Al lettore

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Allo splendidissimo cavaliere il signor conte Gelio Ghellini Noi Riformatori dello Studio di Padova

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AL LETTORE.


DD
A motivo ben giusto e ragionevole persuaso, mi lascio indurre ad esporre al pubblico questo Ditirambico mio Poemetto, il quale da me ne’ più fervidi giovanili anni composto, ho fin ad ora tenuto occulto, cosa non mi sembrando, che meritasse di comparire alla luce. Benchè non osi io però di promettermi, ch’egli sia per incontrare la buona grazia, ed il favore comune, contuttociò non mi dò gran pena per guadagnare gli animi di coloro, i quali si compiaceranno di leggerlo: imperocchè o sarann’essi discreti, e riceveranno in buona parte la fanciullesca vivacità, da cui trasportato fui nel comporlo, o cadrà egli per avventura nelle mani d’alcuno di que’ difficili spiriti, che nulla sanno mai compatire, ed io senza risentirmene punto, lascerò ch’ei lo disapprovi, lo laceri, e lo condanni. Non è questa quell’opera, di cui pregiar mi voglia, e far pompa: laonde lasciandola al suo destino, starò con placidissima indifferenza ascoltando che se ne dica, e quale si reputi. Nè credo già, ch’ella possa meritare, ch’altri vi perda il tempo nel farne la critica: ma pure, se mai si trovasse „ Uom vago di litigi e di contese „ così sfaccendato, che questo affanno pigliar si volesse, piglilosi pure con sicurezza; ed io, prima ancora ch’egli m’insulti, gliene perdono, protestando, che quanto a me presentemente occupato in più severi Studj e più frutuosi, mi guarderò dall’imitare il suo [p. xiv modifica]vizio, e dall’impiegare în altercazioni ridicole e sciocche o le parole, o l’inchiostro. Una tale risoluzione da me stabilmente presa, mantenuta inalterabilmente ancora da me sarà per quante ragioni, benchè plausibili, mi si presentassero di non eseguirla. Conciossiaperòccosache stimo, e rispetto assaissimo il Pubblico, cui di buon cuore offro questo mio, che posso chiamar Entusiasmo poetico, non è dovere, ch’io qui ometta di sciogliere alcune poche difficolrà, le quali insorgere altrui potrebbero nella mente in leggendolo, quasi ch’io presumessi, che tutto il Mondo entrar dovesse di primo lancio ne’ miei sentimenti, e credere sulla mia parola quanto emmi avvenuto di scrivere, forse contro il pensare di quegli, i quali da una vilissima schiavitù di certe pretese regole sono prevenuti, che gl’ingegni degli Uomini, quando vogliano qualche loro parto produrre, debbano essere vincolati. La prima dunque insorgerà certamente dallo stesso titolo del Poema, e salterà tosto agli occhi di que’ poveri spiriti, i quali a delitto imperdonabile ascrivono l’usare altre parole oltre quelle, che sieno approvate da chi si crede aver diritto ed autorità di dar legge alla bellissima e nobilissima nostra Lingua Italiana. Il termine di Roccolo sembrerà loro forse una voce barbara, e (come per dilegio suol dirsi) un Lombardismo: quasi che alle felicissime Lombarde Provincie non competesse a buona equità d’arricchir quell’Idioma, che suo proprio è non meno, ch’egli sia di qualunque altra parte del bel terreno, „che Appennin parte, e il Mar circonda e l’Alpe:„ e quasi che desse state appunto sempre non fossero, e tutta via non sieno feconde de’ più sublimi e delicati Ingegni, donde vantaggi grandissimi ne trae la letteratura, di cui son eglino cultori indefessi, e benemeriti illustratori. Or io non son disposto a provare (e provarlo agevolmente potrei) quanto sia lecito sempre, e tal fiata ancor necessario ad una Lingua libera, e viva il formar