Il Tesoretto (Assenzio, 1817)/XVII

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XVI XVIII
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XVII.


Lo Cavalier valente

     Si mosse isnellamente,
E gìo sanza dimora
     Loco dove dimora
Cortesia grazïosa,
     In cui ogn’ora posa
Pregio di valimento.
     E con bel gecchimento
La pregò, che ’nsegnare
     Gli dovesse, e mostrare
Tutta la maestria
     Di fina cortesia.
Et ella immantenente
     Con bel viso piacente
Disse ’n questa manera
     Lo fatto, e la matera.
Sie certo, che Larghezza
     È ’l capo, e la larghezza
Di tutto mio mistero,
     Sì, ch’i’ non vaglio guero,
E s’ella non m’aita
     Poco sarò gradita.
Ell’è mio fondamento,
     E io su’ adornamento,
E colore, e vernice;
     E chi lo ben ver dice,
Se noi due nomi avemo,
     Quasi lo stesso semo.
Ma a te, bell’amico,
     Primamente ti dico,
Che nel tuo parlamento

     Abbie provvedimento.
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Non sie troppo parlante;

     E pensati davante
Quello, che dir vorrai;
     Che non ritorna mai
La parola, ch’è detta,
     Sì come la saetta,
Che va, e non ritorna.
     Chi ha la lingua adorna
Poco senno li basta,
     Se per follia nol guasta.
Il detto sia soave,
     E guarda e’ non sia grave
In dir ne’ reggimenti;
     Che non puoi a le genti
Far più gravosa noja.
     Consiglio, che si moja,
Chi pare per gravezza,
     Che mai non se ne svezza:
E chi non ha misura,
     Se fa ’l ben, sì lo fura.
Non sie inizzatore,
     Ne sie ridicitore
Di quel, ch’altra persona
     Davanti a te ragiona.
E non usar rampogna,
     Non dire altrui vergogna,
Nè villania d’alcuno:
     Che già non è nessuno,
Che non possa di botto
     Dicere un laido motto.
Nè non sie sì sicuro,
     Che pur un motto duro,
Ch’altra persona tocca

     T’esca fuor de la bocca.
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Che troppa sicuranza

     Fa contra buon’usanza.
E chi sta lungo via,
     Guardi non dir follia.
Ma sai, che ti comando,
     Et impongo a gran bando,
Che l’amico da bene
     Innore quanto dene
A piede, et a cavallo:
     Nè già per poco fallo
Non prender grosso core.
     Per te non fa l’amore:
Et abbi sempre a mente
     D’usar con buona gente,
E da la ria ti parti,
     Che sì come da l’arti
Qualche vizio n’apprendi:
     Sì, ch’anzi, che t’amendi,
N’avrai danno, e disnore.
     Però a tutte l’ore
Ti tieni a buon’usanza
     Per ciò, ch’ella t’avanza
In pregio, et in onore,
     E fatti esser migliore.
Et a bella figura,
     (Ch’ella è buona ventura)
Ti rischiara, e pulisce;
     Se ’l buon uso seguisce.
Ma guarda tutta via,
     Se quella compagnia
Ti paresse gravoso,
     Di gir non sie più oso:
Ma d’altri ti procaccia,

     A cui ’l tuo fatto piaccia.
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Amico, guarda bene,

     Con più ricco di tene
Non ti caglia d’usare,
     Che starai per giullare,
O spenderai quant’essi:
     Che se tu nol facessi,
Sarebbe villania.
     E pensa tutta via,
Ch’a larga ’ncomincianza
     Si vuol perseveranza.
Dunque déi provedere,
     Se ’l porta ’l tuo podere,
Che ’l facci apertamente.
     Se nò, sì poni mente
Di non far tanta spesa,
     Che poscia sia ripresa;
Ma prendi usanza tale,
     Che sia teco uguale;
E s’avanzasse un poco,
     Non ti partir da loco;
Ma spendi di paraggio:
     Non prender avvantaggio:
E pensa ogne fïata,
     Se ne la tua brigata
Ha uomo al tuo parere
     Non potente d’avere;
Per Dio, non lo sforzare
     Più, che non possa fare.
Che se per tuo conforto
     Il suo distrugge a torto,
E torna a basso stato,
     Tu ne sarai biasmato.
E ben ci son persone

     D’altra condizïone,
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Che si chiaman gentili;

     Tutti altri tengon vili
Per cotal gentilezza;
     Et a questa baldezza
Tal chiama mercenajo,
     Che più tosto uno stajo
Spenderia di fiorini,
     Ch’esso de’ picciolini.
Benchè li lor podere
     Fossero d’un valere.
E chi gentil si tiene
     Sanza far altro bene,
Se non di quella boce,
     Credesi far la croce,
Ma el ti fa la fica.
     Chi non dura fatica,
Sì, che possa valere,
     Non si creda capére
Tra gli uomini valenti,
     Perchè sian di gran genti.
Ch’io gentil tegno quigli,
     Che par, che ’l mondo pigli
Di grande valimento,
     E di bel nudrimento:
Si, ch’oltre suo legnaggio
     Fa cose d’avvantaggio,
E vive orratamente,
     Sì, che piace a la gente.
Ben dico, se a ben fare
     Sia l’uno, e l’altro pare;
Quello, ch’è meglio nato
     È tenuto più a grato:
Non per mia maestranza,

