Il Re prega/IX
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IX.
La tempesta si addensa.
Bambina restò sotto le armi tutta la giornata seguente; il barone di Sanza non comparve.
Don Diego uscì di buon’ora volendo evitare una spiegazione con sua sorella, e non rientrò che la sera. Egli vide Don Domenico Taffa, lo ringraziò dell’onore che gli aveva compartito, chiedendogli la mano di Bambina; accettò la proposta condizionatamente; dimandò una settimana di tempo per presentarlo a sua sorella, quel tempo essendogli necessario per sciogliere la sua parola col conte di Craco che destinava la giovinetta al barone di Sanza; disse che costui non gli sembrava punto tenero della sua fidanzata: promise che Bambina non andrebbe più a confessarsi.... breve, mischiando vero e falso, accomodò le cose in modo che gli si accordarono di buona grazia alcuni giorni per riflettere. Don Diego voleva penetrare i disegni altrui, dissipare il caos della sua anima e della situazione, scandagliare Bambina, pesare la sua risoluzione.
La serata fu triste e silenziosa. Don Diego trangugiò prestamente la pietanza che, preparate pel desinare, servì di cena. Bambina succhiò qualche ciliegia. Il tempo della miseria rassegnata e lieta della provincia era passato. Essi subivano al presente la miseria preoccupata ed ambiziosa, avvelenata da tentazioni colpevoli e da brame disoneste. Non dissero una parola sul pensiero che li preoccupava, non fecero un’allusione alla lettera della sera precedente: il pensiero del fratello e della sorella nonpertanto non volgeva che su quella. Il filo che metteva in comunicazione questi due esseri era spezzato. E’ si ripiegavano in sè stessi, adesso: ciascuno aveva il suo mondo di visioni a contemplare.
Oppressa da quel silenzio. Bambina andò a coricarsi di buon’ora. Don Diego ronzò pel suo alloggio fino ad un’ora del mattino. Che pensava egli? Egli giudicava la società, in mezzo alla quale e’ viveva, come Regolo nella sua cassa guarnita di punte di ferro.
Alle sette del mattino, udì picchiare. Era una serva con una lettera del canonico Pappasugna, che lo pregava di passare da casa sua, prima delle undici, essendogli stato raccomandato dal padre Piombino.
Bambina non era ancora alzata. Don Diego si vestì ed uscì senza vederla. Bambina aspettò il barone di Sanza fino a mezzodì. Poi, ruppe in lagrime e, senza riflettere a ciò che facesse, un’ora dopo si trovò inginocchiata innanzi al confessionale del padre Piombini. La chiesa immensa del Gesù Nuovo era deserta.
— Io vi aspettava, disse il gesuita.
Questa parola dette a Bambina la coscienza di sè stessa. Un nuovo accesso di lagrime la prese, il singhiozzo la soffocò. Il gesuita provò di consolarla e, parola per parola, frase per frase, le carpì il racconto della lettera di Don Domenico Taffa, del commento del barone Sanza, della sclamazione desolata e terribile di suo fratello, del ritrovo domandato e non ottenuto del giovane conterraneo a cui essa desiderava indirizzarsi per un consiglio.
Il gesuita intravvide un innamorato nel barone di Sanza, e quindi un terribile ostacolo a demolire.
Il colloquio fu tempestoso, quantunque Bambina distratta ed affannata non rispondesse che per monosillabi. Il padre Piombini, esaltandosi per gradi, obbliandosi, cieco, inconsciente quasi, fece in fine esplosione:
— Io ti amo! disse egli con voce strangolata. Sei tu contenta adesso che mi hai strappata questa terribile parola? Perchè sei tu ritornata? Io godeva della pace da parecchi anni. Io credeva che il mio cuore fosse disseccato. Tu vi hai messo tutte le fiamme dell’inferno. Io non sono stato sempre gesuita. Io era il conte Bonvisi. Io fui marito di una donna amata. Io fui alla corte di Vienna ambasciatore del duca di Modena. Io era ricco di un milione.... Io aveva gittato tutto ciò in una tomba. Tutto ciò può risuscitare. Vuoi tu essere mia? Vuoi tu avere pietà di me?