nuove voci, e l’usarle, allora singolarmente che derivate sieno da alcuna di quelle, che sono comunemente già ricevute; e molto più se un’intera provincia adottandole se ne [p. xv modifica]serva; e ancora più, se per esprimere ciò, che si voglia, d’altronde non s’abbiano le migliori di quelle, o almeno l’equivalenti. Sol io dirò per ciò, che spetta al nostro proposito, che se a’ giorni de’ Boccaci, de’ Villani, e de’ Passavanti stato vi fosse il modo di cacciare gli uccelli, siccome a’ nostri, con tal sorta d’Uccellatoio, senz’alcun dubbio è da credersi, che l’espressione istessa da’ noi usata, accadendo loro di nominarlo, non avrebbero avuto a schifo eglino pure di usare. Ma dunque perchè in essi non si ritrova, o in verun altro di quegli Scrittori, cui vuolsi attribuire il jus privativo in materia di Lingua, con grave ingiuria di tanti altri dottissimi Uomini, i quali di tempo in tempo vie più adornano la nostra Italia, niuno ardirà di servirsene? Frattanto, sarà bensì lecito e laudevole l’inventar nuove arti, e cose nuove, e non sarà poi laudevole o lecito almeno l’adattar loro un nome, che le significhi? Appunto. Anzi, la nostra Lingua, che in oggi può con ragione vantarsi d’essere giunta quasi alla sua ultima perfezione, e d’essere la più vaga, e la più ricca d’ogni altra delle vive senz’alcun dubbio, e forse ancor delle morte, perchè di mano in mano, o nuove espressioni inventò, ed appropriandosi le più forti, e più delicate d’altri moltissimi idiomi, le ha (come suscettibile che ell’è d’ogni più bell’ornamento) alla sua graziosa indole accomodate, perciò così nobile ora noi l’abbiamo, e così abbondante. Chi può negare una così palpabile verità? Ma pure non essendo io vago di questionare, lascio ne’ lor pregiudizj coloro, i quali pur tuttavia non ne vogliono rimaner persuasi; e checchè ne pensin essi, o ne dicano, a me basterà, che e questa, e parecchie altre voci, cui preso discretamente mi sono la libertà d’usare nel mio Ditirambo accettate sieno, ed autorizate dal dottissimo Bergantini,1 il quale colla sua molto ben fondata e vastissima erudizione, da ceppi, în cui tener si volea ristretta, ha già [p. xvi modifica]sciolta la nostra Lingua, di cui sarà benemerito presso il Mondo tutto, finchè ella viva. E se mai la fatale disavventura, ch’ebbero la Greca e la Latina, fosse a lei pure coll’avanzare de’ secoli per toccare, quantunque morta nel comun uso del favellare, viva però sempre ancora l’avranno i posteri ne’ vasti ed esattissimi volumi d’un così valent’Uomo, che tutte ne ha minutamente raccolte le bellezze, tutte chiaramente esposte le ricchezze, e spiegatone l’indole, il genio, la forza, e la nobiltà.2 Omessa dunque ogni altra questione su questo punto, aggiungo solo in grazia degli Esteri, che il Roccolo in questi ultimi nostri tempi inventato, e specialmente usato nel fioritissimo e fertilissimo Dominio Veneto, è un Boschetto piantato ad arte di circa quaranta pertiche di circonferenza, intorno cui con giusto e vago ordine disposte, e tra eguali spazj distinte in rotonda figura, girano doppie arcate coperte a guisa di loggia, o dir vogliamo di galleria, larga una pertica, ed alta due, formata di verdi Carpini, sotto la quale una sottilissima rete intorno si stende. Distribuisconsi per entro ad esso boschetto augelli di varie specie, e singolarmente Merli, Tordi, e Fringuelli, altri cantajuoli ingabbiati, ed altri per la coda allacciati liberi a svolazzare, che servono di Zimbello per allertare quelli, i quali fanno il loro passaggio nell’autunnale Stagione a riposare in mezzo di quella fresca verzura. Tra l’uno, e