Il Quadriregio/Libro secondo/XVI
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CAPITOLO XVI
Delle tre Furie infernali e delli tradimenti mondani.
Nullo, se non Iddio, conosce il cuore,
e vede ogni palese ed ogni occolto;
ma l’uom pò iudicar sol quel di fòre.
Però chi estima altrui secondo il volto
5ovver nell’apparenza che fuor vede,
spesse volte gli avvien ch’egli erra molto.
E per questo intervien ch’è poca fede
e che gli antichi ed ognun ch’è ben saggio,
si guarda piú, e meno ad altri crede.
10Io era ancor nel loco che detto aggio,
ove sta Circe nella valle trista,
che ’n bestia sa mutar l’uman visaggio.
Lí era gente piú piacente in vista
che nullo albergator nel proprio albergo
15o mala putta di losinghe artista.
E mentre dietro a dea Minerva pergo,
ella mi disse:— Fa’ che qui ti guardi,
e fa’ che sempre tu mi venghi a tergo.
Se tu per mezzo del mio scudo sguardi,
20tu vederai pel mio cristallin vetro
i cor di tutti questi esser bugiardi.—
Onde, sguardando ed a lei stando dietro,
io vidi ciò ch’a me prima era oscuro;
e forte mi fia a dirlo in questo metro.
25Per queste rime mie, lettor, ti giuro
che alcun di quelli dentro era un serpente
e nella vista fuor pareva uom puro.
Ed alcun altro, quando posi mente,
di fuor pareva pur un sant’Antonio
30e dentro un lupo rapace e mordente.
Agnol di fòre, e dentro era un demonio
alcun di quei, quando li vedea nudi:
se dico il ver, Dio mi sia testimonio.
— O sacra dea, che tanto ben mi scudi
35— diss’io a lei:— oh quanto tradimento!
quanti Gani stan qui e quanti Iudi!
Sí come ad Amasa giá prese il mento
Ioab e disse a lui:— Salve, fratello!—
mentre l’uccise con pena e tormento;
40cosí sotto al sembiante blando e bello
molti di questi nascondon l’inganno,
che portan dentro al cor malvagio e fello.—
Ed ella a me:— Quando risurgeranno
questi cotal dalla falsa apparenza,
45la vista, che han dentro, prenderanno;
ché Dio ha dato lor questa sentenza,
che forma umana da lor non si pigli,
da che han mutata in bestia lor semenza.
Or mira in alto ed alza su li cigli.—
50Ond’io li alzai e vidi le tre Furie
col volto irato e cogli occhi vermigli.
Figura avean di donna, a cui iniurie
un’altra donna pel tolto marito,
quando si turba che con lei lussurie.
55Col viso irato, crudele ed ardito
strigneano i denti e strabuzzavan gli occhi
inverso me, menacciando col dito.
— Regina mia— diss’io,— or non adocchi
che di paura io vengo tutto manco
60e tremanmi le gambe e li ginocchi?—
Ed ella a me:— Sta’ forte e col cor franco,
e non temer niente i lor fragelli,
mentre hai lo scudo mio e staimi a fianco.
Quella che di scorzoni ha li capelli,
65Megera ha nome, crudeltá dell’ira:
vedi c’ha tutti i peli a serpentelli.
Aletto è l’altra, che ’n torton ti mira,
che ha tanti serpi d’intorno alle tempie,
e nasce di colei ch’al ben sospira.
70L’altra, c’ha le sembianze tanto scempie,
è quella falsa crudeltá, che nacque
del mostro che di cibo mai non s’empie.
Ella gridò, ch’al mio parer gli spiacque
ch’io dicessi:— Cosí venne Medusa
75per l’amor di colui che regge l’acque.
Tesifone, costui a faccia chiusa
vedrá il Gorgon: or t’è venuto in fallo
che ’l faccia pietra, sí come e’ far usa.—
Per mezzo del mio scudo del cristallo
80vedrai quel mostro, ed io a viso nudo
veder nol curo; ed ella il perché sallo.—
Io stavo a prova ben dietro allo scudo,
quando apparve Medusa, il crudel mostro,
superbo, orrendo, dispettoso e crudo;
85e sopra quelli di quel tristo chiostro
sol con lo sguardo un tal veneno asperse,
ch’era piú ner che non fu mai inchiostro.
Allor tutti pigliôn forme diverse
dentro alla mente, e secondo le colpe
90cotal figure avean nel cor submerse.
Alcun si fe’ leon ed alcun volpe,
alcun dimonio, alcun lupo rapace;
ma tutti avían di fuore umane polpe.
— O sacra dea, chi è colui che pace
95mostra nel volto e par soave e piano,
e dentro al cor come un diavol giace?—
Ed ella a me:— È Iacopo d’Appiano.
Molti son qui de’ traditor di Pisa;
ma egli sopra tutti è il piú sovrano.
100’Nanti che fusse l’anima divisa
dal corpo suo, tal era nel pensiero;
però è trasmutato in questa guisa.
Egli tradí il nobil messer Piero
de’ Gambacorti e fe’ dei figli preda,
105mentre a lor si mostrava amico vero.
E lasciò dopo lui l’avaro ereda
colui che fe’ la bella Pisa schiava
e per dinar la die’, che si posseda.
E quel secondo, in cui tossico e bava
110sparse Medusa e venenolli il petto,
e c’ha la mente dentro tanto prava,
fu re di Cipri, chiamato Iacchetto.
Al suo fratel maggior diede la morte,
mentre a riposo giaceva nel letto,
115cioè al re Pietro magnanimo e forte,
che ’n Alessandria giá mise la ’nsegna
dentr’alla piazza e vinse le sue porte.
Quel terzo, c’ha la faccia sí benegna
e dentro è tutto quanto serpentino
120e c’ha la mente di venen sí pregna,
fu Della Scala e fu crudel Mastino.
Il suo fratel maggior uccise pria
e poi fu del minor ancor Caino.
Morto il primaio, ed ei sen fuggí via
125per la paura, ed allor di Verona
l’altro fratel pigliò la signoria.
Mandò pel fratricida e a lui perdona;
e tanto amore inver’ di lui accese,
che la bacchetta signoril li dona.
130Costui il donator ligato prese
e stretto el fece mettere in prigione:
cosí fu grato a chi fu a lui cortese.
E poi ’n quell’ora ch’ognun si dispone
in su l’estremo, e contrito e confesso
135si rende a Dio con gran divozione,
costui mandò il dispiatato messo,
e fe’ mozzare al suo fratel la testa,
e di vederla contentò se stesso.
Or fu mai crudeltá maggior che questa?
140Non quella ch’a Tieste fece Atreo,
quando i figli mangiar gli die’ per festa;
non quella di Nettunno e di Teseo;
ch’ognun di questi, a chi ponesse cura,
iniuria il fece cosí esser reo.
145Ma costui non offesa, non iniura,
non la cagion, per che fu morto Remo,
che pria bagnò di sangue l’alte mura.
Ma sol si fece d’ogni piatá scemo,
ché dopo lui ’l fratello non regnasse:
150per questo il fe’ morir su nell’estremo.
O doppio fratricida, se tu lasse
la doppia prole, il tuo paterno esempio
degno è ch’ancor da lor si seguitasse;
ché l’uno uccise l’altro crudo ed empio,
155e della Scala fu l’ultima feccia,
che sen fuggí del veronese tempio
dietro a colei che solo in fronte ha treccia.