Il bel paese (1876)/Serata XII. - Il petrolio e la lucilina

Serata XII. - Il petrolio e la lucilina

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Serata XII. - Il petrolio e la lucilina
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SERATA XII


Il Petrolio e la Lucilina.

Lucerna e lucilina, 1. — Epilogo di una storia dell’illuminazione, 2. — I petroli nell’antichità, 3. — Gli ho-tsing e gli ho-scian, 4. — Sorgenti di petrolio, 5. — Lago di pece alla Trinità, 6. — I pozzi petroleiferi in America, 7. — Origine dei petroli, 8. — I petroli in Italia, 9.


1. Venne l’altro giovedì, e io m’avviai al solito ritrovo, dicendo fra me stesso: — Che cosa conterò stasera a quei benedetti ragazzi! — Chè invero, stillandomi il cervello, e’ mi pareva che non sarei venuto a capo di spremerne una goccia di sugo. Quando entrai nella sala, all’ingresso della quale si poteva scrivere completo come sulla banderola di un omnibus la sera di una domenica d’estate, sorse un gran grido.... «Eccolo quà! eccolo quà!...» e questo era gridato, non come si suole semplicemente al comparire di persona aspettata, ma con un accento speciale, con quel tono di voce che vuol dire: — Lupus in fabula1.

«Che c’è?» domandai io.

Una delle mamme me ne diede la spiegazione. Si era portata per la prima volta una lucerna a lucilina, la quale spandeva una bella luce, bianca, prodiga di sè stessa a tutti. Quella lucerna aveva fornito ai ragazzi materia di mille interrogazioni. Le mamme ne avevan detto quanto sapevano, ma avevano poi soggiunto: «Stasera verrà lo zio, e lui vi dirà meglio, lui che codeste cose le sa tutte». Io arrivava in quel punto: ed ebbi caro che avessero supplito al mio cervello nel fornirmi un tema di conversazione. [p. 207 modifica]

«Bella, n’è vero, codesta lucerna?... che luce tranquilla, netta, meravigliosa! Eppure è più economica di quella delle candele di sevo, con quella loro detestabile moccolaja, che pare un fungo. Così non avrete più nè a insudiciarvi di grasso, nè a imbrodolarvi di olio. Faremo anche di meno delle smoccolatoje, le quali fra breve non figureranno più che nelle collezioni archeologiche, e i tardi posteri le confonderanno con quell’arnese, col quale i parrucchieri regalano una chioma ricciuta a coloro, cui natura non donò che degli asparagi. Ecco un nuovo passo nell’industria, la quale è l’arte di vantaggiarsi dei mezzi, che, dalla creazione del mondo, la Provvidenza ha posto a disposizione degli uomini. Quale idea della Provvidenza da una parte, e dell’umano ingegno dall’altra, ci può dare la sola storia della illuminazione!...

2. » Mi sovviene con diletto dei giorni d’una vita tutta primitiva che io passai, ancora fanciullo, nei più ermi recessi dei nostri monti. Sulle sponde orientali del Lario, prima ch’ei si biforchi per formare i due rami di Como e di Lecco, si specchia nell’onde un paesello, che si chiama Dorio, paese nativo del maestro della mia fanciullezza2. Egli era si buono, che mi conduceva, durante le vacanze, a passare alcuni giorni in seno alla sua famiglia. Di là, con altri compagni d’infanzia, si saliva sui monti di Folgarolo, e vi si stava più giorni, in mezzo ai mandriani, a godere di quel cielo sì bello, a bere di quell’aria si pura. Quando il sole, tramontando dietro le brulle vette, che sorgono sulle sponde occidentali del lago, imporporava coll’ultimo raggio la punta del tricuspide Legnone3: pecore, capre, e vaccherelle, tra uno scampanellare dall’acuto al roco, con tali gradazioni, con tale melodia, che supera le più belle trovate del Rossini, si affrettavano dai noti pascoli, e, ristando col capo dimesso in atto di chi attende paziente, si assembravano dinanzi alle umili stalle. Oh! le ho qui dipinte dinanzi agli occhi quelle stalle così pittoresche, allineate all’ingresso di un foltissimo bosco, che rivestiva allora una vasta porzione del fianco del Legnone, ma caduto ora sotto la scure vandalica4, che rese ignude e deserte le [p. 208 modifica]montagne del Lario e della Valtellina. Quando nera scendeva la notte mi ricordo con quanto piacere vedevo accendersi i rami di pino fessi e sfilacciati, e le cortecce accartocciate di betula: ed io stesso godevo di agitare nell’aria quelle faci primitive, udendovi stridere il vento e vedendone gocciare, come stillicidio di fuoco, la resina infiammata. Ecco le lucerne più antiche, quelle stesse lucerne che guidavano i passi erranti dei primi abitatori delle nostre terre, i quali non conoscevano ancora l’uso del ferro, e spaccavano i tronchi con azze di pietra, e davano la caccia alle fiere con frecce di selce, a modo dei selvaggi d’America5. La resina, che geme dagli alberi, adoperata a inzuppare e intonacare la canapa, ci prestò le torce a vento, le quali segnano forse il primo passo nell’arte dell’illuminare. Queste, vidersi poi tardi agitate in aria dai lacchè, i quali, secondo un barbaro uso, cessato da poco tempo, che sostituiva gli uomini ai cani, precedevano di corsa, ansanti e trafelati, i cocchi dei signori, rotanti per le città sepolte nelle tenebre. Trovossi poi che tanti altri prodotti del regno vegetale e del regno animale, la cera, il grasso, gli olî, potevano sostituirsi alle resine, e si fabbricarono candele e lucerne. Saranno però circa 80 anni che le più splendide e le più ingegnose lucerne non differivano gran che da quelle lucernine di terra che scopriamo nei sepolcreti romani, o da quelle, poco dissimili per la forma, benchè di metallo, che affumicano ancora sospese alle pareti, o infisse nel rozzo lucerniere di legno, i casolari dei villici. Quando brillarono i primi argands6 e quando i lampioni, armati di specchi convergenti, furono appesi, a larghi intervalli, lungo le nostre contrade, parvero inondare il mondo di un mare di luce. Ma ora quelle lucerne pajono cieche, perchè [p. 209 modifica]ci abbagliano le piramidali carcels7 e si passeggiano i corsi fra getti di luce bianchissima, che traggono origine dai capaci gasometri, come i limpidi ruscelli da un lago cristallino nascosto in seno alle Alpi. Ma già cominciamo a lagnarci che il gas è languido e smorto, e vorremmo la luce elettrica8, vorremmo ardere il magnesio9 in luogo dello stoppino.

