Il Re della Prateria/Parte seconda/1. La guida messicana
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Capitolo Primo.
La guida messicana.
— Il marchese don Inigo Mendoza de Cabrera?
— Sono io!
— Io sono l’uomo che avete fatto chiamare, señor.
— La guida Garcia Sanchez?
— In persona, signor marchese.
— Voi adunque conoscete il Territorio Indiano?
— L’ho attraversato più di venti volte, alla testa delle carovane di trafficanti.
— Vi sono note tutte le tribù che abitano le grandi praterie?
— Le conosco, caballero.
— Anche quelle degli Apaches?
— Forse meglio di quelle dei Comanci e degli Arrapahoe.
— E non avete paura degli Indiani? —
Un sorriso sdegnoso sfiorò le labbra di quell’uomo, che si chiamava Garcia Sanchez.
— Non li temo, — disse poi.
— Eppure si dice che sono crudelissimi.
— È vero, señor.
— Che strappano la capigliatura ai vinti.
— Anche questo è vero.
— Che legano i prigionieri al palo di tortura, e che li martirizzano con mezzi diabolici.
— Purtroppo! Ma io non li temo gl’indiani, quantunque siano feroci, spietati e coraggiosi.
— Ed osereste guidarmi nel loro territorio?
— Se al señor marchese così piace, sono pronto.
— Accomodatevi e discorreremo. —
Il marchese Inigo Mendoza e Garcia Sanchez sedettero dinanzi ad una rozza tavola, sulla quale si vedevano due bottiglie. Il primo empì due bicchieri e ne porse uno al nuovo arrivato, che si mise a centellinarlo con viva soddisfazione mormorando:
— È vero vino di Spagna, da due dollari alla bottiglia. —
Poi deposero entrambi il bicchiere e per alcuni istanti si guardarono in silenzio.
Il marchese Mendoza era un uomo sui cinquant’anni, coi capelli bianchi, la fronte coperta di rughe precoci, ma gli occhi ancora vivi, brillanti, nei quali si leggeva dover egli essere un uomo di molta energia e di molta tenacità, a malgrado degli anni.
Indossava un semplice abito da viaggio, metà europeo e metà brasiliano, che faceva risaltare le sue forme ancora vigorose e svelte.
L’altro invece, era una specie di granatiere, un pezzo d’uomo alto quasi sei piedi, di forme massicce, con ampio torace, di muscolatura potente, un vero tipo di avventuriero o di scorridore di prateria. Non poteva avere più di trentacinque anni, quantunque i suoi lunghi capelli, che gli cadevano in pittoresco disordine sulle larghe spalle, fossero qua e là brizzolati, e il suo viso, assai abbronzato, mostrasse pure qualche ruga.
Il modo di vestire indicava, anche a prima vista, il suo pericoloso mestiere.
Portava sul capo un berretto di pelle di volpe azzurra; in dosso una camicia di flanella rossa, chiusa al collo da una larga ciarpa di seta nera, e un giubbetto di tela greggia, arabescato da cordoni azzurri e stretto ai fianchi da una cintura di pelle di daino, e pantaloni di grosso panno, stretti fra grandi uose per difendere le gambe dalle erbe spinose e dal morso dei serpenti.
Ad armacollo teneva un lungo fucile, di quelli usati dai cacciatori di prateria, che chiamansi rifle; alla cintura portava due pesanti pistole di grosso calibro, e uno di quei coltelli messicani, con lama lunga e a forma di spada, che si chiamano machetti.
In tutto l’insieme si capiva che quell’uomo, oltre essere dotato di una forza non comune, di una agilità estrema malgrado la sua statura e di una resistenza incalcolabile, era rotto a tutte le avventure, coraggioso fino alla temerità e pronto a venire alle mani, sia cogli Indiani che colle fiere delle grandi praterie.
— Dunque voi non temete gl’Indiani, — riprese il marchese, che pareva soddisfatto del suo esame.
— No, caballero, — rispose la guida.
— Sareste disposto a guidarmi nei territori degli Apaches?
— Purchè il signore lo desideri, sono pronto.
— Sapete dove si trovano quelle tribù?
— Sì, caballero: errano fra il Rio San Juan e il Rio Verde, spingendo le loro escursioni fino al Rio Virgin e ai monti Wahasat.
— Conoscete la Sierra Carriso?
— Sì, si stende fra il San Juan e il Rio Gothic.
— E il Rio Chelle?
— Anche; è un affluente del San Juan e nasce sui pendii della Sierra Tuneka.
— Vedo, con molto piacere, che voi avete una profonda conoscenza di quei luoghi.
— Lo credo, — disse la guida, con un certo orgoglio. — Sono stato parecchi anni, oltre che conduttore di carovane, indian-agent.
— Cosa sono questi indian-agent?
