XXIV. Da Napoli a Roma

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XXIV.

Da Napoli a Roma.


Parecchie circostanze ritardarono la partenza di Don Diego per Roma ove doveva recarsi a ricevere la consacrazione episcopale. Nel regno delle due Sicilie, il re designava e nominava i vescovi, il papa li passava all’olio.

I Borboni avevan tenuto sodo a questa prerogativa reale, perchè per un articolo del concordato del 1819, il vescovo aveva, oltre le sue funzioni spirituali, la missione di vegliare sullo spirito pubblico della diocesi e di riferire alle autorità laiche, — vale a dire, che il vescovo era il luogotenente del ministro della polizia in ogni diocesi. Bisogna dunque aver degli uomini capaci, investiti della fiducia del governo, onde spacciare la bisogna episcopale secondo il cuore del re.

La mancanza di danari e la malattia di Bambina furono le due cause principali del ritardo del viaggio.

Bambina aveva soccombuto a tante scosse e fuvvi un momento in cui la morte aleggiò ben [p. 377 modifica]vicino sul capezzale di lei. Concettella l’accudì come una madre. Il padre Piombini, chiamato da Bambina, venne a vederla. E’ fu allora che il gesuita e Don Diego ebbero un colloquio di parecchie ore, con grande soddisfazione di quest’ultimo. Che gli disse? Molte cose sullo stato sociale, sullo stato politico di Europa, sulla situazione degli spiriti, sulla rivoluzione che si era operata nella coscienza delle masse, sull’essenza del principato al XIX secolo. Ei gli fece la diagnosi della religione, gli schizzò il carattere del gesuitismo e del papato quali erano, quali avrebbero dovuto essere, come alcuni spiriti intuitivi dell’avvenire e dei riformatori li consideravano. Il P. Piombini non disse che una parola sul conto di Bambina, se viveva, parola che calmò l’inquietudine del fratello.

Don Diego ebbe a volta sua una considerevole conversazione col marchese di Sora, di cui egli conosceva oggimai le vere tendenze. Il marchese ignorava naturalmente le pie intenzioni del re intorno a quel "vescovo del diavolo". Il marchese era libero pensatore o volteriano, come egli diceva.

— Io ho questo vantaggio su di voi, signor marchese, rispose Don Diego: io sono panteista.

— Io non discuto la religione nè come filosofo nè come teologo, osservò il marchese, ma come ministro della polizia. Crediate o non crediate, ciò non mi riguarda punto. Teologi e filosofi han bottega di teorie e di principii; paghino dunque patente al governo e traffichino liberamente di loro derrate. Ma, come strumento di governo, l’atteg[p. 378 modifica]giarsi della religione m’incombe, e la deve essere ortodossa a modo mio.

— Ma! ecco dove per l’appunto tutti i governi s’ingannano, rispose Don Diego. Essi credono che il prete sia uno dei congegni dello Stato. Il prete, quale voi l’escogitate, quale lo avevate fatto, è al contrario direttamente ed indirettamente un lievito di rivoluzione. Il popolo soffre, ma esso comprende l’azione della polizia: quello schiacciamento è logico. Però lo spionaggio, la compressione, l’abbrutimento, la violenza, la corruzione, la servitù per mezzo del prete, rivolta il sentimento del popolo: questa missione del prete è anormale. Ecco perchè i governi a marchio clericale, sono i più abborriti ed i più minati dallo spirito rivoluzionario!

— Nonpertanto, interruppe il marchese, il papato, l’Austria, la Spagna, che hanno questa tempra ultramontana e clericale, durano da secoli.

