Il Re prega/X
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X.
L’esplosione.
— Tu vai a spiegarti, non è vero? gridò Bambina gittandosi al collo di suo fratello. Tu mi proverai che ciò è falso, non è vero?
Don Diego si trovava nella situazione di spirito la più dolorosa e la più contrastata. Aveva subìti nuovi affronti e nuovi disinganni.
Dopo aver lavorato tutto un giorno ed aver messo a luce un capolavoro sotto le strette della disperazione, un balordo gli aveva dichiarato che la sua elucubrazione era un’assurdità. Il canonico Pappasugna, a cui il gesuita l’aveva raccomandato, gli aveva dimandato un panegirico sull’Ascensione. La cosa urgeva. Don Diego si era rinchiuso nel gabinetto del canonico ed aveva composto un magnifico pezzo di eloquenza pieno d’imagini nuove e poetiche. Egli aveva seguito di pianeta in pianeta, di stella in stella, d’empireo in empireo, il Cristo ancor uomo che si eleva nei cieli sur uno strano veicolo, perde a poco a poco la vista del suolo, percorre gli spazi infiniti seminati d’astri e scorge infine Dio, — l’immensa armonia, — come il centro di queste armonie... Ma non uno dei luoghi comuni stupidi, consacrato dalla rettorica dei vecchi predicatori, non una parola di teologia, nessuna trivialità.
Il canonico non aveva gustato la novità, riserbandosi nondimeno di apprendere e di recitare il panegirico e di giudicarlo in ultimo appello dall’effetto che produrrebbe sull’uditorio, il 21 maggio prossimo. Ei non aveva pagato il prete di cui si appropriava il lavoro. Ne aveva criticato l’ortodossìa, la lingua, lo stile, le imagini scientifiche e laiche, le ali dell’ode che aveva date al discorso. Vivamente contrariato, Don Diego aveva lasciato il canonico senza salutarlo, ridendogli sul muso con sprezzo e dichiarandogli ch’egli non lavorerebbe mai più per lui, ad alcun prezzo. Nella strada, egli era stato urtato da un birro, che lo aveva poscia inseguito ed apostrofato coprendolo di villanie. Al canto del vicolo una giovane donna in cenci, dimandandogli l’elemosina con ansietà febbrile, gli aveva detto:
— Voi siete felice, soccorrete la miseria!
Tutto ciò aveva portato l’esasperazione di Don Diego al diapason della rabbia. La bordata con cui Bambina l’accolse arrivava male a proposito. Ad ogni modo, non la comprese, poichè dimandò:
— Spiegare che cosa? provare che cosa?
— Ma, bontà di Dio? essi dicono che tu sei un traditore, una spia, che so ancora? e che tu mi vendi.
La misura traboccava. Don Diego si fermò di un tratto, prese sua sorella dalle due spalle, l’inchiodò sul luogo, fissò su di lei due occhi elettrici iniettati di sangue ed urlò:
— Chi? chi dice ciò?
Bambina non aveva giammai visto suo fratello in uno stato simile d’eccitamento. Ella tremò e balbuziò, non volendo tradire il segreto della visita di Tiberio, come gli nascondeva pure la sua visita al gesuita.
— Lo si dice... la città ne parla... una lettera anonima che ho gettata al fuoco... qualcuno che mi ha avvicinata in istrada..., infine, l’è così: ti sospettano.
— Sciocca! tu hai visto il barone di Sanza, rispose Don Diego, lasciando sua sorella che piegava sotto la sua pressura. Non mentire: tu l’hai visto. Ebbene, sia.
— È dunque vero?
— Non lo è ancora, ma lo sarà.
— Oh fratello, fratello! gridò Bambina singhiozzando.
— Silenzio, bimba. Non son io che l’ho voluto; non sei tu che l’hai provocato: l’abisso invoca l’abisso; ebbene cadiamoci.
— Tu mi riempi di terrore.