l’altro capo della rete, in cui resta un aperto spazio, che a genio si può lasciare più o meno largo, alla parte che guarda il mezzo giorno s’erge un Casino in forma di Torricella, il quale per l’ordinario va diviso in tre piani, affinchè serva non meno per l’uso della uccellagione, che per comodo, e per piacere. Imperocchè nel primo, ch’è [p. xvii modifica]il terreno, si custodiscono gli utensili bisognevoli a questa Caccia; nel superiore, ch’è il secondo, si sta a bell’agio godendola; e dal supremo, ch’è il terzo, l’Uccellator la dirige scuotendo a tempo gli Zimbelli, e stuzzicando i Tordi a trutillare colla Civetta, che loro mostra, e col fischio imitandone egli il canto per trar nelle tese insidie i passaggeri augelletti di tutte le specie: quindi facendo qualche rumor colle labbra, o co’ piedi, e nel tempo istesso lanciando a retta linea per l’aria un tronco di mazza della grossezza d’un pollice, lungo poco più di due palmi, nella cui cima incastrato è come un picciolo tagliere formato di vinchi, li caccia impauriti con impeto nella rete allora, che o posano sopra i verdi rami dentro il recinto, o svolazzando intorno ad essi vi scherzano. Io non credo però ingannarmi asserendo, che il termine di Roccolo, onde da ogni altro uccellatoio questo nostro di pari distinguesi derivato sia da Rocco significante la Torretta, ch’è uno de’ pezzi inservienti al giuoco degli Scacchi, detto già da Latini Rocca de’ ladroncelli, e quindi proprissimamente adattato ad esso, che appunto è come una picciola Rocca, la quale si pianta o sopra il dorso di qualche aprica Collina, o ne’ fertili piani di qualche aperta Campagna per danno de’ volatili, i quali si reputano dal Cacciatore come nemici, cui tende agguati, e cui si compiace assaissimo di predare. Uno di questi però, fra ogni altro vago, sontuoso, e deliziosissimo è quello, che il Signor Conte Gelio Ghellini splendidissimo Cavalier Vicentino ha eretto nella sua Villa tra Novoledo, e Caldogno, sette miglia a un di presso discosta dalla Città, tai per vedere non che i Circonvicini, ma tutti pur vi concorrono que’ generosi Forastieri, i quali capitano frequentemente in queste nostre contrade, e vi si trattengono per ammirare i superbi edifizj, che e nella Città e nel Territorio da’ padri nostri per comodo, e per magnificenza innalzati furono coll’opera de due celeberrimi, e al Mondo tutto ben noti Architetti, e nostri Concittadini Andrea Palladio, e Vincenzo Scamozio. E posciachè non molti stadj lungi da questo ha le sue prime [p. xviii modifica]sorgenti il fiume Bacchiglione, che Medoaco minore anticamente denominavasi, il Genio di questo si finge esser l’Attore del Ditirambo. Nè improprio sembri od inverisimile, che il supposto Dio d’un fiume dia in così solenne stravizzo: mentre, oltre che quest’obbietto restar dee sciolto bastevolmente nella narrazione, che fa egli medesimo della propria genealogia, ed in qualche altro luogo del Cantico, oltre ciò, dissi, io non ho mai trovato verun Autore, il quale dica essere astemie cotali pretese Divinità, e molto meno poi dobbiamo di questa nostra supporlo, che si fa da Bacco trar la sua origine: laonde io non ho avuto nessuno scrupolo a farla ber essa pure senza misericordia. Non mi mancavano è vero, altri Personaggi da scegliere; e siccome ho fatto fare allo stesso Bacco il Salto da Arno a Bacchiglione, così ad imitazione del valentissimo Francesco Redi, il quale giustamente in cotal genere di poesia riscossi ha finora i primi onori, avrei potuto introdurlo io pure ad assaggiar ancora i nostri vini, i quali certamente non invidiano per verun conto