— Gli è che il principio vitale di questi Stati non risiede nella religione. Il papato dura in virtù della coalizione di Europa; l’Austria, per l’antagonismo delle nazionalità rivali dell’impero e l’unità dell’esercito e del centro goverativo: la Spagna, per la corruzione dei costumi, l’atrofia intellettuale, e la sequestrazione dallo spirito nazionale: la Spagna è l’Africa dell’Europa! D’altronde, gli Stati romani, l’Austria, la Spagna sono un anacronismo1: e’ vivono dei secoli passati. La società rinnovellata nel 1789, non vi si è ancora [p. 379 modifica]organizzata. Ma guardate la Francia. Napoleone procede al dispotismo interno mediante la ricostruzione previa della chiesa ed il restauramento del papato. Però, quando al momento del supremo pericolo egli fa appello alla nazione, la nazione si è dileguata ed ei si trova solo. Carlo X cercò l’appoggio clericale; fu spazzato via. Guizot carezzò il clero come un elemento ed un istrumento del partito conservativo; egli traballa sulla sua base. Il popolo non vuol sentire altrimenti la mano del clero che per benedire coloro che credono, — per soccorrere la sventura e la miseria. Presentarglielo sotto altra forma, sotto la forma di ceppo al movimento, al pensiero, al progresso, allo sviluppo sociale, — che si addimanda rivoluzione quando scoppia — ; fargli vedere il prete come alleato naturale del re, del prefetto di polizia, del gendarme: gli è un farglielo odiare ed un far odiare nel punto stesso il governo che se ne serve; gli è un precipitare la rivoluzione mediante la ruota stessa del freno. Ecco l’azione indiretta della religione sulla rivoluzione. L’azione diretta gli è il dispotismo assoluto, senza controllo, senza appello, del vescovo sul prete, cui ribadiscono i governi che riconoscono la libertà della Chiesa. Tutti i preti, in forza di ciò, sono rivoluzionarii nell’anima. Coloro che non si pronunziano, sono trattenuti dalla paura, dalla vecchiezza, dall’imbastardimento, dall’interesse, dall’imbecillità, perchè temono di compromettere un lucro, ovvero perchè la violenza li schiaccia. Voi avete quindi il prete o nemico, o organo tiepido nel vostro cómpito, o pronto a disertare al primo incontro. [p. 380 modifica]

— Ma allora a che dovrebbe servire, secondo voi, la religione in uno Stato? dimandò il marchese. Perchè la religione essendo un elemento della forza governativa uno Stato non può negligerla.

— Certo, no, riprese Don Diego. Ebbene, se voi desiderate che la religione sia un elemento di forza e non un elemento deleterio di governo, gli è mestieri lasciarla negli strati del popolo e non mischiarla alla gerarchia amministrativa. Più voi innalzate la religione verso il potere, più ne neutralizzate l’efficacia. Compromessa, essa vi domanda un’indennità, essa si impone a voi, diviene esigente e vi procura degl’imbarazzi, senza rendervi alcun servigio. Lasciata come una funzione puramente sociale, come la medicina, la giurisprudenza, l’agricoltura, la religione diviene un moderatore democratico, il parafulmine del trono. Non più clero, ma il prete. Non più episcopato, ma il vescovo. Non più papato, ma il decano dei vescovi. Non più Chiesa nello Stato e fuori dello Stato, o Chiesa-Stato, ma una dottrina morale che segue o subisce le evoluzioni della civiltà per mezzo della scienza, come la filosofia, la chimica, la fisica, l’astronomia, l’antropologia, la storia naturale. La religione è una faccia postuma della vita generale del mondo. Ecco come io la comprendo, questa religione. Ecco ciò che intendo fare nella mia diocesi, io. Ecco l’attitudine che io prenderò di rimpetto al papa e al re. Io sarò il centro di tutti i raggi di un cerchio; non sarò nè il cerchio nè i raggi. Io sono popolo e resto con lui. [p. 381 modifica]

— Codesti sono vaneggiamenti, sclamò ghignando il marchese di Sora. Il clero è la gendarmeria delle coscienze; noi non andremo a scioglierla con cuore leggero ed orbarci di un aiuto. Solamente e’ bisogna capovolgerne la missione. La religione fu sin qui un istrumento del dispotismo: bisogna farne un istrumento di libertà.

