Il Quadriregio/Libro secondo/XV

XV. Come l’autore riconosce la cittá di Dite in questo mondo, e quindi trova Circe, la quale trasmuta gli uomini

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
XV. Come l’autore riconosce la cittá di Dite in questo mondo, e quindi trova Circe, la quale trasmuta gli uomini
Libro secondo - XIV Libro secondo - XVI
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CAPITOLO XV

Come l'autore riconosce la cittá di Dite in questo mondo,
e quindi trova Circe, la quale trasmuta gli uomini.

     Nel terzo regno su per quella piaggia
noi devenimmo, ed, alzando le ciglia,
sí come piacque alla mia scorta saggia,
     vidi di Dite la cittá vermiglia,
5di mille miglia intorno, ed in figura
a Dite dell’inferno s’assomiglia.
     Di ferro ardente avea le grandi mura,
a ogni cento piè avea una torre,
con guardian, che mi facea paura.
     10Attorno delle mura un fiume corre,
ardente piú che non è il fuso rame,
quando in campana per canal trascorre.
     Bolliva piú assai che ’l Bollicame,
e, perché ferve, però Flegetonte
15il suo vocabol convien che si chiame.
     Dalla ripa alla porta era per ponte
attraversato e steso un sottil filo,
pel qual chi in Dite va, convien che monte.
     Non fe’ sí sottil riga giammai stilo,
20né filò sí sottil giammai aragna,
com’è la via che mena in quell’asilo.
     Su per quel fil sottil la mia compagna
prima si mosse, e, poiché un passo diede,
disse che andassi dietro a sue calcagna.
     25Io non andai, ma tenni fermo il piede,
dicendo a lei:— Non verrò, perché temo,
ché non son io legger quanto tu crede.—

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     Cosí, standomi fermo su l’estremo
di quella ripa, dicea:— Non verraggio,
30se noi per altra via non anderemo.—
     Palla, per rifrancare a me il coraggio,
tre volte lá e qua ’l filo trascorse,
come colui ch’assecura il viaggio.
     E, poiché la sua man alla mia porse,
35resposi:— Io vegno, da che piú ti piace;
ma forte temo e del cader so’ in forse.—
     Su per lo fil piú sottil che bambace
io passai Flegetonte e sua mal’onda,
ch’ardea di sotto piú che una fornace.
     40Quando giunse Minerva all’altra sponda,
ella chiamò come chi chiama forte
un che sia lunge e vòl che gli risponda.
     E disse:— Aprite a noi queste gran porte,
ché siam discesi nel maligno piano
45per veder Pluto, il tempio e la sua corte.—
     Risposto fu:— Il vostro passo è vano:
nullo entrar puote, s’e’ non porta seco
o presente o denar nella sua mano.—
     La dea subiunse:— Me’ che denar reco:
50però apri a noi tosto, o portinaio,
a me ed a costui, il qual è meco.—
     Mamon, che tra coloro era il primaio,
la gran porta di Dite in fretta aperse,
ratto ch’udí nominar il denaio.
     55Ma, quando vide poi che nulla offerse,
con grande sdegno ne guardò in tortoni,
e poscia irato este parol proferse:
     — Or dimmi dove son questi gran doni,
che di’ ch’arrechi, o donna, e ch’a noi porti,
60che piú che li denar di’ che son buoni.
     Ma entrasi cosí nelle gran corti?
Uscite fuora e ritornate addietro
tu e costui, a cui ha’ i passi scorti.