— Stolidezze! Noi siamo in questa città una eccezione balorda, e vi facciamo scandalo. Ecco perchè, non potendoci accusare, ci sospettano. Che ci accusino allora, e tocchiamo almeno il prezzo dell’infamia, poichè ce ne affusolano la livrea. Ah! io tradisco? ah! io ti vendo? Dio e fulmini! sia. Io tradirò e ti venderò.
— Tu deliri, dunque, Diego?
— No. Io ho delirato fin qui, quando ho creduto che l’onore e la virtù avessero un prezzo presso gli uomini, quando ho pensato che la miseria poteva essere una sventura e non il bersaglio agli oltraggi. Io comincio a ragionare alla fine. Io frango il mio guscio di provincia. Io sputo sulle mie idee barocche di probità e di fedeltà. Io mi burlo del vecchio guazzabuglio della distinzione del bene e del male, che io aveva appreso dai filosofi, nella storia e nella vita. Voi lo volete? ebbene, io sarò come voi: a briganti, brigante e mezzo.
— Ah! Diego, se nostro padre e nostra madre sorgessero dalla fossa e ti udissero!
— E’ comprenderebbero perchè sono crepati, l’uno sarto tisico, l’altra tessitrice alla giornata, per rammollimento della midolla spinale. Io, io morrò vescovo; tu, tu morrai grande e ricca dama.
— Ma chi dunque ti ha pervertito così in qualche ore?
— Essi, essi! per Dio! Io non avrei dimandato nulla di meglio che di restar tranquillo e miserabile nel fondo della mia provincia, nella nostra povera casa, vivendo nel mondo ideale dei libri, reprimendo l’ambizione, i desiderii, i bisogni, facendomi oscuro e piccolo, sorvegliando il tuo candore e non sperando null’altro in vita mia che vederti maritata ad un artigiano laborioso come i nostri parenti. Chi è che mi ha sbarbato da quella terra madrigna, da quella casa crollante, dal suo onesto focolaio? Chi è che ci ha trasportati qui? Un vescovo, il quale, col medesimo colpo, mi strappa il pane dalla bocca, l’onore, la pace, il presente per me, l’avvenire per te.
— Ah! gli è pur vero! balbettò Bambina.
— Qui, io avrei ben voluto vivere del mio lavoro, del mio mestiere, fare il mio dovere nell’oscurità, darti il pane, il ricovero, la prosperità, la gioia del cuore, la pace per il momento... Chi è che si è gittato a traverso del mio cammino? La polizia. Tu non dirai la messa; tu non insegnerai; tu resterai perpetuamente sotto i nostri artigli; tu denunzierai; tu prostituirai tua sorella; tu farai getto della tua anima; tu propagherai la corruzione nel popolo; tu spierai i guaiti dell’infortunio e ne formulerai un rapporto per il ministro della polizia... ecco! Voglio io resistere? mi si tende una trappola ove noi cadiamo senza onore, feriti, gualciti, infamati anzi tratto, dileggiati, soli, sotto i piedi di accusatori infami. Voglio io lottare? non ho armi.
— Mio Dio, mio Dio! che abbiam dunque noi fatto a Dio, che ci tratta così?
— Lasciamo Dio e pensiamo agli uomini. Son dessi che fanno il male, ed è ad essi che occorre renderlo.
— No, no: restiamo vittime, sclamò Bambina. Sovvienti, Diego, delle parole di nostra madre, accanto al nostro povero fuoco, quand’ella non poteva più lavorare: Coraggio, figli miei, diceva la povera donna, Dio non paga il sabato.
— Nè la domenica, nè il lunedì, nè alcun giorno della settimana.... Io attendo il mio salario da quarant’anni. Giammai. Il dado è gettato. Io voglio esser vescovo. Io l’ho promesso a mons. Laudisio. Io me lo son giurato. Mi domandano seimila ducati. Non li ho, non li avrò mai a meno che non vada ad arruolarmi come brigante nella banda di Talarico. Se io avessi un segreto di Stato a mettere a partito, — uno di quei segreti che fanno marciare i complici, che s’impongono al re, di cui si traffica come d’un diamante, quando il coltello od il veleno non saldano la reale riconoscenza... — Ah! se io avessi un segreto di questa natura... io forzerei il pastorale a venirsi a collocare fra le mie mani. Ma non vi sono che i ministri ed i grandi confessori che posseggono di cotesti segreti, ed essi ne usano per loro proprio conto. Che mi rimane allora? Te, Bambina, te mia pura, bella, fragile e santa creatura.
