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merato. Ma io auguro alla M. V. parecchi vescovi di quella tempra. Non avremo noi allora a preoccuparci nè delle mene dei rivoluzionarii, nè dell’attitudine del papa, nè degl’invadimenti dell’Austria: la rivoluzione non avrebbe base nel Regno, e V. M. potrebbe tenere contro l’Austria e gli altri principi d’Italia la parte che essi provano di tenere contro la M. V.: — essere il più liberale fra loro ed attirarvi le simpatie degl’italiani, che si agglomereranno un giorno o l’altro intorno ad una dinastia italiana. V. M. non sarebbe più allora il re di uno Stato, ma il re di una nazione.

— Voi divenite visionario, marchese, sclamò il re con aria leggera, accendendo un mozzicone di sigaro spento. Io non sono ambizioso. Io non mi trovo male abbottinato di già con nove milioni di sudditi?

— Sire, si tratta di non farseli strappare. V. M. non dice come Luigi XV: «Basta che ciò duri quanto noi!» Ora, non è questione del presente, ma dell’avvenire.

— L’avvenire riguarda Dio, marchese.... ed il nostro esercito.

— Ahimè! sire, sclamò il marchese, io dirò a V. M. come il cavaliere Folard: "Le potenze d’Europa hanno dei ben cattivi occhialini per non vedere l’uragano che le minaccia!"

— Mi consigliereste voi per avventura di sguinzagliare la grande vague, come Necker chiamava gli Stati generali? Voi vorreste che io accordassi una Carta, per esempio!