Il Re della Prateria/Parte prima/11. La laguna della Madre
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Capitolo Decimoprimo.
La laguna della Madre.
Cinque giorni dopo, cioè il 4 maggio, l’Albatros, che aveva continuato il cammino colla velocità media di cinque nodi all’ora, superato il capo di Sant’Antonio che si trova all’estrema punta dell’isola di Cuba, e che con quello di Catoche forma lo stretto di Yucatan, entrava nel golfo del Messico.
Questo spazio d’acqua si potrebbe chiamarlo mare per la sua vastità che è veramente immensa, avendo una superficie di chilometri quadrati 2,436,000, una lunghezza di 2940 chilometri da est a ovest, e una lunghezza di 1038.
Quantunque così ampio, la sua profondità è relativamente minima, poichè a cinquanta e anche a sessanta chilometri dalle coste, gli scandagli toccano fondo a soli sessanta metri. Il suo letto si rialza gradatamente verso la foce del Mississippi, dove forma dei banchi pericolosi, dei quali tristamente celebre è quello di Portugas per le numerose navi che colà si perdettero e che tuttora vi fanno naufragio. Anche presso le isole Bahama questo golfo diventa pericoloso pei suoi banchi e pei suoi scogli, e presso la costa della Florida, pei suoi frangenti.
Le sue acque sono più cupe di quelle dell’Oceano, forse per la grande corrente del Gulf-stream che si forma nel suo seno, e di frequente alla loro superficie si vedono apparire delle fiammelle fosforiche, le quali tramandano una luce vivissima.
Dall’aprile all’ottobre la navigazione del golfo è facile e non presenta che pochi pericoli; ma cessata questa stagione che si chiama delle piogge, durante la quale soffiamo continuamente venti regolari, diventa difficile per i terribili venti, detti del nortes, i quali si scatenano con furia estrema, specialmente verso la metà di novembre e nel mese di febbraio, sconvolgendo la corrente del Gulf-stream e provocando delle ondate spaventevoli.
La corrente, che nel golfo ha una velocità di ventidue a cinquantasei chilometri al giorno, mentre all’uscita nell’Atlantico ha una rapidità di centoquarantasei ogni ventiquattr’ore, cominciava a farsi sentire, raddoppiando la marcia della nave negriera.
Il capitano Nunez, che pareva si sentisse a disagio in quel golfo, dove temeva di vedersi giungere addosso qualche altra nave inglese della Giamaica, e che sospirava il momento di sbarazzarsi del suo pericoloso prigioniero, quantunque questi fosse ritornato tranquillo, manteneva tutte le vele spiegate, compresi i coltellacci e gli scopamari, per affrettare la corsa.
Il 6 maggio l’Albatros tagliava il tropico del Cancro, presso il 73° di latitudine e piegava verso l’ovest, trovandosi la laguna della Madre quasi sotto quella linea.
L’incontro di navi, a mano a mano che il brick s’avvicinava alle coste messicane, diventava più frequente. Vascelli da guerra delle repubbliche dell’America centrale e degli Stati Uniti, brigantini, schooner, golette e barche mercantili appartenenti per lo più alle nazioni europee, s’incontravano di tratto in tratto, quali diretti a Vera-Cruz, o a Campeche per caricare il legno conosciuto in commercio col nome di campeggio, e quali alle grandi Antille o ai porti del Texas, della Luigiana, dell’Alabama o della Florida.
Il 10, dopo una rapida marcia, l’equipaggio dell’Albatros scopriva l’altipiano messicano. Il capitano a mezzodì fece il punto, poi mise la prua verso il nord per raggiungere quel gruppo di terre basse che si estendono dinanzi alla grande laguna della Madre e scoprire il passo di Corpus Christi.
— Fra poche ore saremo giunti, — diss’egli al barone, che pareva in preda ad una viva agitazione.
— Sperate di trovare acqua sufficiente nella laguna per far entrare la nave?
— Temerei di arenarla, e perciò mi fermerò dinanzi al passo di Corpus Christi.
— Ma come raggiungeremo la foce del San Fernando?
— C’imbarcheremo nella grande baleniera.
— Mi accompagnerete?
— Se lo desiderate.
— Con tutto il piacere.
— Conoscete il fiume?
— Sì, — rispose di Chivry.
— Conoscete il luogo dove vi attendono gli uomini che devono ricevere il marchese?