— Me! e come? sarebbe dunque possibile? sarebbe dunque vero?
— Ascoltami bene, figlia mia. Io ho capito infine il gioco di quel Don Domenico Taffa che ti domanda in matrimonio. Il barone di Sanza aveva ragione. Egli è un uomo infame, un ambizioso abbietto, e che vuol essere segretario generale o consigliere di Stato e che trafficherebbe di te per il suo unico profitto. Ed io! io resterei gocciolone come prima.
— Avevan dunque ragione?
— Avevan ragione, ma s’ingannavano su questo: poichè bisogna assolutamente che tu sii il prezzo dell’ambizione di qualcuno, tu lo sarai della mia.
— Diego! no, non sei mica tu che parli così.
— Son io, proprio io. Io sono deciso e tu mi salverai, Bambina. Io non so troppo ancora ciò che farò. Io mi aggiro come un cieco in mezzo di quest’orrido mondo, mi smarrisco. Io non conosco ancora la via dell’infamia dorata, vado a tastoni, scandaglio... Ma, sii tranquilla; finirò per orientarmi. Solo, non posso nulla. Poi, un uomo che cade, cade per sempre; la sua perdita è irreparabile; il tempo lo sprofonda sempre più, nulla nè alcuno non lo rilevano. La macchia dell’uomo è incancellabile: la porpora di re o di cardinale, i ciondoli di diamanti, la mozzetta di papa, la livrea di ministro, l’uniforme di generale... nulla vale! l’infame resta infame. Se i contemporanei taccionsi, la posterità grida con tanta più veemenza. Io mi perderei con un profitto minimo e lo spettro del mio delitto m’avvilupperebbe del suo eterno riflesso. Gli stolidi! E’ paventano ch’io li tradisca? Ho troppo spirito per non precipitare sì a fondo, per non darmi a mercè per così poco. Io penso, al contrario, impormi loro e soppannarne la mia fortuna.
— Tu mi sollevi di un gran peso, Diego, sclamò Bambina. Rinunzia però al resto.
— No, Bambina, tu non mi abbandonerai nel mio naufragio. Tu sola, tu puoi salvarmi, salvarci. La caduta di una donna non lascia tracce indelebili. Si ha pietà di lei. Si obblia, si perdona, si compatisce, si spiega l’infortunio, lo si circonda di tutte le circostanze attenuanti... Poi, un marito si presenta e tutto s’ingoia in quel baratro che assorbe la donna, che ne cancella perfino il nome. Questa tavola di marmo, allogata sur una cloaca, la cangia in altare.
— E la coscienza?
— Non parlare di ciò che tu ignori, fanciulla. La coscienza non è il pentimento, ma il rimpianto. Ora, tu non hai nulla a rimpiangere. Tu soccombi, tu ti sacrifichi, tu mi salvi..., il tuo cuore, i tuoi sensi, la tua volontà, la tua scelta, il tuo piacimento..., e’ non vi sarà nulla del tuo. Che rimpiangeresti tu dunque? Ma una vita nuova ti sorriderebbe. Io lavorerei per te, per costituirti una dote. Io risparmierei. Brillerei. Avrei dello zelo.... Sorella di un vescovo! dotata della tua bellezza! all’età tua! sotto un altro cielo! Bambina, il tuo cuore si aprirà. Tu amerai. Tu potrai pretendere a tutto. Un giorno di lutto e di sacrifizio sarà presto obbliato: il sole dell’avvenire l’assorbirà. La colpa... l’è poi una colpa? si perderà nel silenzio.
