Il Principe della Marsiliana/VII
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VII.
Don Pio in quell’estate non aveva fatto altro che brevi assenze da Roma per accompagnare la principessa a Sorrento e poi a Saint-Moritz, ma col pretesto delle costruzioni era rimasto alla capitale e ogni settimana quasi aveva condotto Maria Caruso e Fabio Rosati a far delle gite col suo break nei dintorni della città. Nel mondo giornalistico e in quello aristocratico l’assiduità del principe presso la bella donna, che tutti ammiravano, aveva dato da ciarlare, e quelle ciarle erano state ripetute da Alberto Grimaldi alla sorella. Don Pio si faceva pure vedere al teatro nel palco della signora Caruso e non trascurava occasione di stare con lei.
Se donna Camilla non avesse conosciuto Maria non avrebbe dato peso alle ciarle; ma la conosceva, aveva avuto campo di ammirarne la stupenda bellezza, la grazia infinita e capiva che se don Pio era innamorato di lei non poteva trattarsi di un amoretto, perchè Maria lasciava una impressione così profonda in quanti la vedevano che, una volta subitone il fascino, bisognava amarla, amarla sempre. E la durata di quell’affetto la sgomentava appunto. Don Pio non sarebbe più tornato a lei, mai: tanto se Maria gli resisteva, quanto se cedeva. Ma la resistenza donna Camilla non l’ammetteva di fronte al marito. Le pareva addirittura irresistibile perchè a lei sfuggiva sempre ed ella non sapeva resistergli dal momento che doveva implorare una attenzione e una carezza; per lei era un idolo e che cosa si nega agli idoli quando avviene che scendano dal loro piedestallo per farsi nostri eguali?
Non capiva donna Camilla che con Maria era il caso inverso; Maria era l’idolo, e il principe il devoto, il supplicante, l’entusiasta, l’innamorato.
Dopo la risposta sprezzante del marito, la povera donna, sgomenta di aver lasciato scoprire la gelosia che la struggeva, si era rinchiusa in camera sua e aveva lungamente almanaccato per mandare a monte quella serata alla Stampa, che autorizzava la sua rivale a far gli onori di casa per un ricevimento che dava don Pio, per un ricevimento dove avrebbe figurato l’argenteria, la livrea di casa Urbani, e dal quale ella era esclusa e per le sue idee e per la posizione ostile, che aveva presa la sera della elezione del marito.
Non potendo impedire quella festa, voleva conoscerne l’esito nei suoi minimi particolari e per questo pensò a Fabio Rosati, che le ora parso più modesto e più rispettoso di tutti gli intrusi, com’ella li chiamava. In quel giorno appunto la principessa era stata pregata di fare ammettere all’Orfanotrofio di Termini, dov’era impiegato il padre del Rosati, un bambino di un antico servitore di casa Grimaldi, e ella aveva pensato d’incaricare don Pio di quella faccenda. Invece, dopo la scena avvenuta nella camera del principe, donna Camilla stabilì di scrivere al Rosati e di pregarlo di passare da lei il giorno successivo, servendosi del pretesto dell’Orfanotrofio per amicarselo e avere da lui tutte le notizie che desiderava sul giornale e su Maria.
Nel piccolo cervello della duchessa l’amore del principe per la bella veneziana era diventato un’idea fissa, dolorosa e martellante. Prima di coricarsi infatti, non volendo scriver lettere, tracciò sopra un biglietto di visita poche righe d’invito e chiuso il biglietto in una busta andò da sè a portarlo sulla tavola dove mettevano le lettere.
Il biglietto fu recapitato e alle due Fabio si faceva annunziare alla principessa, la quale, per fargli dimenticare lo sgarbo della sera del pranzo e per confessarlo a suo agio, fu con lui cortesissima. Fabio promise l’appoggio del padre per il protetto della signora e con quella servilità che i romani della borghesia hanno nel sangue per tradizione, e che li fa parere sempre clienti quando sono in faccia ai principi, soddisfece pienamente la curiosità di donna Camilla.
— Venga dopo il ricevimento, — gli disse nel congedarlo e stringendogli la mano, — e si rammenti che voglio saper tutto; chi c’era, di che cosa si è parlato, com’erano vestite le signore; io sono curiosa e mio marito e così parco di parole ora che ha tanti affari per il capo.
Fabio capì benissimo che la curiosità della principessa della Marsiliana nascondeva una grande gelosia, e non potendo essere quello che voleva per il principe, ora che Ubaldo rappresentava presso di lui la prima parte, si propose di mantenere desta quella curiosità, di dirle quel tanto che poteva renderlo indispensabile a donna Camilla, senza tradir mai un segreto, senza mai compromettersi.
Egli aveva giudicato sinistramente Maria fino dal primo giorno; l’aveva creduta complice del marito nei raggiri e nelle astuzie, e riteneva che quella sincerità di cui ella faceva vanto non fosse altro che un mezzo per meglio accalappiare la gente. Non sapeva nulla del passato di lei, dei suoi sacrifizi, della sua grande virtù, ed era convinto che ora ella si valesse della sua bellezza per rendere il marito onnipotente presso don Pio. Fabio non aveva l’intelletto del cuore; gli mancava la finezza del sentimento e la fede nella onestà assoluta. Tutto era relativo per lui, e pur essendo persuaso che Maria non accordava nulla al principe, riteneva che ella fosse onesta con lui soltanto per meglio dominarlo.