— Ecco l’illusione eterna della democrazia. Dove è corpo, vi è organismo; ove è organismo, vi è centralità: dove è concentrazione di vita e di forza, vi è dispotismo inevitabile. Voi lasciate l’ente clero? esso sarà mai sempre una ruota della forza governativa, che la fonde in quell’altra ruota più assorbente ancora, la burocrazia. Clero e democrazia, burocrazia e democrazia, corpi costituiti nello Stato e libertà, saranno sempre delle antinomie. Il popolo si governa con altra legge: l’affinità della razza e la coesione sociale degli interessi. I vostri organismi parassiti esterni, alla superficie, saranno sempre un intoppo, una difficoltà, una causa di ritardo al progresso. Perchè le scienze vivono e progrediscono? perchè sono un prodotto individuale al profitto dell’interesse sociale. La religione deve avere la medesima essenza, la medesima natura, il medesimo carattere. Io non ne farò altro.

La conversazione fu interrotta. Il re chiamava il ministro, e Don Diego non potè entrare negli sviluppi pratici delle sue viste.

Re Ferdinando voleva sapere precisamente qual fosse l’opinione del marchese di Sora sul carattere, i principii, i costumi, del nuovo vescovo. [p. 382 modifica]

— Sire, disse il marchese, Don Diego Spani è un liberale, un riformatore, ciò che si chiama un rivoluzionario, ma e’ non sarà mai un traditore. Gli spiriti limitati, che non hanno nè spedienti, nè vigore nell’anima, nè elaterio nella intelligenza, tradiscono. Le nature potenti, i caratteri riccamente mobigliati, le anime tuffate nel bronzo come quell’uomo lì, sono essenzialmente generose. Essi pigliano corpo a corpo la malattia, non il malato; essi correggono l’amministrazione, non frangono i re e le dinastie; essi fanno della religione un tonico non un veleno. Si può confidare in tali uomini. Essi sono, per la loro intelligenza, più sicuri degli amici, i quali mascherano il loro interesse sotto il nome dello zelo. Sire, io dico altrettanto di Don Diego Spani che di me. Io so che ho la sventura di non goder più la fiducia di V. M. Ma la mia resistenza salva il trono; la servilità stupida degli altri intercetta il giorno agli occhi della M. V., la quale non vede allora nè il male, nè la conseguenza del male.

— Voi andate al di là della questione che io vi ho posta, marchese, crocidò il re. Il vostro avviso dunque è, che noi non commettiamo mica un’imprudenza, confidando la direzione di una diocesi ad un uomo che ha poca fede, poca morale, niuna simpatia pel nostro sistema di governo e niun affetto pel nostro trono?

— Sire, rispose il ministro, questo nuovo vescovo, con cui ebbi or ora un serio colloquio, ha certo poco o nulla di tutto ciò che V. M. ha enu[p. 383 modifica]merato. Ma io auguro alla M. V. parecchi vescovi di quella tempra. Non avremo noi allora a preoccuparci nè delle mene dei rivoluzionarii, nè dell’attitudine del papa, nè degl’invadimenti dell’Austria: la rivoluzione non avrebbe base nel Regno, e V. M. potrebbe tenere contro l’Austria e gli altri principi d’Italia la parte che essi provano di tenere contro la M. V.: — essere il più liberale fra loro ed attirarvi le simpatie degl’italiani, che si agglomereranno un giorno o l’altro intorno ad una dinastia italiana. V. M. non sarebbe più allora il re di uno Stato, ma il re di una nazione.

— Voi divenite visionario, marchese, sclamò il re con aria leggera, accendendo un mozzicone di sigaro spento. Io non sono ambizioso. Io non mi trovo male abbottinato di già con nove milioni di sudditi?

— Sire, si tratta di non farseli strappare. V. M. non dice come Luigi XV: «Basta che ciò duri quanto noi!» Ora, non è questione del presente, ma dell’avvenire.

— L’avvenire riguarda Dio, marchese.... ed il nostro esercito.

— Ahimè! sire, sclamò il marchese, io dirò a V. M. come il cavaliere Folard: "Le potenze d’Europa hanno dei ben cattivi occhialini per non vedere l’uragano che le minaccia!"

— Mi consigliereste voi per avventura di sguinzagliare la grande vague, come Necker chiamava gli Stati generali? Voi vorreste che io accordassi una Carta, per esempio! [p. 384 modifica]

— Sire, un giorno o l’altro bisognerà bene passar sotto quelle forche, al passo con cui camminano le cose di Europa. Perciò io reputo più saggio prevenire che esservi forzato.

