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124 | parte ii. — la grande prateria degli apaches. |
— Sì, poichè telegrafai tosto in Francia, a Rouen, per sapere chi era questo barone, e mi risposero che era realmente esistito, che vent’anni prima era partito per l’America dopo d’aver dissipata al giuoco la sua sostanza, e che poi non era più tornato, nè aveva più dato segno di vita.
Appena accertatomi di ciò, vendetti la mia fazenda e le poche piantagioni che ancora rimanevano ad Almeida, m’imbarcai a Rio Grande, e dopo due mesi di navigazione, il 10 novembre sbarcavo sulla costa californiana, risoluto a ritrovare il mio disgraziato nipote.
— Siete adunque giunto ieri. Vi accompagna qualcuno?
— Ho condotto con me quel servo che accompagnava Almeida la notte in cui fu rapito. È un buon compagno, robusto, valente cacciatore e che ci sarà di molta utilità.
— Ma quello non basta. Dovremo formare una piccola carovana.
— Vi do carta bianca.
— Troverò io tutto l’occorrente; i cavalli, le mule e gli uomini.
— Conto su di voi, Sanchez.
— Ma ditemi, ora, per quale motivo quel capo indiano aveva fatto rapire vostro nipote?
— Ecco quello che ignoro e che il documento non spiega, — ripose il marchese.
— Non avete conosciuto mai alcun capo indiano?
— Mai! Non mi sono mai mosso dal Brasile.
— Eppure un motivo ci deve essere per far rapire vostro nipote. Chi può essere questo Grand’Aquila?
— L’avete udito nominare?
— È impossibile conoscere tutti i capi indiani. Ma non avete alcun sospetto?
— Nessuno.
— Cercate bene nei vostri lontani ricordi.
— Cerco, ma non trovo. Eppure...
— Oh!... —
Il marchese si passò la mano sulla fronte, poi mandò un grido.
— Ma no!... — esclamò poi. — È impossibile!... Dev’essere morto e... —