» Ecco una gran metamorfosi, un gran progresso dell’umanità, che si compie in un piccolo ramo dell’umana industria. E tutte quelle invenzioni, le quali si succedettero in parecchie decine di secoli, si trovano oggi come raccolte in una serie, e si possono passar tutte in rassegna, solo a scendere dalle vette dei nostri monti in seno alle nostre metropoli.

3. » Stasera voi inaugurate un processo d’illuminazione, non dirò nuovo, ma introdotto da poco tempo e destinato ad avere un grande avvenire, perchè è forse quello che concilia il massimo vantaggio col minimo dispendio. Vorrete dunque sapere che cosa è la lucilina? d’onde ci viene?... è questo?».

«La mamma ci ha già detto», interruppe la Chiarina, «che la lucilina è olio di sasso».

«Non crederete, m’imagino, che i sassi si pigino come le uve, o si spremano come le olive».

«No, ha detto che si cava dai pozzi: poi che vi sono anche delle sorgenti....».

«Va bene: la lucilina non è altro infatti che il petrolio, il nafta, il bitume degli antichi».

«Come?» fece meravigliato Giovannino, «dicono che l’hanno inventata adesso....».

«Ohibò! tutt’al più hanno scoperto dei processi per depurare un prodotto già noto, per renderlo così diafano, come lo vedete guardando attraverso il globo di cristallo di questa magnifica lucerna. La lucilina in natura è invece assai meno schietta. Talora è abbastanza limpida e trasparente, e si chiama nafta: ma [p. 210 modifica]più spesso è rossigna o nera, e fin vischiosa, e allora si chiama petrolio. Spesso è anche più viscida e pastosa; e allora la chiamano bitume o pece minerale. Trovasi anche allo stato solido, ed è conosciuta sotto il nome di asfalto. L’asfalto è così duro, così compatto, che se ne fabbricano oggetti di ornamento. Sono diverse modificazioni dello stesso prodotto: e tali differenze si devono alle alterazioni che esso ha sofferto, principalmente per effetto dell’aria, o meglio dell’ossigeno, il quale ha appunto la virtù di tingere in nero e di rendere più denso e meno combustibile il liquido primitivo, il prodotto vergine, che sarebbe il nafta. Ma tutte le varietà di quel minerale, chiamisi nafta, o chiamisi petrolio, sono note da lungo tempo. La loro storia si confonde con quella dell’uomo. Nella Bibbia voi leggete che l’arca di Noè era intonacata di bitume dentro e fuori; ve ne sovviene?... Poi i fabbricatori della torre di Babele si giovarono del bitume come di cemento. La navicella di vimini, entro la quale fu esposto Mosè bambino, era intonacata di bitume. Gli antichi Egizi fecero del bitume quello spreco, che far ne potevano cento generazioni di vivi, i quali si credevano creati, a quel che pare, per imbalsamare i morti, gli uomini come i buoi, i gatti, i coccodrilli e gli animali d’ogni specie. Anche l’uso di adoperare i bitumi per illuminazione è antichissimo. Gli autori più antichi, come Strabone e Diodoro Siculo, parlano con meraviglia e con entusiasmo delle sorgenti di nafta in Babilonia, e dicono come esso servisse in luogo dell’olio, per accendere le lucerne, e come, disseccato, si sostituisse alle legna da ardere. Mi ricordo anzi di un certo brutto fatto narrato da Plutarco nella vita di Alessandro e confermato da Strabone. È una vera atrocità di quelle che ci fanno ringraziare Iddio di esser nati tardi quando il Vangelo ha già insegnato agli uomini, quasi da duemila anni, a rispettarsi e ad amarsi come fratelli: tanto che voi non vorreste torcere un capello al prossimo e potete credere altrettante favole certe barbarie di cui una volta era pieno il mondo, quando gli uomini forti potevano prendersi trastullo dei deboli.... Ma basta.... andiamo avanti....».