— Giammai! gridò il re. Voi vi obbliate, signore. Uscite.

Il re fece un gesto imperioso ed il ministro uscì. Ferdinando andò ad inginocchiarsi ad un angolo e pregò.

Il marchese sentì la disgrazia pesar sul suo capo, e si rassegnò. Egli non voleva passare per traditore; si era deciso quindi ad essere imprudente.

Quell’attitudine del marchese di Sora precipitò gli avvenimenti.

Io non voglio narrare la storia di quella melensa rivoluzione e biascicare altra politica. Proseguo dunque lo sviluppo del dramma che vi si trova intralciato.

Dopo le indicazioni somministrate da don Domenico Taffa a monsignor Cocle e da costui al conte di Altamura, e’ fu facile scovrire la parte che il P. Piombini aveva avuto nell’affare di Bambina, dell’episcopato di suo fratello, e della sorpresa del complotto rivoluzionario per parte del re. Il tradimento del gesuita divenne evidente: tradimento contro il governo del re, a cui egli aveva celato il segreto; tradimento contro il capo del suo ordine, — se tuttavia quel capo non era un traditore egli stesso, — a cui il segreto era stato egualmente involato; tradimento contro la regola dell’istituzione, oltraggiata dall’amore di quel confessore per la [p. 385 modifica]giovinetta. Bisognava precisare quel crimine, denunziarlo al generale dell’ordine e querelarsene. Il re scrisse direttamente una lettera privata al Padre Rothaan.

Quella denunzia sì grave, sì dettagliata, venendo di così alto, portata in quel modo intimo, cadde come una granata sulla testa del generale. Egli conosceva meglio del re lo stato delle cose del regno e dell’Europa, e ne prevedeva le conseguenze. Imperciocchè non vi è rivoluzione presso un popolo cattolico che non si abbatta innanzi tutto sulla Società di Gesù. Per la sola circostanza della situazione politica dell’Europa, al mese di novembre 1847, la colpa del P. Piombini pigliava le proporzioni immense di un delitto di leso-ordine. Il padre Rothaan rispose immediatamente al re, che una soddisfazione terribile gli sarebbe data. E’ mandò un agente segreto alla casa di Napoli per istruire.

Il carattere del padre Piombini era di già conosciutissimo sul proposito delle sue tendenze verso le donne. Ma il segreto di Stato nascosto al suo capo e confidato ad una ganza, rivelava un’altra faccia di questa figura: egli simpatizzava per la rivoluzione, vezzeggiava la caduta dei Borboni, l’unità italiana, l’abisso della Società di Gesù, e ne violava le regole fondamentali, — la rivelazione assoluta dell’anima al capo di questa Società. Per il padre Piombini una concubina passava dunque innanzi al generale, al re, agl’interessi del papato, alla sicurezza dell’Austria, alla salute dei principi italiani, all’esistenza della Compagnia di Gesù? L’istruzione del processo del padre Piombini fu con[p. 386 modifica]dotta con prudenza, segreto e riguardi. Ei non ne seppe nulla, ma ne ebbe il sospetto e non ne fece caso. Ciò prese tempo; però si venne a capo della verità.

Quando il generale fu padrone di tutta codesta verità, egli ordinò qualche misura contro il fratello ribelle, ma sempre con calma, moderazione e saggezza. Il padre Piombini aveva portato all’ordine dei milioni ed era uno dei quattro o cinque membri che ne formavano lo splendore. Al primo avvertimento, cui il padre Piombini ricevè dal rettore di Napoli, egli gettò affatto la maschera e tagliò corto alle pratiche. Scrisse al generale e gli significò la sua intenzione di abbandonare la società e di secolarizzarsi. Questo colpo scosse il padre Rothaan. La secolarizzazione portava seco la restituzione della fortuna che il conte Bonvisi aveva legata all’ordine. Un processo forse. Un immenso rumore nel mondo. Della luce. Uno scandalo spaventevole. Il generale riunì la grande congregazione dell’ordine per avvisare.

E avvisarono.

Infrattanto, la dimanda di secolarizzazione del padre Piombini seguiva il suo corso.