— Lo conosco.
— Quanto tempo metteremo per giungere colà?
— Due giorni.
— Ho il tempo necessario per mandare Mumbai a Galveston coll’Albatros.
— Per arruolare altri uomini?
— Sì, barone. Non so, ma dopo l’avventura toccataci colla goletta inglese, se devo dirvi il vero, non mi sento più sicuro. Temo sempre di trovarmi improvvisamente dinanzi a quel dannato legno.
— Bah!... Il mare è ampio, capitano Nunez.
— Eppure, barone, una voce interna mi dice che fra me e quella goletta tutto non è finito.
— Ubbìe, capitano.
— Saranno ubbìe, barone; ma forse è un presentimento e per questo non voglio lasciarmi cogliere con un così scarso equipaggio. Non ho che dodici uomini validi, tre sono ancora feriti e un altro l’ho fatto gettare in mare ieri sera.
— Morto per le ferite?
— Non fu possibile di estrargli la palla che lo aveva colpito sotto la sesta costola, e spirò mentre voi dormivate.
— Quell’Almeida ci è costato molto sangue!
— Cosa dite mai, barone? E le sue immense miniere d’argento, non rendono forse? Dovrebbe ricavare centinaia di milioni all’anno.
— Dovrebbe, ma non li ricava, capitano. I messicani sono troppo indolenti per lavorarle, e preferiscono cederle agli stranieri per pochi milioni.
— Eppure quelle miniere devono rendere immensamente.
— Tanto che si dice diano il doppio dell’argento che si ricava nel Perù e nella repubblica di Buenos-Ayres riuniti insieme. Il Potosi solo, per tre secoli, ha arricchito il mondo col suo argento e ancora nei suoi terreni si trovano, quasi a fior di terra, dei lastroni del prezioso metallo che sembrano fusi ad arte, e le miniere di Real di Catorce rendono esse sole non meno di venti milioni all’anno.
— Dev’essere immensa la produzione dei metalli preziosi delle due Americhe.
— Enorme!... — disse il signor di Chivry. — Si dice che la quantità d’oro e d’argento che il nuovo mondo manda annualmente in Europa, ascenda a più di nove decimi del prodotto totale delle miniere dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa.
— Sono ricche quanto quelle del Messico, le miniere degli altri Stati americani?
— Si può dire che il Perù, il Brasile, le Guaiane, il Chilì, la Castiglia d’Oro, la Nuova Granata e le due Californie sono seminate d’oro e d’argento.
Nella provincia di Carangas, a settanta leghe all’occidente del Rio della Plata, si trovano nelle sabbie di certi fiumi dei veri ciottoli d’argento, a cui gl’indiani dànno il nome di papos perchè nella forma somigliano veramente alle patate; a Pune, nel Chilì, esiste una miniera d'argento il cui metallo si taglia colle forbici. Non parlo poi della ricchezza delle sabbie di certi fiumi, specialmente dell’Orenoco e dell’Amazzoni, le quali contengono delle pepite d’oro d’inverosimile grossezza e di certe rupi che ne contengono a profusione.
— E l’America del nord è tutta così ricca come quella del sud?
— No, oltre il Nuovo Messico e la Nuova California, la produzione dell’oro diventa sempre più scarsa, e si può dire che cessa affatto al di là del 37° o del 40° parallelo; ma le regioni più settentrionali sono ricche di miniere di ferro, di zolfo, di vetriolo, di allume, ecc., e si trovano anche colà non poche pietre preziose specialmente nel gelido Labrador, dove si rinvengono delle pietre che riflettono come un prisma tutti i bei colori della luce, e che talvolta dànno uno scarlatto più splendido di quello dei rubini.
— La laguna! — esclamò un marinaio in quel momento.
Il capitano e il signor di Chivry s’alzarono sui banchi per meglio vedere.
Dinanzi a loro, racchiusa fra due lunghissime isole, le cui estremità sparivano verso il nord e verso il sud e da una costa che a malapena si distingueva, estendevasi una vasta superficie d’acqua, interrotta qua e là da bassi isolotti e da banchi sabbiosi coperti di piante acquatiche, sopra le quali volteggiavano con grida assordanti, bande immense di rincopi e di anitre.