«Raccontaci codesto fatto», insistè Giannina.

«È troppo brutto.... Ma poi.... è bene come ho detto, che abbiamo un motivo di più per essere grati a Dio che ci abbia chiamati al mondo sotto la legge di amore. Quando Alessandro, detto il Grande, trovavasi in Babilonia, gli si raccontavano meraviglie, a quanto narra Strabone, di questo liquido detto nafta. Gli si [p. 211 modifica]riferiva tra le altre cose che esso gode della singolare proprietà di attrarre il fuoco; che un corpo qualunque, intriso di questa materia, s’infiamma: che non si può spegnere coll’acqua, salvo non sia moltissima. — Dicesi, — continua Strabone, — che Alessandro, per farne sperienza, comandò che si ungesse di nafta un fanciullo in un bagnatojo: poi volle che gli si accostasse un lume: e il fanciullo s’accese, e fu vicino a perire: se non che i circostanti versaronci acqua in tanta copia, che prevalse alla forza del fuoco, e lo salvò10».

«Oh che orrore!... che barbarie!... come era cattivo quell’Alessandro!...». E tutto l’arsenale delle esclamazioni di raccapriccio, fu in breve vuotato dal commosso uditorio, senza che nessuno credesse d’aver trovato una espressione da pareggiare il sentimento di ribrezzo e di sdegno che provava in quell’istante.

«Basta.... ringraziate Dio, ripeto, che le barbarie che allora si potevano commettere, non possano oggi nemmeno udirsi raccontare.

4. » Tornando alla nostra lucilina, voi vedete che, salvo la novità della depurazione, e il modo più perfetto di usarne, è cosa che ha, come dicesi, tanto di barba».

«E poi», entrò a dire Marietta, «non è nemmen vero che venga dall’America, come credeva la mamma».

«È vero sì, in quanto che il petrolio, ridotto allo stato di lucilina, ci viene ora, quasi esclusivamente, dagli Stati Uniti. Del resto però, come prodotto naturale, n’è pieno il mondo. In Cina, per esempio, secondo quello che ci riferisce il missionario Imbert, furono scavati migliaja e migliaja di pozzi, per l’estrazione dei bitumi, i quali vi s’incontrano a profondità enormi. Alcuni di questi pozzi, spinti fino alla profondità di 975 metri, si convertirono quasi in vulcani artificiali, sgorgandone poderose correnti di quel gas, che noi adoperiamo per l’illuminazione».

«Allora», riflettè Giannina, «i Cinesi potrebbero giovarsene, risparmiandosi la spesa di procurarsi il gas artificiale».

«Sta tranquilla, carina, che quel popolo, eminentemente riflessivo e calcolatore, ha già da troppo tempo prevenuto il tuo consiglio. Il gas infiammabile, che si raccoglie dai pozzi, o che sgorga spontaneamente dal suolo, mediante dei tubi di bambù, come da noi per mezzo di tubi di ferro e di piombo, si guida ove meglio piace, o per illuminare il paese, o per produrre [p. 212 modifica]l’evaporazione delle acque salate, che abbondano in quegli stessi paesi, e da cui si estrae il sale di cucina cristallizzato».

«Hai detto», chiese l’Annetta, «che il gas infiammabile esce spontaneamente dal suolo.... Si può credere?».

«Come? si può credere?... I Cinesi conoscono per bene gli hotsing, ossia le sorgenti di fuoco, e gli ho-scian, ossia montagne ardenti, le quali altro non sono che grandi getti di quello stesso gas, che esce dai becchi dei nostri pubblici lampioni. È celebre nella Cina una gran sorgente di fuoco, che sgorgò con fracasso nel secondo secolo dell’era cristiana, e illuminò tutto all’ingiro il paese per ben 1000 anni, finchè si spense nel secolo XIII. Parlasi ancora di un ho-scian che lanciava altissimi getti di fiamme a piè di una montagna coperta di nevi eterne. Del resto questi fenomeni si ripetono nell’impero Birmano11, nei dintorni del mar Caspio e in molti altri luoghi, e da per tutto si incontrano petroli e bitumi, e ai petrolî, ai bitumi si associano gli sgorghi di gas infiammabile, che o ribolle dalle sorgenti, o erompe dalle rupi che divengono montagne ardenti, o, sbucando dal suolo umido e fangoso, crea vulcani di fango, le cui eruzioni emulano talvolta le eruzioni dei veri vulcani».

5. «Vorremmo sapere», prese a dire Giannina, «un po’ più in esteso, come si presentino in natura codesti petrolî».