In questo intervallo, Don Diego arrivò a Roma. Il colonnello Colini, che era in comunicazione col marchese di Sora, aveva saputo da costui tutti i dettagli dell’impresa di Bambina. La non partecipazione di Don Diego nel tradimento era stata accertata, e forse si era saputo anche ciò che la libertà e la dignità episcopale del fratello costava alla sorella. Si sentì l’ingiustizia di tramutare in [p. 387 modifica]delitto pel prete la pietà santa della giovinetta. Don Diego fu dunque bene accolto dagli esiliati napolitani a Roma, — e fra loro, dal colonnello, da Tiberio, e dal marchese di Tregle.

Pio IX era stato istrutto dal nunzio di tutto ciò che concerneva Don Diego. Egli ebbe per conseguenza un momento la velleità di opporsi all’unzione del vescovo. Le osservazioni dell’ambasciatore del re l’addolcirono, forse gli fecero riflettere che non era quello il momento di creare degli ostacoli e delle cattive intelligenze tra il trono e la tiara, tra i principi italiani d’Italia ed il papato. Il re aveva impegnata la sua parola: Don Diego doveva essere vescovo ad ogni costo, salvo a corregger poscia l’errore della ragione di Stato con la severità della giustizia. Il papa conobbe egli l’intero pensiero del re? Vi è luogo di crederlo. Vi è luogo a dubitarne. Ad ogni modo, Pio IX non volle ricevere Don Diego, e la consacrazione fu compiuta dal cardinal vicario o dal decano.... Don Diego non se ne informò neppure.

Don Diego non si preoccupò nemmeno del contegno di Pio IX. Egli aveva contribuito la sua buona parte alla creazione di questo idolo, — il Pio IX rivoluzionario che riscaldò l’immaginazione della democrazia europea nel 1847. Egli conosceva dunque il valore intrinseco del poticke del papato liberale. Si fermò qualche settimana a Roma per visitare le antichità, i musei, le chiese, — dal punto di vista dell’arte, — e s’intrattenne con i numerosi liberali accorsi a Roma da tutti i punti d’Italia e quivi riuniti, chi per adorar ficuli truncus, chi per [p. 388 modifica]metterlo a partito, chi per studiarlo, ed altri — gli esiliati — per scandagliarlo. Don Diego vide allora ciò che gl’italiani non han compreso di poi che Roma in quei dì era la loro necropoli e non la loro capitale; che non vi erano più romani ma sudditi del papa, salvo qualche eccezione, e che quella città non potrebbe aver vita, se pur vivesse, che mediante la trasfusione del sangue delle altre città italiane.

Le nuove della salute di Bambina lo rassicuravano; prolungò il suo soggiorno. Egli non vestì la sottana cremisina episcopale onde essere più libero. Vide moltissime persone. Parlò con franchezza; ed avvegnachè spiato, e lo sapesse, non si celò. Egli aveva compreso immediatamente, trovandosi in contatto con la genia curiale romana ch’egli era arrivato a porto, che aveva attinto l’apice a cui potesse sperare, e che qualunque fosse la tesa delle sue ali, eragli interdetto d’innalzarsi più su. Egli era radicalmente incompatibile col mondo romano vaticanesco. Si sentì allora umiliato di aver covato tanta ambizione, d’averla per sì lungo tempo carezzata, per così poco. Egli si ricordava, arrossendo, la notte fantastica che aveva passata quando Bambina gli disse: Tu sei vescovo! povera diletta! promettere il cielo ed ottenere in iscambio uno steccadenti! Fortunatamente che....