Nessun battello solcava quelle acque morte e fangose, sopra le quali ondeggiava una specie di nebbia, pericolosa quanto mai, perchè sviluppa il terribile vomito prieto (febbre gialla). Si avrebbe detto che nessuno osava affrontare quelle solitudini insalubri e tristi.
Anche le spiagge delle isole apparivano senza abitanti. Però qua e là, all’ombra delle intristite artemisie e di magri e semi-ingialliti cactus, si vedevano lunghe file di zopilotes, specie di piccoli avvoltoi, che in tutte le città messicane s’incaricano della pulizia delle strade, essendo dotati di una voracità inaudita, e più oltre, specialmente sui banchi sabbiosi, si scorgevano dei giganteschi alligatori, indolentemente coricati, scaldandosi ai raggi del sole.
— Che brutto paese! — disse il negriero. — Questa laguna mi ha un’aria funebre...
— Non è allegra, — disse il barone.
— Dove ci dirigiamo?
Il signor di Chivry guardò attentamente verso l’est, dove si scorgeva confusamente la costa, e additò un picco isolato, che appariva in quella direzione.
— È il monte Lomablanca, — disse. — Teniamo la prua in quella direzione e giungeremo alla foce del San Fernando.
— Vedo un altro picco più lontano, — disse Nunez, che aveva puntato un canocchiale.
— È il monte Purgatorio, — rispose di Chivry. — Lo vedremo meglio più tardi, quando avremo passata la foce del Rio Olmos. —
La grande baleniera, che navigava con sufficiente rapidità, essendo il vento costante anche in quello spazio di mare rinserrato fra le isole e la costa messicana, mise la prua verso l’ovest, in direzione della montagna, addentrandosi nella vasta e deserta laguna.
Un profondo silenzio, rotto a malapena dal gorgoglìo dell’acqua solcata dall’acuto sperone della svelta imbarcazione, regnava sopra quella distesa salmastra. Le bande dei rincopi e gli stormi delle anitre, spaventati dalla comparsa di quegli stranieri, eransi dileguate fuggendo verso le lontane coste o celandosi fra le fitte macchie di canne, e gli stessi alligatori sorpresi nel loro sonno e disturbati, avevano guadagnato gli strati fangosi del fondo.
Il sole, che versava torrenti di luce calda, ardente, alzava ovunque nembi di nebbia che il vento trasportava or qua e or là, lacerandoli e poi riunendoli attorno ai banchi sabbiosi e agli isolotti.
Il barone e il capitano tacevano e i due marinai manovravano silenziosamente le vele, mentre il giovane marchese, fulminato dal potente narcotico somministratogli la mattina, giaceva quasi senza vita nel fondo della imbarcazione.
A mezzodì, quando più calda era la temperatura, il vento cadde lasciando la baleniera quasi immobile in mezzo ad un’atmosfera soffocante; ma verso le due riprese a soffiare con maggior forza di prima.
Al tramonto, il barone, che osservava attentamente la costa occidentale, indicò una larga imboccatura che pareva salisse verso il nord-ovest, e un altro monte che sorgeva sulla riva sinistra.
— La foce del San Fernando, — disse. — Ed ecco là il monte Purgatorio.
— Siamo lontani ancora? — chiese Nunez.
— Il fiume è lassù, e non vi giungeremo prima dell’alba.
— Allora ceniamo e poi facciamo una dormita. —
I due marinai trassero le provviste composte di scatole di conserve alimentari e di biscotti. Divorato il magro pasto, il barone e Nunez si accomodarono nel fondo del canotto, mentre i due marinai montavano il primo quarto di guardia.
Durante la notte la baleniera continuò a salire il braccio di mare che s’inoltra verso nord-ovest e che può chiamarsi la foce del San Fernando, quantunque veramente non lo sia.
Alle sette del mattino dopo di essere passati dinanzi alle foci del Rio Olmos e dell’Jaboncilles, il barone e i negrieri rimontavano le acque del San Fernando.
— I vostri amici? — chiese Nunez.
— Aspettate, — rispose il barone.
Esaminò attentamente la riva destra, poi scaricò tre volte, con intervalli di due minuti, le sue pistole. Alle ultime detonazioni rispose un colpo di fucile, e poco dopo un uomo, uscito da una macchia di gigantesche felci arborescenti, sulla sponda, gridando:
— Sei tu, di Chivry?
— Sono io, Ramieroz.
— Accosta!... —