«Non te l’ho detto? i petrolî sono come l’acqua. Talora sgorgano spontanei dalle sorgenti: talora invece si scavan di pozzi, per andarli a cercare nelle viscere della terra, e vi si attingono coi secchi, o si estraggono colle trombe. Il mar Morto, per esempio, era un giorno come una gran sorgente di petrolio, che sgorgava a fiotti dal fondo e galleggiava sulle onde, e masse di solido bitume vi erano spinte dall’onde e gettate sul lido».

«E ora», domandò Giovannino, «il mar Morto non presenta più codesti fenomeni?».

«I viaggiatori lo descrivono ancora come un vasto bacino desolato, ripieno di acqua salata in eccesso, e sparso all’ingiro di sale. Ma quei fenomeni di cui fu una volta teatro il mar Morto, secondochè attestano di comune accordo la Bibbia e gli antichi storici, come Plinio, Strabone e Tacito non si riducono ormai che a qualche massa di asfalto che si stacca dal fondo, e a qualche leggera emanazione gassosa. Là, e in mille altri luoghi, quell’attività interna che dà origine a tanti fenomeni, sembra [p. 213 modifica]siasi spenta, per rinascere in altri siti, dove si mantiene anche in oggi con tutta la sua energia».

«Dove, per esempio?» domandò Marietta.

6. «In diversi luoghi. Ma il teatro più brillante di tali ma nifestazioni è, per quanto mi sappia, l’isola della Trinità12, la più meridionale delle Piccole Antille, al nord delle foci dell’Orenoco13. Quell’isola è ancora selvaggia o quasi, e fu visitata da pochi che potessero studiarne i fenomeni naturali. Di quei pochi fu il capitano La Braye, il quale ce ne racconta abbastanza da farci istupire. Avvicinandovi all’isola, voi vedreste un qualche cosa che ribolle dalle profondità sottomarine, come un vortice che si alza turbinoso, con tale veemenza, da levar l’acqua all’ingiro fino ad un’altezza di un metro e mezzo a due metri. È un gran getto di petrolio, che vasto si dilaga sulla superficie delle acque. Avvicinandovi ancor più, scorgereste certe rupi nere che si spingono in mare. Voi vi accostate, le palpate.... che?... sono puri ammassi di pece. Finalmente approdate, e il lido è di pece e dal lido si elevano colli di pece, che, quasi gradinata, vi permettono di ascendere fino a 26 metri sopra il livello del mare, per contemplare la più grande o piuttosto l’unica meraviglia di questo genere, il famoso lago di pece della Trinità. Oh se Dante avesse potuto leggere le memorie di Nugent, Jameson, Val, non sarebbe ito certamente nell’arsenale dei Veneziani a ritrarre il tipo della quinta bolgia, dove

Tal, non per foco ma per divina arte,
     Bollia laggiuso una pegola spessa,
     Che ’nviscava la ripa d’ogni parte.

(Inf., XXI).

» Sì, il lago di pece della Trinità è proprio quello, in cui Dante, nel suo Inferno, tien tuffati i barattieri e i truffatori.... Ma pochi di voi, ora che ci penso, han letto Dante. Peccato! Quando lo leggerete vi divertiranno assai quei due canti bizzarri, in cui il poeta dice che arrivò alle sponde di un gran lago di pece bollente; e vide venire un diavolo nero, che ghermito pei piedi un peccatore, lanciollo dallo scoglio giù nel lago. E i diavoli a pigliarselo, ad addentarlo coi raffi, e a tenerlo giù nella pegola a bollire, come i cuochi tengono attuffata cogli uncini la carne nel brodo bollente. Poi tutti quei demonî, Malacoda, [p. 214 modifica]Scarmiglione, Calcabrina, Cagnazzo, Barbariccia, Libicocco, Ciriatto, ecc. fanno scorta al povero Dante, che non s’è mai trovato in sì brutta compagnia. Intanto un tal Ciàmpolo, che bolliva laggiuso, volendo pigliare almeno una boccata d’aria, cacciò il muso fuori: ma gli furono addosso quei demonî e volevano farne filacce coi loro uncini: ed egli, mariolo anche in inferno li seppe tenere a bada con belle parole: poi, côlto il destro, saltò di botto nel lago, e sparve, lasciandoli con tanto di naso. Ma si: non dimentichiamo il nostro soggetto. Sulle alture della Trinità trovasi dunque un lago di pece, ossia di bitume o di denso petrolio. È una enorme caldaja, una bolgia nera, che misura due chilometri e mezzo di giro. È un bacino di solida pece, colmo di pece liquida. Infatti attorno attorno la pece è solida e dura; a mano a mano però che c’inoltriamo verso il centro del lago, la pece si riscalda, si rammollisce e giungiamo finalmente a un punto ov’essa è fluida e bollente. Tutto il paese all’ingiro è come sommerso nella pece, e vi ebbero certamente grandi sgorghi ed eruzioni di pece, se dovette formare dei colli, e, spingendosi in mare, fabbricarvi fantastiche rupi. Tutto del resto annuncia in quell’isola una straordinaria attività, nè vi mancano, come altrove, i vulcani di fango bollente.