Egli ruminava codesto, contemplando in S. Pietro la statua di Giove umiliata a rappresentare il principe degli apostoli. Il rumore di due grucce risuonando sulle lastre di marmo della chiesa gli fece volger la testa. Riconobbe il colonnello Colini, in [p. 389 modifica]compagnia di don Gabriele, l’ex-attore dei pupazzi e di un gesuita francese chiamato il P. Buzelin. Parlarono di arte, di religione, di politica. Don Diego sembrava ritenuto dalla presenza di quel gesuita, amico del colonnello, ma cui egli non conosceva. Non dissimulò pertanto il suo giudizio sulla basilica di san Pietro. Egli trovava che il berretto di Michelangelo era troppo grande per covrire il papato per la grazia dei re, quale era escito dal congresso di Vienna, — una Chiesa cattolica sotto la protezione e la sorveglianza della polizia e della gendarmeria dell’Austria. Sembra un vaneggiamento! L’Austria del 1847 fu poscia surrogata dalla Francia. E questa nazione tiene oggi nel mondo morale il posto della Spagna e dei principi italiani di quell’epoca! C’è da ghignare al muso del progresso. A quel tempo, malgrado ciò, non si parlava ancora della Francia. Berryer non aveva ancora strappato dalle canne di Rouher il famoso jamais! che fece palpitar di gioia il cuore cosmopolita della mogliera del vincitore nobilissimo di Solferino. Thiers non aveva ancora dichiarata la guerra in petto all’Italia, recitando innanzi allo specchio la parte di un Goffredo del papato. Don Diego trovava altresì che san Pietro era troppo grande, per ripercuotere per fino gli echi di una assemblea nazionale italiana. Di maniera che quel monumento sorpassava le proporzioni del suo destino presente e futuro.

— Ah! soggiunse poscia il vescovo di Satana, ah! se la Chiesa cattolica divenisse un giorno la chiesa democratica, senza papa ma con dei concili [p. 390 modifica]periodici, voce di libertà, elemento di civiltà, forza del progresso, andando di pari passo con la scienza, armonizzando i suoi dogmi con la ragion pura, rigettando tutta la scoria ridicola dei passati secoli, una chiesa cristiana filosofica, insomma non più la Chiesa romana.... oh! allora S. Pietro sarebbe un tempio degno del Dio qualunque che vi si adorerebbe.

— Avete ragione, sclamò il P. Buzelin. Ma ciò non sarà mai. Il trono uccide l’altare, e l’altare rovescia il trono: ecco la legge dell’avvenire. I re che mangiano del papa, come della santa ostia, muoiono arrabbiati; ed i papi che maledicono alla resurrezione dei popoli, al soffio del libero pensiero, crepano idrofobi.

— Tanto meglio allora, gridò Don Diego, perocchè vi è una cosa che mai non muore: il popolo il quale sarà sbarazzato da queste due barriere, Gregorio VII e Carlo Magno....

Si lasciarono. La polizia romana, che sorvegliava tutti i passi di Don Diego, riferiva al ministro di S. M. siciliana i sentimenti sovversivi ed i gusti poco ortodossi del neo-vescovo. Il ministro fece significargli ch’egli avesse a partir di Roma il più presto possibile, poichè la diocesi reclamava la sua presenza. Se Don Diego non avesse contratto dei debiti col canonico Pappasugna, se avesse avuto un po’ di fortuna per vivere indipendente, se a Roma stato vi fosse un posto per lui, egli avrebbe certo chiamato Bambina e Concettella appo di sè e non sarebbe più tornato a Napoli. Ma i suoi impegni, la sua povertà lo spronavano. Bi[p. 391 modifica]sognò decidersi a partire. Ne fissò dunque il giorno e dimandò un’udienza al papa.

Pio IX non potè dispensarsi dal riceverlo, senza gettare della sconsiderazione sopra sè stesso, sconsiderando il vescovo appena consacrato in nome suo. Ma, d’altra banda, volendo evitare lo scandalo, lo ricevè la sera, in privato, a tu per tu. Pio IX, a volta sua, era curioso d’intrattenersi con un vescovo mazziniano, come egli diceva, nominato da un re che gli portava il broncio.

L’aspettativa del papa fu ingannata.