     Ma pare, che sia usanza,
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La qual vinca, et abbatti

     Gran parte de’ miei fatti,
Sì, ch’altro dir non posso,
     Ch’esto mondo è sì grosso,
Che ben per poco ditto
     Si giudica ’l diritto:
Che lo grande, e ’l minore
     Che vivano a romore.
Perciò ne sia avveduto
     Di star tra lor sì muto,
Che non ne faccian risa.
     Passati a la lor guisa:
Che ’nnanzi ti comporto,
     Che tu segui lor torto,
Che se pur ben facessi,
     E tu lor non piacessi,
Nulla cosa ti vale
     Il dire bene, e male.
Però non dir novella,
     Che non sia buona, e bella
A ciascun, che la ’ntende:
     Che tal te ne riprende,
Et aggiunge bugia,
     Quando se’ ito via;
Che ti de’ ben volere.
     Però déi tu sapere
In cotal compagnia
     Giuocar di maestria:
Cioè, che sappi dire,
     Quel, che debba piacire:
E lo ben, se ’l saprai,
     Con altri li dirai,
Dove sia conosciuto,

     E ben caro tenuto.
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E molti sconoscenti

     Troverai tra le genti,
Che metton maggior cura
     D’udire una laidura,
Ch’una cosa, che vaglia:
     Trapassa, e non ti caglia,
E chi bene ha pensato,
     Ch’uomo molto pregiato
Alcuna volta faccia
     Cosa, che non s’aggiaccia,
In piazza, ned in tempio,
     Non ne pigliare esempio:
Perciocchè non sia scusa
     Chi a l’altri mal s’aúsa.
E guarda non errassi,
     Se tu stesso, od andassi
Con donna, o con signore,
     O con altro maggiore,
E benchè sia tuo pare;
     Che gli sappia innorare
Ciascun per lo suo stato.
     Siene tu sì appensato
E del più, e del meno,
     Che tu non perdi freno.
Ma già a tuo minore
     Non rendere più onore,
Che a lui sì ne convegna,
     Sì, ch’a vil te ne tegna.
Però s’elli è più basso
     Va sempre ’nnanzi un passo.
E se vai a cavallo,
     Guarda di non dir fallo.
E se vai per cittade,

     Consiglioti, che vade
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Molto cortesemente.

     Cavalca bellamente
Un poco a capo chino,
     Ch’andar così ’nde frino
Par gran salvatichezza.
     E non guardar l’altezza
D’ogne cosa, che trove.
     Guarda, che non ti move,
Com’uom, che sia di villa,
     Non guizzar come anguilla:
Ma va sicuramente
     Per via, e tra la gente.
Chi ti chiede ’n prestanza,
     Non fare addimoranza;
Se tu vuogli prestare,
     Nol far tanto penare,
Che ’l grado sia perduto,
     Anzi, che sia renduto.
E quando sei ’n brigata
     Seguisci ogne fïata
Lor via, e lor piacere:
     Che tu non déi volere
Pure a la tüa guisa,
     Nè far da lor divisa.
E guardati ad ogn’ura,
     Che laida guardatura
Non facci a donna nata
     In casa, od in istrata.
Però chi fà ’l sembiante,
     E dice, che è amante,
È un briccon venuto.
     Et i’ ho già veduto
Solo d’una canzone

     Peggiorar condizione:
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Che già a questo paese

     Non piace lor arnese.
E guarda ’n tutte parti,
     Che amar già per su’ arti
Non t’infiammi lo core:
     Con ben grave dolore
Consumerai tua vita:
     Non già di mia partita
Non ti porria tenere,
     Se fossi ’n suo podere,
Or ti torn’a magione,
     Ch’omai è la stagione;
E sie largo, e cortese,
     Sì, che ’n ogne paese
Tutto tuo convenente
     Sia tenuto piacente.
Per così bel commiato
     Andò da l’altro lato
Lo Cavalier gajoso;
     E molto confortoso
Per sembianti parea
     Di ciò, ch’udito avea.
E ’n questa beninanza
     Se n’andò a Leanza:
E lei si fece acconto;
     Poi le disse suo conto,
Sì come parve a lui.
     E certo io, che lì fui,
Lodo ben sua manera,
     Lo costume, e la cera.
E vidi Lealtade,
     Che pur di veritade
Tenea suo parlamento.

     Con bell’accoglimento
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Sì disse: ora m’intendi,
     E ciò, ch’i’ dico attendi.