Bambina si alzò e si slanciò fuori la chiesa come una colomba morsicata da un serpente. Era stata ella colpita?
Il barone di Sanza che si presentò da lei verso le cinque, la trovò ancora tutta sconvolta. Ella si guardò bene dal dirgliene la ragione, e, cosa più grave ancora, ella tacque altresì a suo fratello questa visita fatta al gesuita. La devastazione si operava nella sua anima. Ella aveva tanto desiderato l’abboccamento col suo compagno d’infanzia di Lauria, ella aveva provato un’ansietà malaticcia pel ritardo di lui, ed ora che colui era quivi per ascoltarla ella ne sembrava contrariata. Ahimè! Bambina aveva cessato di essere fanciulla e la sua coscienza non era più vergine. Il confessore aveva violata quell’innocenza come un calabrone profana la corolla della rosa. Ah! se le madri avessero il pudore dell’incredulità e dell’empietà, quante più fanciulle entrerebbero nella stanza nuziale col candore dell’infanzia!
— Scusatemi se ieri non mi sono recato al vostro appello, disse il barone di Sanza. Io sospettai perchè avevate desiderato parlarmi e voleva avere qualche cosa a rispondervi.
Questo tuono cerimonioso e solenne mise il colmo al turbamento di Bambina. Ella, che l’anno scorso ancora chiamava il barone corto corto Tiberio, ed egli che le dava del tu! Quale accidente si era dunque rizzato tra loro e li aveva cangiati così? Bambina portò gli occhi sul giovane onde assicurarsi se era proprio lo stesso, che l’anno scorso, alle vacanze, a Lauria, le aveva susurrate di così dolci parole e che aveva aperta alla sua fantasia la porta dei sogni d’oro.
Sì, mia povera figliuola, gli è bene lo stesso individuo, ma non è più la medesima maschera, non è più la medesima scena, non sono più le medesime circostanze. Lo studente in via di divenir diplomatico, che dalla capitale cade in provincia e che incontra nella casa di suo padre questa perla di bellezza e di purità, si sarebbe creduto disonorato se non le avesse spippolato qualche madrigale, — sopra tutto dopo aver passato i begli anni dell’infanzia insieme a cercar nidi, a giuocare a mosca cieca e dar la caccia alle farfalle il giorno ed alle lucciole la sera. Ma a Napoli, ma essendo uno dei lions della moda, ma penetrato di già nel tempio di Iside della carriera diplomatica, ma in faccia alla poveretta affagottata in un astuccio di monachetta, lui, il barone di Sanza, tu la figlia del sarto.... ah! povera figliuola, di’, di’ dunque, è questi il medesimo uomo? Se il barone di Sanza non fosse stato un giovane d’onore, egli avrebbe, tutto al più, divisato di far di Bambina un tastullo d’amore. Ma egli rispettava ciò che suo padre stimava: il carattere del fratello, l’innocenza della sorella.
Tiberio aveva ventitre anni, ma sembrava più attempato. Portava tutta la barba, — quel primo getto della giovinezza, soffice e vellutato, che s’imbeve di sole e corrusca di quel color d’oro tanto caro a Tiziano cui ammiriamo nel ritratto di Carlo V. Aveva occhi verdi, ma vivi, ciò che ne faceva scomparire la fredda ferocia; la pelle bianca lenticchiata, ciò che toglieva alla sua costituzione i sintomi della debolezza. I suoi lineamenti erano belli, somiglianti a quelli di Cesare Borgia. Era alto e ben proporzionato, ciò che aumentava l’eleganza del suo portamento e delle sue maniere. La sua solennità affettata mascherava la lentezza della sua intelligenza, la quale aveva bisogno di riflettere per comprendere. Il suo cuore, anch’esso, si commoveva con calma. La natura lo aveva dotato di un’organizzazione linfatica; ma il barone di Sanza aveva avuto la scaltrezza di farsi un merito di questa opacità e di far passare questa indigenza di vitalità per l’opera della volontà.