— Cessa Diego: tu mi fai orrore! urlò Bambina coprendosi la faccia delle mani.
— Bambina, te ne scongiuro a ginocchio, non lasciarmi solo a portar questa croce. Non sono io che vi ho pensato il primo. Non sono io che ti forzerei se fossi sicuro che potremmo sottrarci a questo destino. E’ son tutti congiurati contro noi, contro te. Il tuo barone di Sanza v’intingerebbe il dito. La polizia ci spinge, il vescovo ci spiana la via, Don Domenico Taffa c’invita, il tuo gesuita ti attira e ti prepara alla caduta... fino a monsignor Cocle sarebbe della partita, per quanto mi è sembrato comprendere dal discorso del capo di ripartimento. Possiamo noi sottrarci a questa marea di fango che ci assedia da tutti i lati, che c’inonda e che ci coprirà infallibilmente? Colpevoli e balordi ad un tempo! Ah! no, no, giammai. Io voglio cader nella fogna, ma su i miei piedi, non esservi precipitato la testa in giù.
— Oh madre mia, madre mia, gridò Bambina, non udire tuo figlio a quest’ora di demenza: e’ non sa ciò che dice.
— Ahimè! e’ non lo sa che troppo. E se tu potessi leggere nel mio cuore, io non ti farei orrore, ma pietà. Come? io ti avrei sorvegliata piccina, ti avrei guardata giovinetta, sarei stato per tanti anni fiero della tua bellezza, della tua innocenza, sarei stato geloso della brezza che folleggiava nei tuoi capegli, avrei fremuto contro il vento che scomponeva le pieghe della tua gonna, avrei spiato il tuo sonno, avrei letto nella tua anima, avrei ascoltato i battiti del tuo cuore per sorprendervi lo sveglio della donna, per circondarti delle mie cure, e tu puoi pensare che io ti consegnerei delle mie proprie mani, senza sentirmi schiacciare sotto il peso del cielo e della terra? Come? tu che mi hai visto impallidire leggendo la istoria del padre di Ifigenia, tu credi che io non morrei di dolore sapendo che tal giorno, alla tale ora.... Bambina, cara figliuola, cara sorella, avvelenami. Io sono un mostro.
— No, fratello: è una terribile ubbriachezza che tu traversi in questo momento. Ritorna in te; calmati. Se tu sapessi quanto io t’amo! se tu sapessi quanto ti compiango....!
— Ma non comprendi tu dunque che ciò ch’io ti domando è inevitabile? Che io mi astenga, e altri commetteranno il delitto egualmente ed a loro profitto esclusivo. Tu non comprendi che l’è decisa? Io mi contorco da due giorni a pensare come sfuggire la rete: e mi trovo impossente. Io mi aspetto ad ogni minuto esser ciuffato dalla polizia, e te... alla loro mercè! Dovunque, l’uomo si appartiene più o meno; qui, in questo infame paese, sotto questo governo, negazione di Dio, l’uomo appartiene alla polizia. Che voglio io insomma? prevenirli. Ah! se potessimo fuggire all’estero! Io mi sento abbattuto, atterrito...
— Mio Dio, mio Dio! ma infine che vuoi tu! dimandò Bambina gittandosi alle ginocchia di suo fratello.
— Io l’ignoro ancora, io stesso, te l’ho detto. Ma vi è una cosa a cui io sono deciso: esser carnefice piuttosto che vittima, avere un prezzo dell’infamia, poichè non posso evitarla. Vescovo! io voglio esser vescovo: bisogna che io mi vendichi. — M’hai tu capito?
Bambina se ne fuggì nella sua camera e vi si chiuse a chiave. Ella pianse e pregò tutta la notte, mentre che suo fratello, spossato dalla sua tensione di spirito sì violenta, sì continua e diversa, cadeva sopra il canapè come un ebbro fradicio e vi si addormiva. Ei passò la notte così.