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     — Da tal Signor il mio andar impetro
65— disse Minerva,— ch’io non ho temenza,
quantunque mostri a noi il volto tetro.
     E ’l don, che reco meco, è la scienza,
che non si perde mai quand’io la insegno:
però piú che null’oro è di eccellenza.
     70Palla son io, che a questo loco vegno,
e son dell’arme, d’arti e di scolari
prima maestra e forma d’ogni ingegno.—
     Mamon rispose:— Chiunque vuol, impari,
ché la scienza qui non è di pregio,
75e nulla vale a rispetto ai denari.
     Ma, se veder volete il gran collegio
del nostro Pluto, andate alla man destra,
e ’l mio consiglio non abbiate a spregio.—
     Minerva a lui:— Ognun male ammaestra,
80se pria no’ impara; e mal guida saría
chiunque non sa il cammin, pel quale addestra.—
     Cosí dicendo, non prese la via,
ch’egli avea detto, ma salí s’un’erta,
che ben due miglia d’un monte pendía.
     85Nell’altra valle selvaggia e deserta
Circe trovai, la maladetta maga,
che fa che l’uomo in bestia si converta.
     Con gli occhi putti e con la faccia vaga
losinga altrui e con ridente grifo,
90acciò che l’alme a sue malíe attraga.
     Nella sinistra man tenea un cifo,
il qual empiè di sí brutto veneno,
che ancor, pensando, me ne viene schifo.
     Io vidi un uomo, a cui lo porse pieno,
95diavolo farsi, quand’ella gliel diede,
a membro a membro e l’uman venir meno.
     In piè di cigno in prima mutò il piede
e poi le gambe, e poi d’un babbuino
mise la coda e ’l membro ove si siede.

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     100Il ventre fe’ squamoso e serpentino,
e negro il petto piú che gelso mézzo,
le man pelose e l’ugne quasi uncino.
     Mentre si trasmutava a pezzo a pezzo,
mise due ali assai piú ner che corvo;
105cornuto il capo e ’l viso fe’ d’un ghezzo.
     La bocca fe’ d’un porco, il naso córvo:
cosí dimon si fece a poco a poco
cogli occhi rosci e collo sguardo torvo.
     Per tutti i nove fòr gittava foco;
110ma nella bocca egli era acceso piue
che una fiamma, in che soffiasse coco.
     Mentr’i’ ammirava, ancor ne vidi due
del maladetto cifo abbeverarne;
e l’un diventò lupo, e l’altro bue.
     115Io vidi molti poscia trasmutarne
in cani e volpi ed in leoni ed orsi,
e draghi farsi dall’umana carne.
     Per tutti i lochi, ch’io avea trascorsi,
non stetti cosa a veder tanto vaga
120quanto che questa, quand’io me n’accorsi.
     — Ahi, gente fatta alla divina imago
— disse Minerva,— perché ’n te trasmuti
la bella effigie in lupo ovver in drago?
     Perché visson giá questi come bruti,
125a lor Iustizia questa pena rende,
che li sembianti umani abbian perduti;
     ché non è uom, se ’l vizio tanto apprende,
che non conosce il male e non ha pena
e non vergogna e téma, quando offende;
     130ché Dio ha posta in voi luce serena,
che fa che il mal da prima si conosca,
e vergogna e timor dá, che ’l raffrena.
     Ma, quando alcun tanto il peccato attosca,
che non vergogna e che non ha timore,
135segno è che quella luce in lui è fosca.

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     E questo mena poi in piú errore,
ch’e’ piace a se medesmo quando pecca,
e del mal suo s’allegra e dell’angore.
     Ogni bontá umana allor è secca,
140che loda il vizio per virtude vera,
e piacegli chi uccide, robba e mecca.
     E, se in tal vizio indura e persevèra,
allora ’n lui ’l peccar si fa _necesse_,
e di emendarsi al tutto si dispera.
     145Sappi anco che non toglie l’uman _esse_
il male, al qual fragilitá conduce,
né da ignoranza le colpe commesse;
     ché tutta non oscuran quella luce,
che Dio ha posto in voi, della ragione,
150che téma, duolo e vergogna produce.
     Quel che vedesti, che si fe’ demòne
e fe’ l’aspetto tanto brutto e rio,
fu spoletino e detto Servagnone:
     ladro, assassin, biastimator di Dio
155e dispettoso d’ogni cosa bona
e nemico ad ogni atto onesto e pio.
     L’altro s’assomigliò a Licaona,
il terzo al mostro posto nel Labrinto,
che uomo e toro fu ’n una persona.
     160Né l’un né l’altro ben era distinto:
or puoi saper di lor qual fu il peccato,
che ’n lor l’aspetto umano ha tutto estinto,
     e perché ’n bestia ciascuno è mutato.—