La sua istruzione non era estesa, ma era solida. Aveva il giudizio dritto, il sentimento della giustizia, l’amore della libertà, benchè non ripugnasse alla monarchia. I suoi costumi si modellavano su quelli dell’aristocrazia inglese o piuttosto quella parte dell’aristocrazia inglese che si dà alle pubbliche funzioni. Ascoltava bene, conservava il segreto con fedeltà, aveva il coraggio dell’uomo che si stima e che ha la coscienza di fare il suo dovere in tutto ciò che fa. Aveva avuto due duelli con due ufficiali svizzeri, cui aveva feriti. Il mondo lo ricercava. Le giovanette ne almanaccavano come di un buon partito, benchè il barone fosse relativamente povero.
Per isventura, egli non sentiva il bello, — al di là della forma essenzialmente plastica. Avrebbe avuto un’eccellente stoffa di magistrato. Ma gli mancava la penetrazione subita, necessaria, anzi indispensabile al diplomatico. Dava le traveggole però in modo rimarchevole, per la composizione attenta del suo viso ed il riserbo delle sue parole.
Bambina non conosceva questa faccia del suo amico d’infanzia, il quale avrebbe creduto, essendo giovanotto, di derogare se non fosse stato galante. Tanto peggio se Bambina aveva capito altrimenti. Ella si trovava adesso in presenza della disillusione. Ma che importa? lo stupore è l’ostinazione dell’anima.
— Signor barone, disse ella biascicando le parole, vi domando scusa di avervi incomodato. I provinciali hanno una facilità deplorevole ad ingannarsi sulla natura delle convenienze sociali. Io aveva confuso il barone di Sanza di Napoli col Tiberio di Lauria.
Bambina aveva nell’accento un’amarezza che non isfuggì al barone. E’ rispose:
— Confondeteli sempre quando l’uno o l’altro possono rendervi qualche servizio. Io sono venuto per questo.
— Grazie. Io non ho più bisogno di nulla. Voi diceste un motto l’altra sera che gettò il terrore nel mio spirito. Volevo dimandarvi qualche spiegazione per guidarmi nella mia decisione. Adesso ho riflettuto ed ho preso un partito da me sola. Non sono forse ben sola?
— Ne ho paura, replicò il barone. Vostro fratello insorge contro il destino e contro l’ordine naturale delle cose. Egli ha delle ambizioni forse precoci. Egli bazzica con persone spregevoli. Egli vi espone a delle dimande in matrimonio che sono un marchio d’infamia per una giovinetta come voi. Bambina. Egli patteggia col male. Don Lelio Franco ha diffidato forse dei suoi principii e l’ha eliminato pulitamente dal suo ufficio. La polizia non insiste più per rinviarlo da Napoli. Egli....
— Basta, gridò Bambina con alterezza, alzandosi. L’è noto: la sventura e la miseria sono criminose. Se questo disperato si strascina sulle mani e su i piedi per salvarsi dall’oltraggio dell’ingiustizia, egli ha torto: si sospettano le sue vedute, si crivellano le sue parole, si anatomizza la sua anima come un cadavere per osservarvi la causa della morte. Che bisognava fare? Egli si annega. Ha desso il diritto di trovar sporca la mano che si sporge per salvarlo, quando le mani bianche e guantate si ritirano per paura di sporcarsi toccando dei cenci? Povero fratello!
E ruppe in lagrime. Il barone volle prenderle la mano. Ella la ritirò.
— Io non voleva affliggervi, disse il barone dopo un istante di silenzio, ma rischiararvi e spiegarvi il mio riserbo e la mia esplosione poco misurata dell’altra sera. Non mi fate l’ingiustizia di credermi indifferente al vostro destino.