Quando il giorno imbianchì i vetri del salone, ei si svegliò, e dopo alcuni minuti di stupore, si risovvenne della strana conversazione che aveva avuto la sera con sua sorella. Arrossì e levò gli occhi indegnati contro il cielo. Chi malediceva egli? Era ancora tutto vestito. Tuffò il capo in un secchio di acqua per rinfrescarlo, perchè la sua fronte bruciava di febbre e provò di coordinare le sue idee. La rivelazione era fatta: il più difficile. Egli aveva gettato la goccia d’olio che ora andava a spandersi ed allargarsi da solo. Che bisogno aveva egli d’insistere fino al momento della catastrofe? Ma, altresì, come subire lo sguardo ancora puro della vittima cui aveva colpito a morte la vigilia appena, senza temperamenti, senza ambiguità, senza pietà, leccando di una lingua avvelenata il sangue cui vedeva spuntare? Don Diego si affrettò ad uscire di casa, prima che sua sorella si fosse alzata, onde non arrossire innanzi di lei, non attenuar la portata dei suoi propositi nè tornarvi su.
Bambina l’udì uscire. Erano le otto del mattino, Ella non aveva dormito un sol minuto in tutta la notte. Aveva pianto molto; virilmente riflettuto. La sua risoluzione era presa. La situazione, d’altronde, non ammetteva ritardi. Non aveva nulla a sperare. Se avesse avuto un carattere meno ben temprato, l’era perduta. Imperciocchè, a traverso i soprassalti del lungo perorare di suo fratello ella aveva scorto la persistenza nel suo disegno. Bambina si alzò dunque subitamente ed uscì.
Se il P. Piombini non l’avesse, il dì innanzi, spaventata colla sua dichiarazione disperata, ella sarebbe andata a cadere ai suoi piedi e dimandargli soccorso. Adesso, ritornare a lui, e’ sarebbe stato come un gittarsi nelle sue braccia, alla mercè di lui. Chi le restava?
Il barone di Sanza aveva lacerata malabilmente la tela incantata dei suoi sogni delle notti d’inverno, ma egli rimaneva ancora onesto, anche nel suo ridicolo. Poi, Bambina non conosceva alcun altro. Poi, Tiberio, quantunque sì bruscamente estirpato dal suo cuore, vi lasciava ancora le impronte di un passato che mai non si cancella, — la confidente famigliarità dell’infanzia. Bambina si recò da lui, non preoccupandosi neppure se ciò fosse o no convenevole.
Il barone di Sanza occupava un elegante piccolo appartamento nella salita Santo Spirito. Un vecchio cameriere piemontese, per nome Carlo, lo serviva da parecchi anni. Tiberio pranzava al caffè. Carlo conosceva Bambina, avendo accompagnato il suo padrone a Lauria, ed era lui che aveva scoperto il famoso appartamento cui Don Diego occupava in questo momento. Egli annunziò Bambina al suo padrone, che faceva colazione, con un certo mistero e non senza stupore. Tiberio fece entrare Bambina nel salone e corse a lei, dubitandosi che una disgrazia, una grandissima disgrazia, fosse già occorsa.
— Salvatemi! gridò Bambina, vedendolo e correndo al suo incontro senza preoccuparsi della presenza del domestico.
— Salvarvi di che? di chi? sclamò Tiberio.
— Non m’interrogate, ve ne supplico, continuò la giovinetta. Io non posso darvi alcuna spiegazione. Solamente, fate in guisa che qualunque traccia di me sia perduta per qualche tempo.
Tiberio stette qualche minuto a riflettere, poi disse:
— Comprendo tutto. Io aveva ben ragione di temere. Ebbene, siate calma, signorina, e rassicuratevi. Io conosco il ricovero che conviene. Sono sicuro che non vi sarà rifiutato. Solo, e’ conviene che io vada a prevenire quella dama del servizio che le domando, o piuttosto che le dimandiamo, perchè io vado all’istante dal marchese di Tregle per condurlo meco.
— Io mi getto nelle vostre braccia come in quelle di mia madre: Dio ve lo renderà.
— Aspettatemi qui, disse il barone, infrattanto Carlo vi servirà da asciolvere. Verremo a prendervi.