» Vedete adunque, miei cari, come esistano, non solo delle sorgenti, ma dei laghi di petrolio, i quali potrebbero convertirsi, e si convertiranno certo a suo tempo, in laghi di lucilina».

«Perchè», riflettè Giannina, «non si va tosto ora a trarre partito di una cosa così utile?».

«Ho detto ch’è un’isola ancora selvaggia.... sono paesi così fuori di mano... Poi gli Americani, quelli degli Stati Uniti m’intendo, hanno trovata troppa bazza nelle loro contrade.... Col crescere del consumo e coll’esaurirsi dei magazzini naturali, a cui oggi gli Americani attingono la lucilina in tanta copia....».

7. «Esistono dunque», interruppe la Chiarina; «anche negli Stati Uniti sorgenti e laghi di petrolio?».

«Ve ne sono, sì, alcune sorgenti: ma non se ne fa caso, tanta è la quantità che si raccoglie per l’altra via, cioè per mezzo dei pozzi. Dodici anni fa si ignorava affatto quali immensi tesori, giacessero occulti nelle viscere della terra. Fu nel 1858 che si annunzio l’esistenza nei dintorni di Titusville14 di grandi serbatoi di un liquido che alla proprietà illuminante in massimo [p. 215 modifica]grado, accoppiava l’altra di sciogliere gli olî, i grassi, le essenze, ecc. Quel liquido non era che petrolio. Il primo c’ebbe il vanto di scoprire, non so come, l’esistenza di quei vasti serbatoi sotterranei, ed espose il primo saggio di quel prezioso prodotto sul mercato, credo, di Nuova-York15, durò fatica a trovare un compratore. Ma in breve la ricerca de’ petrolî, divenne una smania una febbre universale: chè non tardarono quegli Americani, trafficatori per istinto, ad accorgersi che la natura aveva loro di schiuso una nuova sorgente di smisurate ricchezze. Oggi si contano da 4000 a 5000 pozzi in Pensilvania, nella Virginia, nell’Ohio, e nel Canadà, i quali danno giornalmente 1000 metri cubici di petrolio. Un bel lago come vedete, dove potreste divertirvi a vogare in barchetta, per 50 metri di lungo e 20 di largo, colle acque di petrolio profonde un metro. Figuratevi che i soli pozzi di Enniskillen16 in 18 mesi circa, diedero un prodotto su per giù di sedici milioni di litri di puro petrolio».

L’uditorio uscì in grandi esclamazioni, e la Camilla si fece a dire: «Non intendo punto come siano codesti pozzi: come il petrolio vi si trovi».

«Per ora ritieni di fatto che in quelle regioni il terreno, tanto le sabbie, le ghiaje, il superficiale detrito17, quanto le rocce dure, i calcari, le arenarie18 sono inzuppati di petrolio come un’immensa spugna, cavata da un barile che sia pieno di quel liquido. Insomma là il suolo, fino alla profondità di parecchie centinaja di piedi, è imbevuto di petrolio come il suolo di Milano, e di tutta la pianura lombarda, è imbevuto d’acqua. Più esattamente vi dirò, che se il nostro suolo è pregno d’acqua soltanto, quello là è inzuppato d’acqua e di petrolio ad un tempo. Ora, se qui praticate un foro nel terreno, questo foro diviene un pozzo: e voi vi calate il secchio, che vi torna ripieno d’acqua. Là, scavato un pozzo, e calatovi un secchio, lo [p. 216 modifica]ritrarrete pieno d’acqua e di petrolio. Anzi, siccome il petrolio galleggia sull’acqua, come l’olio sull’aceto, se il petrolio è molto, il secchio vi si tufferà tutto, senza toccare l’acqua disotto, e ritornerà colmo di solo petrolio. Vo’ dirvi di più. Nella nostra pianura milanese abbiamo i così detti Fontanili. Sono pozzi, o piuttosto tini, infissi nel suolo acquitrinoso, che si riempiono d’acqua, la quale scaturisce spontanea, e spontanea trabocca, scorrendo perenne sulla campagna, che si mantiene così costantemente irrigua. In altri luoghi il fenomeno è più appariscente, più meraviglioso. Voi praticate un foro, il quale, attraversato il detrito superficiale, intacca la dura roccia, e giù giù discende nel macigno, fino alla profondità, se fa d’uopo di centinaja e centinaja di metri. Arriva un momento in cui l’acqua, imprigionata ad enormi profondità, trova aperta l’uscita: e su, su, ascende, con tutta la foga di cui è capace, e arriva alla superficie del suolo, e là si leva ancora, formando un getto a mo’ di quelle fontane, che le tante volte avete contemplate nei giardini dei signori. Avrete sentito talvolta nominare i pozzi artesiani: sono appunto questi pozzi d’acqua sagliente. È celebre, per esempio, il pozzo di Grenelle a Parigi. Il trapano, con cui si scavò quel pozzo, si cacciò sino alla profondità enorme di circa 548 metri.... una profondità che equivale a un dipresso, a cinque volte l’altezza del Duomo di Milano!... Allora l’acqua sbucò con forza indicibile dai sotterranei nascondigli: corse tutto il profondissimo foro, e venne a mostrarsi al pubblico attonito con un getto alto 33 metri.

