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118 | parte ii. — la grande prateria degli apaches. |
— Eppure si dice che sono crudelissimi.
— È vero, señor.
— Che strappano la capigliatura ai vinti.
— Anche questo è vero.
— Che legano i prigionieri al palo di tortura, e che li martirizzano con mezzi diabolici.
— Purtroppo! Ma io non li temo gl’indiani, quantunque siano feroci, spietati e coraggiosi.
— Ed osereste guidarmi nel loro territorio?
— Se al señor marchese così piace, sono pronto.
— Accomodatevi e discorreremo. —
Il marchese Inigo Mendoza e Garcia Sanchez sedettero dinanzi ad una rozza tavola, sulla quale si vedevano due bottiglie. Il primo empì due bicchieri e ne porse uno al nuovo arrivato, che si mise a centellinarlo con viva soddisfazione mormorando:
— È vero vino di Spagna, da due dollari alla bottiglia. —
Poi deposero entrambi il bicchiere e per alcuni istanti si guardarono in silenzio.
Il marchese Mendoza era un uomo sui cinquant’anni, coi capelli bianchi, la fronte coperta di rughe precoci, ma gli occhi ancora vivi, brillanti, nei quali si leggeva dover egli essere un uomo di molta energia e di molta tenacità, a malgrado degli anni.
Indossava un semplice abito da viaggio, metà europeo e metà brasiliano, che faceva risaltare le sue forme ancora vigorose e svelte.
L’altro invece, era una specie di granatiere, un pezzo d’uomo alto quasi sei piedi, di forme massicce, con ampio torace, di muscolatura potente, un vero tipo di avventuriero o di scorridore di prateria. Non poteva avere più di trentacinque anni, quantunque i suoi lunghi capelli, che gli cadevano in pittoresco disordine sulle