quelli della Toscana, che ad esso Bacco tanto già piacquero. Ma per unir varie circostanze, le quali a comporre questo Poemetto m’indussero; a tal invenzione appigliato mi sono, chetanto pù, ed a me piacque, ed a parecchi eruditi, ed assennati Amici miei, cui prima l’idea ne comunicai, quanto che l’etimologia del nome stesso del fiume Bacchilion significante nel greco idioma Figlio di Bacco parveci molto a proposito pel soggetto, che scelto avea da trattare. Che se poi forse a taluno sembri, che l’età mia già virile, e la mia professione, (la quale e serietà e contegno da me richiede) non mi dovessero più permettere di attendere a queste, che inezie da chi oltre la scorza colla corta mente non penetra si diranno, io brevemente rispondo, che se tali anche fossero, e per questo avrassi ognora con burbero e truce aspetto ad affettar il Filosofo? E ad un Uomo, il quale ne’ più laboriosi, e profondi studi le sette e le ott’ore per giorno a propria istruzione, e a benefizio altrui regolarmente è occupato, non sarà lecito il ricrearsi tal fiata ( in quella stagione almeno, in cui [p. xix modifica]per dare alla stanca mente sollievo trattiensi a respirare l’aria aperta della campagna) donando a qualche amena applicazione quell’ore, ch’altri sogliono allora donare al giuoco, al sonno, alle oziose piume? E ciò, che in altri studio degno di approvazione e di laude in ogni tempo sarebbe, in me diverrà (perchè alcuni soli pochi momenti v’impiego) degno di biasimo, e di rimprovero? Sono queste di quelle censure, che sogliono far coloro, i quali dalla natura non ricevettero nè genio nè talento di poetare felicemente „ Grazie che a pochi il Ciel largo destina „ anzi neppure quell’armonica simetria d’organizamento, che rende l’Uomo suscettibile della ineffabile soavità, che la Poesia (cosa divina ben giustamente detta) crea pienamente in coloro, i quali hanno le muse favorevoli, e in qualche parte ancor in coloro, i quali sortito avendo un’anima ben fatta, son disposti per comprenderla, e per gustarla. Tali riprovatori però d’un’arte, che fu la sola depositaria de’ naturali e de’ celesti arcani pel corso di tanti secoli, rassomigliar si potrebbero a certi mercatantuoli, i quali sogliono sprezzar quelle merci, ch’essi non hanno ne’ loro fondachi. Ma posciachè altri vi sono, i quali, se assolutamente la Poesia non condannano, condannano però coloro, i quali di favole, e di Gentilesche Divinità tuttavia non cessano ancora tra noi poetando di favellare; a questi null’altro dico presentemente se non, che in breve (Iddio aiutandoci) si daranno al Pubblico ample e chiarissime annotazioni di tutto questo Poemetto, nelle quali esporrannosi moltissime erudizioni, e mitologicamente si moralizeranno que’ passi, i quali nella superficie loro null’altro appaiono, che invenzioni capricciose d’una fervida fantasia, onde sembra che solamente mirisi a dilettare inutilmente i Lettori. Abbiano però cotesti gravi Aristarchi la compiacente benignità di sospendere per poco i rimproveri e le invettive fino a che loro sia mostro quali documenti si ascondano „ sotto la scorza delli versi strani „ e forse conosceranno allora di non aver poi tante ragioni, quante di averne si persuadono di biasimare chi anche in oggi col misterioso linguaggio, onde sempre parlarono per [p. xx modifica]l’addietro, e parleranno probabilmente ancora nell’avvenire i Poeti, benchè seguaci della Religione santissima „ ch’io pure professo, la quale altro Dio non ammette oltre l’unico e vero: laonde solo per vaghezza, per adornamento, e per ispiegare i miei pensieri con qualche viva immagine, non