— Specie di intermediari fra le tribù indiane e i trafficanti americani o messicani.
— Gl’Indiani vi conoscono adunque?
— Alcune tribù sì, e non mi rivedrebbero con dispiacere, quantunque non ci sia da fidarsi di quei selvaggi, che oggi sono vostri amici e domani acerrimi nemici.
— Sapete per quale motivo vi ho fatto chiamare?
— Per condurvi nelle grandi praterie dell’est, mi ha detto il vostro albergatore.
— Ma ignorate il motivo che mi spinge colà.
— Lo ignoro, señor.
— Vado a cercare un giovanotto, rapito dieci anni sono. —
Sanchez depose il bicchiere che stava vuotando, e guardò il marchese con stupore.
— Andate a cercare un giovanotto, rapito dieci anni fa! — esclamò.
— Mio nipote.
— Ma... siete messicano voi?
— Brasiliano.
— Avevate qualche fattoria presso la frontiera dell’Utah o dell’Arizona o del Nuovo Messico?
— No, la mia fattoria era nel Brasile.
— Forse vostro nipote ha lasciato il Brasile per recarsi qui?
— No, è stato rapito nella sua fattoria che, come vi ho detto, è situata nel Brasile. —
La guida lo guardò con crescente stupore e parve che si chiedesse, se aveva da fare con un pazzo o con un originale.
— Eh via! — esclamò. — Voi volete scherzare, caballero.
— Non ischerzo. Mio nipote è stato rapito nel Brasile e condotto fra gli Apaches.
— Ma in qual modo? Io non vi comprendo, signor marchese, e non so spiegare come quei selvaggi, che vivono fra le solitudini dell’est, che non hanno mai saputo che esistono altri popoli fuorchè i messicani e gli yankees degli Stati Uniti, e che ignorano perfino l’esistenza del mare, abbiano mandato dei guerrieri a rapire un giovanotto, mentre hanno dei prigionieri in abbondanza, tanti da non saperne talvolta cosa farne e da ucciderli per non mantenerli inutilmente.
— Mi spiegherò, Sanchez. Vuotate un altro bicchiere e prestate attenzione a quanto sto per narrarvi.
Dieci anni or sono, mio nipote Almeida, discendente di una delle più cospicue famiglie del Brasile, ma che una serie di disgraziate circostanze trasse in rovina, veniva rapito da alcuni uomini che si erano imboscati sulle rive del Rio Jacuhy. Quei miserabili, spinti chissà mai da quale scopo misterioso e che ancora oggi ignoro, avevano teso una fune attraverso ad un sentiero, pel quale dovevano passare mio nipote e un suo servo, reduci da una partita di caccia.
Stramazzati i cavalli che i due cacciatori cavalcavano, a causa della fune tesa, quegli uomini, che come vi dissi si stavano imboscati, si gettarono come tigri su mio nipote che era rimasto tramortito per la repentina caduta e lo portarono via. Dove? Io lo ignorai a lungo.
Pare che i rapitori avessero rimontato il fiume con una scialuppa a vapore, e che poi siano fuggiti in mare, attraversando la laguna dos Patos.
Diedi prontamente avviso del rapimento alle autorità brasiliane di Porto Alegre. Si fecero ricerche dovunque; io risalii il fiume fino alla sorgente sperando di trovare qualche traccia o qualche indizio che mi spiegasse il movente di quell’audace colpo di mano; ma le indagini a nulla approdarono, e non seppi più nulla del mio povero nipote.
— Ma il servo che l’accompagnava era forse stato ucciso? — chiese la guida, che prestava viva attenzione alle parole del marchese.
— No, era stato imbavagliato e legato ad un albero insieme con un giovane schiavo che aveva guidato i rapitori, allettato da alcune monete. Lo ritrovai due giorni dopo, mezzo soffocato e morente di sete; ma nulla seppe dirmi sui rapitori, essendo rimasto stordito per la caduta.
— Era un servo fedele?
— Oh! Fedelissimo e mi accompagnerà nelle praterie.
— E poi?
— Per dieci anni visitai tutte le boscaglie di Porto Alegre, di Rio Grande, della laguna dos Patos e le rive del mare, ma senza risultato. Il solo caso doveva darmi notizie di mio nipote e dei suoi rapitori.
— Oh!... Oh!... ascoltiamo.
— Tre mesi sono, ricevetti un pacco che mi veniva spedito dall’Ammiragliato inglese e dall’ambasciatore brasiliano di Londra. Conteneva una scatola di latta, coperta d’incrostazioni marine, e che all’esterno, incisa rozzamente, portava la data: 16 maggio 1842.
— Era stata gettata in mare dieci anni prima? — chiese Sanchez, che non staccava gli occhi dal marchese.