»Tutti questi fenomeni si ripetono coi pozzi petroleiferi d’America, i quali sono veri pozzi artesiani, da cui schizzano talora copiosi getti di petrolio, o di petrolio e d’acqua insieme. Uno di questi pozzi dovette spingersi alla profondità di oltre sessanta metri: eruppe allora il petrolio, e la bocca del pozzo ne vomitò 2000 barili in 24 ore. Vedete che non c’è da far le meraviglie se in America si edificarono delle fortune sfondolate: se i produttori del petrolio, costituirono una specie di classe privilegiata, e ne nacque quella che in America si chiama aristocrazia del petrolio».

«Aristocrazia del petrolio!» notò Giannina. «Vi saran dunque — conti del petroliomarchesi del petrolio — e così via via....».

«Uh! i tuoi titoli appartengono ad una aristocrazia molto vecchia. Questa è d’altra stampa. Ci fu prima l’aristocrazia del sangue; poi venne l’aristocrazia del danaro: in America siamo [p. 217 modifica]all’aristocrazia del petrolio. Chi sa che non venga un giorno l’aristocrazia del vero merito?... eh! ma sarà difficile.... Ci son troppi interessati a soffocarla nella cuna, quando nascesse.

» Ma via, la bazza di cui vi parlava non è poi eterna. Il rigurgito del petrolio presto diminuisce: esso si arresta nel pozzo, donde si attinge colle trombe. Talora anche quei pozzi si esauriscono affatto: bisogna abbandonarli, e scavare altrove».

8. «Ma io vorrei veramente sapere», insistè Camilla, «quel petrolio chi ce l’ha posto? donde ci è venuto?».

«Tu vuoi saper troppo per la tua età, per gli studî che hai fatti. Donde vengono l’oro, l’argento, il ferro, il piombo, il solfo, il salgemma, tanti minerali disseminati quà e là nelle viscere della terra?... Sono prodotti naturali, si dice.... Questo significa che la natura dispone di certe forze per produrre nuovi corpi, nuove sostanze, combinando insieme gli elementi, cioè le diverse specie di materia già create da Dio. La scienza riesce in molti casi a strappare, come si dice, il velo ai misteri della natura. Talvolta arriva a sorprenderla nell’atto che sta operando un fenomeno. In questi ultimi tempi gli scienziati si sono messi a tentarla, a costringerla ad operare sotto i loro occhi: si sono messi cioè ad esperimentare, e son riusciti più volte a produrre, ossia a far produrre alla natura in palese, ciò ch’ella opera in segreto. Ma sì.... per un mistero che si spiega, se ne affacciano cento altri da spiegare. Uno di questi scienziati s’è messo in capo di produrre anche i petroli, o, come essi dicono, gli idrocarburi: perchè i petroli, e gli altri combustibili, la cera, il grasso, l’olio, sono combinazioni di due sostanze elementari: l’idrogeno e il carbonio».

«C’è riuscito?» domandò con vivo interesse Giannina.

«Sì; il signor Berthelot c’è veramente riuscito. Prendendo del carbone da una parte, dell’idrogeno dall’altra, sottomettendoli insieme in un vaso, all’influsso potente della elettricità, poi mescendo, separando, tormentando, come fanno i chimici, quei poveri elementi, arrivò a produrre (direbbesi a creare se non si fosse servito di elementi creati) tutta quasi la serie degl’idrocarburi. Ciò vuol dire che il signor Berthelot, colla combinazione immediata dell’idrogeno e del carbonio, sotto l’azione dell’elettrico, formò artificialmente i petroli, poichè essi non sono altro che miscele di idrocarburi. Ora, miei cari, l’idrogeno, il carbonio, l’elettricità, son tutti a disposizione della natura come tutti gli altri elementi. Essa quindi lavora a combinarli, qui sotto, nel suo [p. 218 modifica]immenso laboratorio. Il signor Berthelot non fece che costringere la natura ad operare un momentino a viso scoperto nel suo gabinetto, entro un bel globo di cristallo, sì ch’ei potesse vedere come andava la faccenda. Di più non posso dirvi. Io penso che i petroli si formino nelle viscere della terra come si formarono nell’apparato del signor Berthelot, cioè per la immediata combinazione dell’idrogeno col carbonio; come per l’immediata combinazione di altri elementi, si formano nelle viscere della terra i sali, gli ossidi, le leghe metalliche e tutti i minerali, in cui ci abbattiamo, a mano a mano che ci andiamo facendo strada entro i regni bui col trapano o colla mina19. Una volta che il petrolio sia prodotto, naturalmente penetra come un liquido qualunque, le rocce, che sono porose: le imbeve come fossero spugne: filtra, e si raduna nelle sotterranee cavità, come fossero tini: si trova coll’acqua, e con essa circola, e con essa sgorga dalle sorgenti. Non ci resta che di raccoglierlo, se ci viene spontaneo, o di an dare a cercarlo e a snidarlo dai naturali ricettacoli. Vi torna?».

