggio vi annunzia per un uomo che deve conseguire un bell’avviamento; non vi mancheranno clienti. — Eccomi dunque felice... Cielo! che destino! che rovesci!
Il disgraziato avvenimento che io son per raccontarvi, annunziato da me stesso nel passato capitolo, avrebbe potuto essere inviluppato fra gli aneddoti de’ due anni precedenti; ma mi è piaciuta piuttosto di riunirne l’istoria in tutto il suo intiero, che di troncarne il filo e di sbocconcellarla. Mia madre era stata in strettissima lega con la signora St***, e la signora Mar*** due sorelle divise di azienda domestica tra di loro, benchè abitanti nella medesima casa. Dopo averle perdute di vista a motivo dei suoi viaggi, ella ne rinnovò la conoscenza appena ci ristabilimmo in Venezia. Fui presentato a queste dame; e siccome la fanciulla era la più ricca, abitava perciò il primo piano, e teneva conversazione, la quale noi frequentavamo a preferenza dell’altra. La signorina Mar*** non era giovine, conservava ancora bensì molti bei pregi: nell’età di quarantanni era fresca come una rosa, bianca come la neve, con vivace colorito naturale, occhi grandi, vispi e spiritosi, una bocca amabile, ed un aspetto di salute molto piacevole; il solo naso guastava un poco la sua fisonomia. Aveva un naso aquilino un poco troppo rialzato che per altro le dava un’aria d’importanza quando si metteva sul serio. Aveva sempre ricusato di maritarsi, benchè, pel suo onesto contegno e per la sua fortuna, non le fossero mai mancati partiti, e, non so se per mio bene o per mia disgrazia, io fui l’avventurato mortale che seppe il primo andarle a genio. Eravamo d’accordo; ma non ardivamo dircelo, poichè la signorina faceva la vereconda, ed io temeva un rifiuto. Ne feci la confidenza a mia madre, a cui non dispiacque, anzi, credendo il partito per me conveniente, s’incaricò d’intraprenderne il trattato: procedeva bensì molto lentamente, per non distrarmi dalle occupazioni, e avrebbe voluto che io avessi un poco più di stabilità nella mia professione. Frattanto andavo a passar le sere in casa della signorina Mar***, ove scendeva anche sua sorella per far la partita, conducendo seco le due sue figlie già di età nubile: la maggiore era deforme, l’altra poi era ciò che si dice in francese une laideron, ch’è quanto dire una donna brutta, ma non sgradevole. Aveva peraltro due begli occhi neri e furbi, una piccola maschera di Arlecchino molto gustosa, e delle grazie naturali ed incitanti. Non era amata dalla zia, per essere ella stata più volte d’ostacolo alle passeggiere di lei inclinazioni, onde non mancava di fare il possibile per toglierle il posto a riguardo mio. In quanto a me, mi divertivo con la nipote, e stavo forte con la zia. In questo mentre s’introdusse in casa della signora Mar*** una Eccellenza, che fece l’occhietto alla bella, ed ella cadde nella rete. Nè l’una nè l’altro però si amavano; la signorina teneva al titolo, e il signore alla di lei fortuna. Frattanto io mi vidi decaduto dal posto d’onore che fin allora avevo occupato; me ne offesi, e per vendicarmi feci la corte alla detestata rivale, spingendo tant’oltre la mia vendetta, che in due mesi di tempo divenni compiutamente amante, e feci colla mia non spiacevole brutta un buon contratto di matrimonio in tutte le regole e forme. Vero è, che la madre della signorina ed i suoi aderenti non mancarono di scaltrezza per farmi cadere nei lacci. La nostra convenzione però conteneva alcuni articoli del maggior mio vantaggio: dovevo ricevere una rendita che apparteneva alla signorina; sua madre doveva cederle i suoi diamanti; ed oltre a ciò dovevo metter le mani sopra una somma considerabile dì un amico di casa che non mi si volle nominare. Continuavo sempre a farmi vedere dalla signorina Mar ***, e vi passavo le sere secondo il mio solito: la zia però diffidava della nipote, vedendo che io usava colla medesima attenzioni non tanto riservate. Sapeva, che da un certo tempo io saliva sempre al secondo piano avanti di entrare nel primo: il dispetto la divorava, e voleva disfarsi della sorella, delle nipoti e di me. Sollecitò a quest’effetto il suo matrimonio col gentiluomo, che credeva di aver nella rete, facendogli parlare per convenir del tempo e delle condizioni. Ma qual fu mai la di lei maraviglia ed umiliazione, quando ebbe in risposta, che sua eccellenza domandava la metà dei beni della signorina in donazione maritandosi, e l’altra metà dopo la di lei morte? Si abbandonò allora ai più violenti impeti di rabbia, d’odio e di disprezzo, mandò un formale rifiuto al suo pretendente, poco mancando che non morisse di