— Sì, proprio dieci anni prima. La scatola era stata aperta, senza dubbio dall’equipaggio che l’aveva raccolta, e nell’interno vi erano una lettera ed un fascio di documenti ingialliti dal tempo e dall’umidità, ma ancora in buono stato.
Aprii la lettera. Era stata scritta dal segretario dell’Ammiragliato e m’informava che quella scatola era stata raccolta, pochi mesi prima, da una nave mercantile inglese nei paraggi delle isole Fär-öer, a 62°,10' di latitudine e a 9°,56' di longitudine, e che i documenti che conteneva riguardavano me.
Voi non mi crederete; eppure nel vedermi dinanzi quella scatola, mi balenò subito in mente la speranza che quei documenti contenessero delle informazioni sul misterioso rapimento di mio nipote.
Non saprei dirvi con quale ansia febbrile lessi quelle preziose carte.
— Riguardavano dunque vostro nipote?
— Sì, — rispose il marchese asciugandosi la fronte bagnata di sudore. — Finalmente io sapeva dove era stato condotto e da chi rapito.
— Mi fate strabiliare, signor marchese. Continuate, vi prego. —
Don Inigo Mendoza vuotò il bicchiere per calmare l’emozione vivissima che lo aveva preso, poi continuò:
— Quei documenti erano firmati da un certo barone Renato di Chivry, nativo di Rouen. Da quelle note appresi che mio nipote era stato rapito dal barone per ordine d’un capo apache chiamato Grand’Aquila, la cui tribù si troverebbe, o si trovava in quel tempo, fra il Rio San Juan, il Rio Chelle, e le Sierre Tuneka e Carriso.
Era stato imbarcato a forza, su di una nave negriera, chiamata l’Albatros, comandata dal capitano Nunez, e trasportato nel Golfo del Messico, dove un uomo ed alcuni indiani lo attendevano alla foce del Rio San Fernando, della laguna della Madre.
Poi la nave aveva ripreso il largo diretta in Europa; ma nello stretto della Florida era stata assalita da una goletta inglese e le due navi, dopo un feroce combattimento in mezzo ad un uragano tremendo, erano colate a fondo.
Il barone, rimasto l’unico superstite, prima di morire aveva gettato il documento in mare, dopo d’averlo rinchiuso nella scatola.
— Ma che storia è mai questa! — esclamò Sanchez.
— Una storia vera.
— E quel barone è vivo o morto?
— Deve esser morto dopo d’aver gettato la scatola. Le ultime righe del documento erano scritte con una calligrafia stentata, e questo farebbe supporre che la ferita da lui riportata durante il combattimento e della quale fa cenno, fosse mortale.
— Per quale motivo gettò in mare quel documento?
— Per farmi sapere ciò che era avvenuto del marchesino Almeida.
— Poteva mandarvi una lettera. Sarebbe stata più sicura e più pronta.
— Forse gli mancò il tempo, o non voleva farmi saper nulla finchè era vivo.
— Ma esistette realmente questo barone?...
— Sì, poichè telegrafai tosto in Francia, a Rouen, per sapere chi era questo barone, e mi risposero che era realmente esistito, che vent’anni prima era partito per l’America dopo d’aver dissipata al giuoco la sua sostanza, e che poi non era più tornato, nè aveva più dato segno di vita.
Appena accertatomi di ciò, vendetti la mia fazenda e le poche piantagioni che ancora rimanevano ad Almeida, m’imbarcai a Rio Grande, e dopo due mesi di navigazione, il 10 novembre sbarcavo sulla costa californiana, risoluto a ritrovare il mio disgraziato nipote.
— Siete adunque giunto ieri. Vi accompagna qualcuno?
— Ho condotto con me quel servo che accompagnava Almeida la notte in cui fu rapito. È un buon compagno, robusto, valente cacciatore e che ci sarà di molta utilità.
— Ma quello non basta. Dovremo formare una piccola carovana.
— Vi do carta bianca.
— Troverò io tutto l’occorrente; i cavalli, le mule e gli uomini.
— Conto su di voi, Sanchez.
— Ma ditemi, ora, per quale motivo quel capo indiano aveva fatto rapire vostro nipote?
— Ecco quello che ignoro e che il documento non spiega, — ripose il marchese.
— Non avete conosciuto mai alcun capo indiano?
— Mai! Non mi sono mai mosso dal Brasile.
— Eppure un motivo ci deve essere per far rapire vostro nipote. Chi può essere questo Grand’Aquila?
— L’avete udito nominare?
— È impossibile conoscere tutti i capi indiani. Ma non avete alcun sospetto?
— Nessuno.
— Cercate bene nei vostri lontani ricordi.
— Cerco, ma non trovo. Eppure...
— Oh!... —
Il marchese si passò la mano sulla fronte, poi mandò un grido.
— Ma no!... — esclamò poi. — È impossibile!... Dev’essere morto e... —