«Sì, sì!» risposero i nipoti, che parvero abbastanza capacitati.

9. «Quante belle cose», uscì a dire Giovannino, «potremo vedere, se arriveremo una volta a mettere il piede fuori del nostro paese, dove non c’è niente di tutte codeste meraviglie di cui ci parla lo zio!».

«E dove vorresti andare, Giovannino?».

«Andrei in Cina a vedere le fontane e le montagne ardenti: andrei al mar Caspio a vedere i vulcani di fango: andrei all’isola della Trinità per vedere quel lago di pece, e quegli sgorghi di petrolio: andrei negli Stati Uniti, per osservare quei pozzi da cui si cava petrolio....».

«Ti basta così? Allora, caro mio, ti consiglierei a risparmiare tempo e danaro; a non arrischiare fors’anco la vita, per sì poca cosa: a startene qui nel tuo paese, accontentandoti di qualche bel viaggetto in Italia».

«Eh sì! ci avrei di belle cose da vedere!» esclamò Giovannino, alzando le spalle in atto dispettoso.

«Ci avresti di belle cose da vedere.... Ma sì.... non te l’ho detto? [p. 219 modifica]ci avresti da vedere, proprio per benino, tutte quelle cose che hai detto di voler andare a vedere».

«Oh!» fecero Giovannino e gli altri, con quel tono di voce che dice: — tu ne fai celia. —

«Vedete.... voi siete come siamo noi italiani in generale. Il bello, il buono, l’utile, tutto ci deve venire d’oltremare e d’oltremonti. Non dico che noi dobbiamo credere di posseder tutto, e di poter far senza del molto che ci può venire altronde. Sarebbe stoltezza. Una mano lava l’altra, e tutt’e due lavano il viso. Così gli uomini, così le nazioni devono ajutarsi scambievolmente, e mettere in comune le quote di ricchezza fisica, intellettuale e morale, nelle quali fu ripartito da Dio, fra ciascun uomo, fra ciascuna nazione, il ricchissimo patrimonio comune. Ma ciascuno deve anzi tutto far i conti in casa propria: chè il cercare l’altrui, mentre si possiede del proprio, è vergognosa mendicità. Sapete, per esempio, quale cosa dobbiamo cercare noi italiani dalle nazioni che ci stanno più vicine? Un po’ più di attività. Una buona dose di inerzia, e una dose anche maggiore d’ignoranza, ci fa tributarî degli stranieri: mentre, conoscendo meglio il nostro paese, potremmo risparmiare assai, e fors’anche rusparci in casa qualche gruzzolo di più, che, non fo per dire, ci farebbe comodo.... Ma queste le son cose da dirsi ad altri. A voi volevo dire soltanto che in Italia noi possiamo osservare tutte quelle meraviglie di cui vi parlai».

«Come?» chiese Giannina: «anche le fontane ardenti, anche i vulcani di fango?...».

«Sì, tutto, tutto.... sorgenti di petrolio, pozzi di petrolio, getti di gas infiammabile, eruzioni di fango....». «Perchè allora ci parlavi della Cina e dell’America, senza nemmeno nominare l’Italia?».

«Capisco.... ho avuto torto.... Anch’io, vedete, ho ubbidito senza accorgermene, a quel non so che, per cui si tende a parlare più delle cose altrui che delle nostre: quasichè i fenomeni si facessero tanto più meravigliosi, dilettevoli ed istruttivi, quanto più succedono lontano da noi».

«Dunque anche in Italia?...».

«Sì, anche in Italia».

«E tu li hai visti quei fenomeni?».

«Sì, li ho veduti, esaminati, studiati».

«Dove?... come?... quando?...».

«Come, quando?... in fine sono gli stessi fenomeni che vi ho descritto, quali e’ si presentano in estranee contrade....». [p. 220 modifica]

«Ma», osservò graziosamente Giannina, «a noi piace di udirti raccontare ciò che hai visto tu stesso. Noi ci divertiamo di più: poi, che so io?... si capisce meglio.... ci pare di esser là anche noi a vedere....».

«Basta.... intendo che bisognerà ch’io vi parli un po’ lungamente di quelle cose che ho osservato in Italia. Stasera è già tardi.... E poi ho la testa un pochino balorda. A giovedì venturo dunque. Allora vi racconterò di alcune belle gite che ho fatto in questi ultimi anni in diverse parti d’Italia, per istudiarvi appunto i petrolî, le fontane ardenti, i vulcani di fango, cose tutte le quali si mostrano in cento siti diversi: tanto che l’Italia può noverarsi fra i paesi più classici per questo genere di manifestazioni della interna attività del globo».


Note

    e gli Svevi: nel 409 si stabilirono nella Spagna meridionale a cui lasciarono il nome di Vandalucia (Andalusia): nel 439 presero Cartagine (Tunisi) e la fecero capitale del loro regno, esteso tra la catena dell’Atlante e le rive del Mediterraneo. Di là andavano pirateggiando per tutti i lidi d’Europa: e nel 455, sbarcati alle rive del Lazio, per 14 giorni saccheggiarono Roma con una smania così feroce di guastar tutto, che il loro nome passo in proverbio a significare — la rabbia del distruggere senza utile proprio od altrui.

