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capitolo i. — la guida messicana. 123

— Riguardavano dunque vostro nipote?

— Sì, — rispose il marchese asciugandosi la fronte bagnata di sudore. — Finalmente io sapeva dove era stato condotto e da chi rapito.

— Mi fate strabiliare, signor marchese. Continuate, vi prego. —

Don Inigo Mendoza vuotò il bicchiere per calmare l’emozione vivissima che lo aveva preso, poi continuò:

— Quei documenti erano firmati da un certo barone Renato di Chivry, nativo di Rouen. Da quelle note appresi che mio nipote era stato rapito dal barone per ordine d’un capo apache chiamato Grand’Aquila, la cui tribù si troverebbe, o si trovava in quel tempo, fra il Rio San Juan, il Rio Chelle, e le Sierre Tuneka e Carriso.

Era stato imbarcato a forza, su di una nave negriera, chiamata l’Albatros, comandata dal capitano Nunez, e trasportato nel Golfo del Messico, dove un uomo ed alcuni indiani lo attendevano alla foce del Rio San Fernando, della laguna della Madre.

Poi la nave aveva ripreso il largo diretta in Europa; ma nello stretto della Florida era stata assalita da una goletta inglese e le due navi, dopo un feroce combattimento in mezzo ad un uragano tremendo, erano colate a fondo.

Il barone, rimasto l’unico superstite, prima di morire aveva gettato il documento in mare, dopo d’averlo rinchiuso nella scatola.

— Ma che storia è mai questa! — esclamò Sanchez.

— Una storia vera.

— E quel barone è vivo o morto?

— Deve esser morto dopo d’aver gettato la scatola. Le ultime righe del documento erano scritte con una calligrafia stentata, e questo farebbe supporre che la ferita da lui riportata durante il combattimento e della quale fa cenno, fosse mortale.

— Per quale motivo gettò in mare quel documento?

— Per farmi sapere ciò che era avvenuto del marchesino Almeida.

— Poteva mandarvi una lettera. Sarebbe stata più sicura e più pronta.

— Forse gli mancò il tempo, o non voleva farmi saper nulla finchè era vivo.

— Ma esistette realmente questo barone?...