Egli spiava di continuo la bella donna perchè voleva impossessarsi di un segreto, credendo che il possesso di un segreto sia sempre un capitale che un giorno o l’altro si può rendere fruttifero, e quella sera della festa, appena potè abbandonare il suo posto di ricevimento, non la perdè un momento di vista, ora col pretesto di aiutarla nel dare il thè, ora per mantenersi vicino alle signore che le facevano corona.
Don Pio, dopo il concerto al quale presero parte i due massimi maestri di Roma e le prime donne in voga, nonchè Maurel, Maurel che entusiasmava nell’Amleto, si accostò a Maria e le presentò i suoi colleghi della Camera, con i quali era rimasto a parlare tutta la sera.
— Che cosa divina è mai la musica! — esclamò la bella creatura parlando al principe Buontalenti e al duca di Sermano, — io capisco quale attrattiva abbia per il popolo. Tutte le altre arti vivono rinchiuse negli studi, nei musei, nelle biblioteche, non sorridono altro che a quelli che le amano, ma la musica si espande, si fa popolare e consola tutti. Chissà quanti poveri non sono ora aggruppati qui sotto, attirati dalle note soavi; chissà come essi tollerano meglio la loro miseria stanotte e come domani essi vedono la vita meno triste!
Ella parlava presto presto, quasi le parole le volassero dalle labbra per andarsi ad annidare nel cuore di chi l’ascoltava.
Don Pio era tutto occhi e tutt’orecchi.
— A Roma, a Milano la musica è un godimento dei ricchi, ma da noi a Venezia, e, come mi dicono, anche a Napoli, è un godimento per tutti; si canta nelle strade, si canta in gondola, si fanno serenate sotto gli alberghi; i ricchi pagano, ma il popolo gode.
— Che ne direbbe, — domandò don Pio fissandola, — se uno di questi ricchi avesse in animo di costruire un teatro popolare, dove si dessero la opere italiane specialmente e dove un grande lubbione permettesse al popolo di udirle pagando venti o trenta centesimi?
— Direi, — rispose Maria. — che quel ricco è un benefattore, un uomo che capisce la carità meglio di tanti filantropi.
— Ed io voglio essere quel benefattore, — rispose don Pio, — Fra un anno, qui accanto, dove ora non sono altro che macerie, sorgerà un teatro popolare e lei avrà il vanto di avermi suggerito quest’opera di carità.
Tutti approvarono il disegno del principe, tutti fecero plauso alla sua idea, e un momento dopo nelle sale della Stampa non si parlava d’altro che del principe della Marsiliana e del nuovo teatro.
— Come si deve chiamare? — domandò il principe a Maria quando gli elogi furono cessati.
— Come vuole; il nome non fa nulla.
— Lo chiameremo “La Fenice„ in memoria della sua Venezia, — rispose il principe.
Fabio ebbe cura che i servi portassero subito lo champagne e si bevve al nuovo teatro, al principe ed alla bella madrina.
— Io spero, — le disse il principe a bassa voce, — che ella accetterà un palco in quel teatro e che io potrò farglielo addobbare in modo che ella si creda lì nel suo salotto e possa ricevervi i suoi amici.
— Sarà il palco della Stampa, — rispose Maria, che aveva sempre l’abilità di schivare le attenzioni troppo premurose del principe, e sapeva tenerlo a distanza, senza offenderlo.
In quel momento venne a far circolo alla bella signora una folla d’invitati che erano nelle altre stanze, e una piccola francese, molto vivace e molto intelligente, che cercava dopo la morte del marito di conservare la posizione che egli avevale fatto, dandosi per protettrice delle arti e del giornalismo, prese le mani di Maria e le disse:
— Mia cara, mi hanno detto che a lei si deve se il principe si è impegnato formalmente a costruire un teatro; non poteva essere altri che la figlia di quel caro Rossetti, una creatura che ha imparato ad amar l’arte nascendo, che si faceva protettrice delle arti.
— Lei conosce mio padre? — domandò Maria con premura.
— Lo conosco, e col povero Filippo — (Filippo Mariani era il defunto marito che la signora Adriana nominava venti volte al giorno) — e col povero Filippo abbiamo spesso visitato il suo studio. Suo padre è un artista del vecchio stampo, un vero artista italiano nel senso più bello della parola, e io sono lieta di veder qui a Roma la figlia di lui.
Tutto questo era detto a voce alta, e a un tratto il povero Rossetti, che era un Carneade per tutti i conoscenti di Mario, divenne, mercè le lodi della vedova del grande conoscitore d’arte, un artista di prim’ordine. La signora Adriana Mariani sapeva, come tutti, dell’amore che Maria aveva ispirato al principe, e lodando lei voleva adulare chi la amava.
Maria, bella e cortese com’era, non fu da quel momento conosciuta soltanto come la moglie del signor Caruso; ebbe anche lei il suo patriziato artistico, non fu più una ignota sbalzata a Roma dalla incerta posizione del marito, fu la figlia di un artista di merito.