  1. Ecco in persona il lupo di cui si stava favoleggiando. — Modo proverbiale.
  2. È un ricordo in omaggio a D. Pietro Bettega, bella intelligenza, tutta sacra da otto lustri alla educazione dei giovinetti di Lecco, ove l’autore ebbe i natali.
  3. Il monte Legnone è una delle cime più alte (2806 metri ) e il colosso più spiccato delle Prealpi meridionali, o lombarde. Sorge dietro a Colico, precisamente nel seno dell’angolo semiretto che fa il lago di Como, incontrandosi colla Valtellina. Il Legnone è detto tricuspide, dal latino cuspis = punta, perchè finisce in tre punte, o piuttosto in una punta a tre taglienti, a foggia di piramide triangolare.
  4. I Vandali (Wendes), popoli slavi, dalle rive dell’Oder e dell’Elba scesi a quelle del Danubio, nel 406 dopo Cristo invasero la Gallia (Francia) con gli Alani
  5. Fra gli oggetti dell’industria preistorica, che si scoprono nei laghi e nelle torbiere di Lombardia, su cui abitavano i popoli primitivi d’Italia, certo assai tempo prima degli Etruschi, si distinguono dei tizzoni spenti, dei mozziconi mezzo abbruciati, i quali sono evidentemente residui di antiche fiaccole. Di tali oggetti si vede esposta una bella collezione nel Museo Civico di Milano.
  6. Amato Argands, al fine dello scorso secolo, inventò le lucerne a lucignolo, tessuto in forma di cilindro cavo, che i toscani dicono lucignolo a calza, o calza da lume. Esso luciguolo è poi difeso esteriormente da quei tubi di vetro, che più specialmente si indicano da noi col nome di argands. Altri ne vuole inventore un certo Quinquet, onde il nome di quinquets dato dai francesi a così fatte lucerne, che una volta in Toscana si chiamavano lumi inglesi.
  7. Le lucerne carcels, così dette dal nome dell’inventore. Da un serbatoĵo, posto nel piede della lucerna, l’olio ascende, spinto da due trombe aspiranti e prementi che agiscono con moto alternato. Queste lucerne si caricano come gli orologi detti remontoirs, in cui la chiave è fissa e forma parte dell’apparato.
  8. È la luce vivissima che si produce nell’intervallo tra due punte di carbone rivolte l’una contro l’altra e percorse da una corrente elettrica. Una intera città, quando fosse opportunamente disposta, potrebb’essere illuminata da una sola lanterna elettrica.
  9. Il magnesio, una delle sostanze elementari, che combinandosi coll’ossigeno, costituisce la magnesia, è un metallo che si scambierebbe coll’argento, tanto è bianco e lucente. Ridotto in fili, si può accendere al lume di una candela, e arde con una luce degna del sole.
  10. Strabone volgarizzato da F. Ambrosoli. Milano, 1835, lib. XVI, pag. 120.
  11. Nella penisola dell’Indo-Cina a levante del Gange o del golfo di Bengala.
  12. Sulle carte è segnata Trinidad.
  13. Sulle rive a nord-est dell’America Meridionale.
  14. Nello stato di Pensilvania.
  15. New-York.
  16. Città del Canadà, vicina a Petrolia, all’est di Sarnia e del fiume Saint-Clair, che è il più breve corso d’acqua fra il lago Huron e il lago Erié, e segna il confine fra il Canadà e il Michigan.
  17. Sotto il nome generico di detrito intendono i geologi quelle formazioni superficiali di tritume incoerente e di terriccio, sabbie, ghiaje, ciottoli, prodotte da alluvioni, da decomposizione e da altre cause. Esse ricoprono di solito la roccia dura, e acquistano, singolarmente nelle parti basse e nelle pianure, una profondità considerevole.
  18. Calcari diconsi i marmi, e tutte quelle pietre, che cocendo nella fornace, si convertono in calce. Le arenarie sono rocce composte di grani di quarzo, cementati naturalmente: sono in fine sabbie indurite. La pietra che i Lombardi chiamano molera, e quella che i Toscani dicono macigno, sono arenarie.
  19. L’opinione qui accennata circa l’origine dei petroli non è quella che comunemente si accetta. Io la preferii e la sostenni nel mio Saggio di una storia naturale dei petroli pubblicato nel giornale Il Politecnico, 1864, poi nelle mie Note ad un corso annuale di geologia vol., I, Milano, 1865, e finalmente nel mio Corso di geologia, vol. III, 1873. I più ammettono ancora che i petroli siano prodotti mediante la decomposizione o trasformazione delle sostanze vegetali o animali, sepolte in ammassi entro gli strati terrestri. Tale opinione mi pare anche oggi contraria ai fatti, come mi studiai di dimostrare nelle opere citate.