— Il mio destino è nelle mani di Dio. E’ non mi resta che lui. Un giorno io ebbi forse l’ingenuità di sognare che un altro se ne sarebbe incaricato. Ho abbandonato quel delirio. Noi lottiamo tutti per nostro proprio conto.
— Se è un rimprovero che m’indirizzate, signorina, io temo forte ch’esso non sia ingiusto. Tra i sentimenti che noi proviamo, veri, profondi, santi, ed il soddisfacimento che possiamo dar loro, si frappone il mondo con le sue esigenze, le sue regole e le sue convenienze. Tiberio esiste sempre, ma egli è subordinato al barone di Sanza ed alla società che lo attornia. Ve lo confesso in tutta sincerità: io non ho trovato sul mio cammino della vita alcuna giovinetta più bella, più pura di voi. Nessuna delle fanciulle che ho strette sul mio cuore al ballo, a cui ho indirizzato una parola in società, non m’ha tocco più di voi. Io non amerò forse giammai una donna, poichè non ne incontro alcuna che vi rassomigli. Ma io sarò forse obbligato di rinunziare alla felicità che ha incantati tanti giorni della mia vita.
— Voi mi renderete giustizia, almeno, sclamò Bambina, che io non ho nulla fatto nè per darvi nè per togliervi codesta felicità.
— Io vi rendo questa giustizia. Voi non siete nè civetta nè ambiziosa. La fantasia può esaltarvi; ma voi ignorate il calcolo. Voi non avete dunque nulla a rimproverarvi, e voi non mi rimprovererete nulla, voglio lusingarmi con questa speranza, quando saprete la situazione precaria in cui vivo, in cui parecchi fra noi vivono. Io sono impegnato in una mischia terribile, nella quale giuoco tutto, fortuna, avvenire, vita e felicità. Io non mi appartengo più. Che io esiti solamente e sono disonorato. Qualunque distrazione è un tradimento. Posso io, di’ Bambina, Bambina dei giorni raggianti della nostra infanzia, posso io caricarmi dei destini di una donna, nel cratere di questo vulcano? Io non aggiungo altro. Ho forse il torto di averne già troppo detto. Ciò che succederà all’indomani del trionfo o all’indomani della dirotta, Dio solo lo sa. Ma dirotta o trionfo che la sorte ci appresti, un abisso ci separa. Tu non puoi essere nè la moglie di un forzato, nè quella d’un ambasciatore.
— Perchè no, la moglie di un forzato? replicò Bambina.
— Perchè ti offrirebbero la vita, la libertà dì tuo marito in cambio del tuo onore, e che tu l’ameresti troppo per non trovarne il cambio esorbitante.
Seguì un momento di silenzio. Bambina intravide un altro aspetto della vita. Ella non osò quindi domandare: Perchè no la moglie di un ambasciadore, poichè ambasciadore vi è? Rispose invece in tuono umile:
— Io mi rassegno; e non è un merito, avendo mai sempre sperato sì poco. Solamente, ve ne scongiuro, non mi lasciate nel vago. Voi avete accusato mio fratello e l’uomo che domanda sposarmi. Formulate le vostre accuse. Io debbo pigliare un partito.
— Ebbene, non precipitate nulla. Gli avvenimenti incalzano ed essi vi rischiareranno. Quel Don Domenico Taffa è un miserabile senza dubbio. Ma egli vi ha vista; perchè non si sarebbe egli violentemente acceso di voi poichè altri lo furono?
— Infatti! sclamò Bambina sorridendo con amarezza.
— Se il suo amore è vero, egli persisterà, continuò Tiberio, deciso a non comprendere le illusioni di Bambina. D’altronde io lo farò sorvegliare.
— Che tristo mestiere! proruppe Bambina. I birri ci sorvegliano per salvare la società; son dessi meno orridi per ciò?
— Allora, io mi asterrò. Quanto a vostro fratello....
— Ah! fate attenzione....