perchè io senta diversamente da ciò, che la mia Fede m’insegna, protesto d’aver usato i nomi delle Deità profane, de’ Genj, delle Ninfe, e cotali altri simili, che tratto tratto in quest’amena operetta s’incontreranno „. Finalmente a chi non ha cognizione della felicità di questa nostra Regione, cui Natura communicò molto abbondevolmente de’ doni suoi, sembrerà forse cosa fuor d’ogni credere, che fino a trenta e più sorte ancora di vini, e ciò che monta, ottimi tutti generalmente, e ciascheduno colle particolari sue qualità, ella ci somministri. Ma essendo questo un fatto, ch’ogni Uom, che il voglia, può riscontrare da se medesimo ed accertarsene, io non mi estenderò a confermarlo. Vero è ben, che difficilmente, se qua non viene, potrebbe a lui riuscire di farne l’esperimento. Conciossiachè essendo i Vicentini comunemente d’animo disinteressato, e di sentimenti anzi generosi che no, onde abborriscono dall’una parte il far guadagno di quelle cose, che a se medesimi sono grate, e dall’altra si pregiano di trattare splendidamente sestessi, e gli Amici loro, e gli Estranei, i quali perciò volontieri qui si trattengono, e molto poi soddisfatti della cortesia loro usata si partono; per questo tutti quasi i più scelti nostri liquori qui si consumano, nè altrove è così agevole averne, siccome agevole cosa è l’averne di quelli d’altre Provincie, gli Abitatori delle quali di molte altre cose alla vita umana comode e necessarie abbisognano, che il proprio terreno loro non somministra; d’onde ne avviene, che in maggior copia si trovino i più delicati vini altrui ne’ paesi esteri, che in quelli ove nascono, mentre qua e là trasportati vengono, e mercantescamente spacciati. Ma posciachè il Cielo ha con singolare parzialità noi provveduti così di questo, come di tutti gli altri generi, i quali possono in un clima temperatissimo, quale appunto è il nostro, allignare; e perciò non essendo obbligati a proccaciarli d’altronde, non [p. xxi modifica]non è meraviglia, se i Cittadini nostri non costretti dalla industriosa necessità, lasciando altrui far commercio, e privarsi ancora di que’ prodotti, che più rari ad essi dà il loro paese, eglino invece per se medesimi lì serbano, e ne usano, e se li godono. Alcuni, è vero, di que’ vini, di cui più abbonda il nostro Contado (imperocchè ottimi essi pure, quantunque ordinarj da noi si chiamino) da circonvicini Popoli richiesti vengono, e trasportati: ciò non pertanto il poi trovarli fra d’essi pretti e puri, come noi loro gli consegniamo è cosa difficilissima; e ciò, perchè eglino, per esitare i proprj a miglior derrata, co’ nostri usano di rimescolarli: onde il robusto sapore di questi alla insipida leggerezza di quelli e grazia e forza compartano. E non è già disordinato amor della patria quel, che mi fa parlare; nè temo sopra un tal punto di poter essere mai riconvenuto: conciossiachè la verità del fatto mi giustifica e rassicura. E ben potrei qui produrre solenni testimonianze di Viaggiatori veridici, e di estranei Scrittori, i quali della Città, e del Distretto nostro felicissimo ragionando, assaissimo si diffondono in lodarne la situazione deliziosa, la salubrità dell’aere, le amene colline, le ubertose pianure, l’abbondanza de’ pascoli, e la copia de’ ruscelli perenni, che gli annaffiano, e li fecondano. In fatti sol che si voglia così di fuga almeno vederlo, e considerarlo, si sarà costretto di confessare essere questo più tosto un vasto giardino, che un picciolo Tenitoro (non oltrepassando le venticinque miglia in lunghezza, e le cinquanta in larghezza:) e dalla moltitudine, e vicinanza scambievole