— No, rispose Bambina. Bisogna che io ritorni in casa per l’ultima volta, poichè siete sicuro di procurarmi un ricovero. Ho della biancheria da prendere; ho una lettera da scrivere. Poi, ritornerò.
Bambina partì. Il barone uscì, guardando Carlo in certo modo e mettendo l’indice della sua mano a traverso le labbra per significare: Silenzio!
Bambina rientrò. Suo fratello non vi era. Ella fece un piccolo fagotto di biancheria, poi scrisse le linee seguenti:
«Caro fratello, non essere inquieto della mia sorte, nè fare delle ricerche per trovarmi. Io ritornerò quando la bufera sarà calma. Io non ho collera contro di te. Perdonami. Che nostra madre sorvegli dall’alto dei cieli i nostri passi in questo deserto; ch’ella addolcisca i tuoi cordogli e secchi le tue lagrime. Addio... no, a rivederci presto, caro, caro fratello. Perdonami, se per la prima volta in mia vita io ho dubitato di te. Tu sei malato. La vertigine ti porta negli spazi del male. A rivederci;... a bentosto... Bambina.»
Bambina suggellò la lettera e la collocò bene in vista sulla tavola. Ella poggiò le sue labbra sul suggello e la carta sul cuore. Le sue mani tremavano. Le sue gambe barcollavano. I suoi occhi erano ripieni di grosse lagrime che si gonfiavano, si spandevano e non colavano.
Ella entrò nella camera di suo fratello ed abbracciò gli origlieri del suo letto confidenti di tante ansietà, di tante agonie. E la accomodò il letto, i mobili, riempì la brocca, preparò le pantofole, la vecchia giubba che gli serviva di veste da camera, cucì un bottone ad una camicia. Poi fece il giro dell’appartamento. Il suo cuore se ne volava fibra a fibra. Per la seconda volta ella abbandonava quella sacra cosa che chiamasi il focolare domestico. Quell’orribile luogo le sembrava quasi una residenza reale. Tutto le ricordava la presenza di suo fratello, il quale, per lei, era tutto. Al di là di quella soglia l’incognito, la solitudine! Diciotto anni di vita si sbarbicavano dal suo cuore, svellendosi da quella casa. Che diventerà egli, il povero uomo abbandonato! Che diventerà anch’ella, questa povera foglia svelta dalla sua quercia natia? Questa cucina senza fuoco! questa dispensa, vuota! Questo fosco eterno! Questo spazio senza eco! Egli non vivrà più che di pan secco. La polvere lo soffocherà. Nessuno che attenda al suo ritorno e medichi le sue ferite. Che vuoto immenso! Che silenzio solitario ed interminabile!
Ella chiuse la porta della camera da letto per non più guardarvi dentro. Eccola nell’anticamera. Ancora uno sguardo Una lagrima ancora. E la mise al suo posto una sedia, che poteva urtarlo, se rientrava al buio. La sua mano era al lucchetto. Un passo indietro. Un momento d’esitazione suprema. Uno sforzo sublime. La porta si apre. La porta è chiusa. Ella è fuori. Più nulla! Nulla più! Sola! Dove va dessa? Ella si ferma. Rientriamo, sì rientriamo. No. Uno sforzo disperato. Ella discende precipitosamente le scale ed eccola nelle strade.
Un’ora dopo, assisa nell’elegante carrozza del marchese di Tregle, questi a lato di lei, il barone di Sanza in faccia, i cristalli della carrozza chiusi, traversarono la strada di Toledo, il largo Mercatello, la salita degli Studi, l’Infrascata, Tarsia, e si diressero al Vomero alla villa Belvedere.
Che cosa divina il cielo azzurro di quel paese! Che primavera radiante! Che epopea canta la natura sotto i baci dell’amore! Che ville, che fiori, uccelli, insetti iridati, brezze imbalsamate, mare di cobalto! quante memorie solcano quel golfo!.... E l’uomo?
Continuiamo.