— Quanto a vostro fratello, si diffida di lui. Il suo pensiero è malato: le sue tendenze non sono buone. Ma alcun atto, fin qui, non è stato allegato contro di lui. Io lo difendo ancora. Il suo carattere fosco, la sua aria incerta, il suo approccio poco simpatico, la sua timidezza, giustificatissima del resto, possono occasionare qualche equivoco. Ciò è di già troppo al suo posto. Tutto ciò, preso insieme, gli nuoce, vi nuoce, m’impone una grande circospezione. Voi vedete allora. Bambina, perchè....
— M’avendo detto l’anno scorso: io ti amo! interruppe Bambina, voi mi dite quest’anno: tu non puoi essere la moglie nè di un forzato nè di un ambasciatore! Il cuore non ha nulla a vedere lì dentro, non è vero? Perchè codesto monello si mette desso ad amare senza consultare l’almanacco di Gotha ed il termometro politico? Correre il rischio di amare la sorella di una spia? orrore! Ebbene, signor barone, davvero, quando voi sarete ministro, bisognerà stabilire un lazzaretto per i cuori nella situazione... del mio. Vi si vedrà chiaro almeno, dopo aver purgata la contumacia. Ma non parliamo più di ciò. La questione è esaurita. Io sono libera.
— Della calma, Bambina, della calma, disse Tiberio alzandosi. Non si gettano gli amici dalla finestra con tanta leggerezza, per un dispetto inopportuno. Mia madre e mio padre vi amano; io vi ho sempre cara più che sorella. Malgrado il vostro risentimento io m’interesserò dunque a voi. In tutte le peripezie della vita, voi non avete che a dire una parola per vedermi presso di voi. Non ci diciamo addio dunque. D’altronde io ho il convincimento che i sospetti che sorgono contro vostro fratello, si dissiperanno.
— Non una parola di più su mio fratello, ve ne supplico. Torturatemi tanto che vi piace, ma non sporcate, neppure col pensiero, questo sventurato che lotta in mezzo al naufragio. Voi non eravate crudele un tempo. Parlategli, spiegatevi con lui, dimandategli ragione della sua vita, della sua anima, scandagliate quel cuore che è un abisso di dolore. Ei non vi nasconderà nulla.
— No, figliuola mia, ciò non si può. Io non sono il suo giudice d’istruzione. Io vi ho riferite, come un fratello a sua sorella, le terribili insinuazioni che corrono sul suo conto. L’avvenire lo giudicherà, ne son certo. Ma io non posso dimandargli ch’ei si difenda. Dovrei cominciare per significargli i suoi accusatori ed i suoi giudici, — ciò che io non posso. Nel nostro partito, noi giudichiamo gli atti. Ebbene, ch’egli cessi di frequentare Don Domenico Taffa e di mandarvi a prostituire l’anima al confessionale di un gesuita.
Quest’ultima parola cadde come il fulmine sul capo di Bambina. Ella divenne cadavericamente pallida, ed articolò appena le parole:
— Addio, Tiberio.
— No, cara piccola sorella, a rivederci. Mia madre piangerebbe dei vostri guai come dei miei.
— Oh! ditele, ditele pure, gridò Bambina piangendo, che io l’abbraccio dal fondo del cuore.
— Io le manderò questo bacio, rispose Tiberio, baciandole castamente la fronte.
Ed uscì. Bambina sentì come qualche cosa che si spezzava in lei. Il cielo radioso della sua infanzia e della sua adolescenza si tinse di nero. Più nulla indietro di lei; innanzi a lei, il fantasma mostruoso dell’infinito. Ella restò parecchie ore in quello stato di ammutolimento, senza pensare, ma provando mille dolori invisibili ed incogniti, come se avesse galleggiato in un’atmosfera in cui ogni molecola è una punta d’ago. Il grido disperato del gesuita e l’addio di Tiberio si precipitarono sopra di lei come due flutti spaventevoli che la faceano roteare a guisa di un granello di sabbia preso in una tromba nel deserto. Ella avrebbe pregato, se glielo avessero insegnato.
Povera fanciulla, il turbine scherza con un bricciolo di lolla!
Don Diego entrò.