de’ Borghi, de’ Castelli, e de Villaggi, ove gli Abitatori in gran numero agiati, e ben provveduti nelle proprie case costrutte, e adorne in foggia cittadinesca, anzi che villereccia si trovano, e chi potria non dedurne, che dunque le cose tutte all’umano vivere necessarie non solamente, ma le comode ancora, e le deliziose vi abbondino. Ma sovra tutto, senza punto esitare, asserisco non esservi niun’altra Provincia (d’una sola Città intendo dire, e d’un sol Contado) che tante specie, e sì varie, e sì differenti, e sì delicate di Vini produca, quante ne produce la nostra. Nè io già tutti nel mio [p. xxii modifica]poema gli riferisco; sì perchè di tutti singolarmente non mi è riuscito di rilevare il nome proprio, e le particolari prerogative; sì perchè molti sono d’Uve, che dalla Francia, dalla Spagna, dalla Provenza, dalla Rezia, dall’Ungheria, e dalla Grecia a noi trasmesse, i primi nomi però dagli Esteri loro adattati, e già noti, o quelli de’ luoghi stessi, d’onde a noi vennero, fra noi pure conservano, e ne conservano per avventura il sapore medesimo, e le medesime qualità; mentre ogni, e qualunque sorta di viti nelle nostre Colline allignano, e lor si naturalizano facilmente, comecchè trasportate da clima differente e da lontano paese. Non siavi però chi mi faccia querela, se nè tutti i vini distintamente, nè tutti i Villaggi, che li producono, io non ho nominati, e molto meno tutti que’ Cittadini, i quali si pregiano averne degli scelti; poichè, se per mia giustificazione potriami bastar il dire, ch’ebbi le mie ragioni di così regolarmi, e che ognuno in casa propria, e di quella stampa, che a lui più torni, o che più gli aggradi „può della pasta sua far Maccheroni„ aggiungo in oltre affin di chiudere affatto le labbra a chi meco sdegnato le aprisse per rinfacciarmene, che non fu mia intenzione di tessere una Storia, ma di poeticamente esporre ciò, che dettavami il giovanile capriccio, e ciò che i cortesi amici, i quali de’ Versi miei si compiaciono, da me richiedeano. Con questo semplice, e breve preliminare ho giudicato cosa oportuna di prevenire il Pubblico nel presentargli il mio Ditirambo; il quale se accolto benignamente verrà, servirammi la compiacenza altrui di efficace stimolo per terminarne ancora le annotazioni, e darle esse pure alle Stampe: lo che si farà in guisa, che serva come di una seconda parte, e quale abbiamo del celeberrimo Francesco Redi, di due Volumetti potrassi un solo formarne di giusta mole, ed averne il poema ed il comento uniti, così che l’uno e l’altro leggere e riscontrare agevolmente si possano. Intanto alcune succinte postille si pongono per dar contezza de’ nominati Soggetti, e delle qualità particolari de’ vini, de’ quali però altri giudicare porrà molto meglio di me, che per mia consueta, ed ordinaria bevanda uso l’aqua: onde in [p. xxiii modifica]questa Operetta si verifica della mia persona il trito proverbio „Cane che abbaia non morde„ Imperocchè la connivenza ch’ebbi per chi me ne diede lo stimolo, a farla contro il mio naturale temperamento mi ha spinto; e s’ella sia per avventura da ogni altro negletta, a me basterà, che grata riesca a chi mi mosse già ad intraprenderla, ed ora mi obbliga a pubblicarla.


  1. Il P. D. Giampietro Bergantini, per le molte sue opere già stampate notissimo agli Eruditi.
  2. Nel suo Dizionario Italiano del tutto in sei Tomi in quarto allestito giusta l’idea, che sotto nome di Pastor Arcade già produsse fin dall’Agosto del 1735 e nell’Opera assai più importante, intitolata: Dizionario dell’eloquenza Italiana, in sei Tomi pure in quarto già in pronto.