dolore. Le persone di casa, che ascoltano e parlano, riferirono tutto ciò che sapevano alla sorella maggiore, ed ecco la nipote in egual modo che la madre nel più gran giubilo. La signorina Mar*** non ardiva dir nulla; divorava bensì in segreto il suo rancore, e vedendomi affettare attenzioni per la nipote, con que’ suoi occhi grossi, accesi di collera, mi vibrava guardi terribili. In questa compagnia eravamo tutti cattivi politici. La signorina Mar*** che non sapeva come procedevano le cose tra me e la sua nipote, sperava sempre di potermi strappare dall’oggetto della sua gelosia, e mediante la differenza delle loro fortune credeva di potermi rivedere a’ suoi piedi; ma il tratto di perfidia, di cui io son per accusarmi, la disingannò intieramente. Avevo composta una canzonetta per la mia bella, avevo fatto compor la musica da un dilettante pieno di buon gusto, ed avevo ideato di farla cantare in una serenata sul canale dove corrispondeva la casa di quelle signore. Credei che questo appunto fosse il momento favorevole per far eseguire la mia idea, sicuro di far piacere all’una, e rabbia all’altra. Un giorno, in cui eravamo nella sala della zia, facendo la partita intorno le nove ore della sera, si sente nel canale una strepitosa sinfonia sotto il balcone del primo piano, e per conseguenza sotto le finestre ancora del secondo. Ognuno si alza, ponendosi in situazione di goderne. Finita l’introduzione, si ascolta la voce amabile di Agnese, che era la cantatrice di moda per le serenate, la quale per la bellezza della sua voce, e per la chiarezza della sua espressione fece molto bene gustar la musica, ed applaudir pienamente le armoniche strofette. Ebbe sorte questa canzonetta in Venezia, poichè si cantava dappertutto; suscitò peraltro inquietudine nello spirito delle due rivali, ciascuna delle quali aveva diritto di appropriarla a sè stessa. Procurai di acquietar sotto voce la nipote, assicurandola che la festa era stata dedicata a lei sola, e lasciai l’altra nell’agitazione e nel dubbio. Tutti mi facevano complimenti; io mi schermiva, e mantenevo l’incognito, non dispiacendomi per altro di esser lo scopo del loro sospetto. Il giorno dopo mi portai alla casa di quelle signore all’ora solita. La signorina Mar***, che mi faceva la posta, mi vide entrare: venne al mio incontro, mi fece passare nella sua camera, volle che sedessi accanto a lei, e con viso serio ed appassionato mi disse: — Voi ci avete regalate di un divertimento bellissimo; siamo però più femmine in questa casa: a chi mai ha potuto esser diretta questa festa galante? Io non so se tocchi a me a ringraziarvi. — Signorina, le risposi, non son io l’autore della serenata... M’interrompe allora con aria brusca, e quasi minaccevole: — No, non vi nascondete, ella disse; vi sforzate invano; ditemi solamente se questo divertimento è stato immaginato per me, o per altri, e vi avverto, che questa dichiarazione può divenir seria, che deve esser decisiva, e non vi dirò altro. — Se fossi stato libero, non so che cosa avrei risposto, ma ero nei lacci, onde non avevo che una sola risposta da dare. — Signorina, io le dissi, nella supposizione che io fossi l’autore della serenata, non avrei mai ardito di indirizzarla a voi. — Perchè? ella riprese. — Perchè, risposi, le vostre mire sono troppo superiori alle mie, nè vi sono che i signori grandi, che possano meritare la vostra stima... — Basta così, ella soggiunse alzandosi; ho inteso tutto: andate. Signore, voi ve ne pentirete. — Ella aveva ragione; me ne sono infatti molto pentito. Ecco dichiarata la guerra. La signorina Mar***, offesa di vedersi soppiantata dalla sua nipote, e temendo di vederla maritata prima di sè, rivolse le mire a un’altra parte. Stava dirimpetto le sue finestre una famiglia rispettabile, non titolata, ma bensì in parentela con alcune famiglie patrizie, il figlio maggiore della quale aveva fatto la corte alla signorina Mar***, ed era stato rigettato. Ella procurò di far nuova lega col giovine, che non ricusò; gli comprò una carica onorevolissima nel palazzo, ed in sei giorni di tempo tutto fu accordato, e fu eseguito il matrimonio. Il signor Z***, che era il nuovo sposo, aveva una sorella, che doveva maritarsi nel medesimo mese a un gentiluomo di terraferma, e questi erano due matrimonii di persone molto comode; la mia bella ed io dovevamo fare il terzo, e quantunque mendichi come eravamo in sostanza, pur bisognava figurar di esser ricchi, e rovinarci. Ecco ciò che mi ha dissestato, ecco ciò che mi ha ridotto all’estreme angosce. Come fare a sbrogliarsene? lo vedrete nel capitolo seguente.