Don Diego si mostrò rispettoso per quel papa-travicello, diceva egli, e severamente discreto. Imperocchè, a certe altezze, l’aria è talmente rarificata che la percezione dei suoni si perde. Ai rimproveri di Pio IX, egli oppose il silenzio. Pio IX non avrebbe compreso la sua giustificazione. Perchè, partigiano della consustanzialità come un papa deve essere, egli non avrebbe ammesso giammai che Don Diego fosse uomo e vescovo nel tempo stesso, ch’egli potesse lasciare libero giuoco ai congegni individuali e compiere le funzioni episcopali con la dignità e la severità cui il rispetto di sè stesso gl’imponeva. Questa dualità nel prete, riconosciuta dai protestanti, respinta dai cattolici, è inerente alla natura umana, e salverà forse il cattolicismo, il giorno in cui essa non sarà più contestata. Don Diego si restrinse a dire partendo:

— Santo Padre, io farò il mio dovere, secondo Gesù Cristo.

La partenza doveva aver luogo il dì seguente. A [p. 392 modifica]quell’epoca si viaggiava per la diligenza che faceva il servizio della posta due volte per settimana. Per non compromettere il vescovo in faccia alla corte napolitana, nè il barone di Sanza, nè il colonnello Colini, nè il marchese di Tregle andarono a dirgli addio all’uffizio della diligenza. Gli mandarono i loro complimenti per mezzo di don Gabriele, il quale, avendo accompagnato il marchese di Tregle in qualità di cameriere o d’intendente, aveva ottenuto il permesso di ritornare a Napoli.

Don Gabriele aveva la nostalgia dei suoi pupazzi. Egli aveva provato di far gustare ai romani il suo teatrino ambulante che dava il farnetico ai napoletani, ma non aveva avuto alcun successo. Aveva quindi preso Roma in uggia.

Si caricavano già i bagagli sulle vetture, i viaggiatori erano già riuniti, quando il P. Buzelin arrivò. Egli cercava degli occhi Don Diego. Lo scorse in fatti, ma favellando col segretario dell’ambasciata di Napoli. Ebbe un movimento di viva contrarietà. Don Gabriele che gironzava intorno alle carrozze, sorvegliando il carico del bagaglio del vescovo, riconobbe il gesuita, cui aveva sovente visto in compagnia dei suoi amici. Si avvicinò dunque e gli dimandò:

— Padre riverendissimo, avete bisogno di qualche cosa da Napoli?

— Che? partite anche voi?

— Ah! per bacco, sì! sclamò don Gabriele, e cominciò a zufolare il ritornello di una canzone napolitana in voga: «Napole bello mio!»....

Il gesuita restò pensieroso un momento, poi riprese: [p. 393 modifica]

— Vorreste rendermi un servigio?

— Due, tre, e tutta la mezza dozzina, se posso farvi piacere.

— Ascoltate. Io ho una lettera da mandare ad uno dei miei amici del Gesù Nuovo. Non voglio confidarla alla posta. Vorreste voi incaricarvene?

— Datela qui.

— Ma il servizio ch’io vi chiedo è questo qui. Appena metterete il piede sul lastrico di Napoli, voi non andrete a casa vostra, fosse pur vostra moglie, vostra figlia, o vostra madre che vi aspettino. Prenderete una vettura e vi renderete immediatamente alla chiesa del Gesù. Se il padre Piombini è al suo confessionale, voi vi avvicinerete senz’altro a lui e gli darete la lettera dicendogli: "Leggete all’istante, più presto che all’istante!" Se la chiesa è chiusa, andrete al parlatorio e lo farete chiamare dicendo che voi vi nomate Marco Savelli. Egli verrà immediatamente, e voi gli rimetterete la lettera.

— Io compirò punto per punto il vostro desiderio.

— Me lo promettete voi?

— Voi potete contare su di me come su i vostri amici, il colonnello ed il marchese.

Il gesuita si tacque un momento e riflettè se doveva o no soggiungere altra cosa, poi sclamò, gettando un profondo sospiro e dando la lettera:

— È quistione di vita o di morte. Compite esattamente le mie istruzioni.

— Voi stesso non fareste nè meglio nè più presto, rispose don Gabriele. [p. 394 modifica]

Si fece l’appello dei viaggiatori. Don Gabriele si arrampicò all’imperiale; il P. Buzelin restò immobile a guardarlo. La vettura si mise in moto. Il gesuita fece un segno a don Gabriele come per dirgli: «Ricordatevene: quistione di vita o di morte!»

Don Gabriele rispose al segno e scomparve.

Note

  1. Si ricordi che siamo nel 1847.