Il Parlamento del Regno d'Italia/Luigi Carlo Farini
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deputato.
Nato in Russi, nelle Legazioni, da famiglia onesta, se non cospicua, nell’ottobre del 1812, studiò nella casa paterna fino alla filosofia, quindi si recò all’università di Bologna, ove mediante la svegliatezza del suo ingegno e la sua facilità d’apprendere, all’età di 19 anni riceveva la laurea in medicina.
Nel moto accaduto nelle Romagne nel 1831 quel governo provvisorio nominò a direttore della polizia nella provincia di Forlì uno zio del Farini, che in quell’epoca lo seguì dapprima come segretario, poscia s’inscrisse qual volontario nel corpo che si raccoglieva dagl’insorti per marciare su Roma.
Andata, come ognun sa, a male quella levata di scudi il Farini, compreso nell’amnistia, tornò a Bologna per compirvi i suoi studî, e nonostante le persecuzioni delle quali fu oggetto per parte della polizia, occupandosi a tutt’uomo della scienza salutare alla quale si era dedicato, si acquistò fama di abile nella sua professione ed ebbe numerosa clientela. Indi a poco il suo paese nativo lo richiamava nel proprio seno affidandogli la condotta medica di quel comune.
Nel 1843, avendo partecipato a quella congiura che aveva per iscopo una nuova insurrezione nelle Romagne, ed essendo stato informato da persona amica, che ove egli fosse rimasto più a lungo a Russi, la polizia non avrebbe tardato a porgli le mani addosso, si refugiò in Toscana, dapprima, ma neppur là vedendosi abbastanza quieto e sicuro si recò in Francia e pose dimora a Parigi.
Il desìo dei luoghi nativi e sopratutto il bisogno di prendere cogli amici gli opportuni concerti per dirigere i nuovi moti che si preparavano a redimer l’Italia, l’indussero indi a non molto a rientrare chetamente in Toscana, daddove si mise in comunicazione con quegli uomini ardimentosi che levarono lo stendardo della rivolta in Rimini.
Si ricorderà che in quella circostanza fu pubblicato un manifesto dai sollevati, che produsse profonda impressione negli animi di tutti coloro ai quali fu dato di leggerlo.
Quel manifesto fu scritto dal Farini, e ci sembra tal documento, da doverne almeno farne conoscere la conchiusione ai nostri lettori:
«E non è di guerra lo stendardo che noi innalziamo, ma di pace, e pace gridiamo e giustizia per tutti e riforma di leggi e garanzia di bene durevole. Non sarà per noi che una sola goccia di sangue si sparga. Noi amiamo e rispettiamo i soldati pontifici, noi li abbracciamo come fratelli che hanno comuni con noi i bisogni, i desiderî e le onte, e procacciando noi di tôrre il Pontefice dalle mani d’una fazione cieca e fanatica, abbiamo in cuore di benemeritare di lui, e della dignità dell’apostolica sede, nel tempo stesso in cui benemeritiamo della patria e dell’umanità. Noi veneriamo l’ecclesiastica gerarchia e tutto il clero e speriamo che seguendo gli ammaestramenti dell’Evangelio, considererà il cattolicismo nella sua vera e nobile essenza civilissima, e non sotto il meschino ed acattolico aspetto d’una intollerante setta. E perchè nè ora nè mai sieno sinistramente interpretate le volontà nostre in patria, in Italia e fuori, proclamiamo altamente di rispettare la sovranità del pontefice come capo supremo della chiesa universale, senza restrizione o condizione veruna; ma per rispettarlo ed obbedirlo come sovrano temporale reclamiamo e domandiamo:
«1.° Ch’egli conceda piena e generale amnistia a tutti i condannati politici dell’anno 1821 in poi, sino a questo punto;
«2.° Ch’egli dia codici civili e criminali modellati su quelli degli altri popoli civili d’Europa;
«3.° Che il Tribunale del Santo Officio non eserciti veruna autorità sui laici, nè su questi abbiano giurisdizione i Tribunali ecclesiastici;
«4.° Che le cause politiche sieno quindi innanzi ricercate e punite dai Tribunali ordinarî, giudicate con le regole comuni;
«5.° Che i Consigli comunali sieno eletti liberamente dai cittadini, ed approvati dal sovrano; che questi elegga i Consigli provinciali fra le terne presentate dai municipali, ed elegga il supremo Consiglio di Stato fra quelle che verranno avanzate dai provinciali;
«6.° Che il supremo Consiglio di Stato risieda in Roma, sovraintenda al debito pubblico ed abbia voto deliberativo sui presuntivi e consuntivi dello Stato, e lo abbia consultivo sulle altre bisogna;
«7.° Che tutti gl’impieghi e dignità civili e militari e giudiziarie sieno pei secolari;
«8.° Che l’istruzione pubblica sia tolta dalla soggezione dei vescovi e del clero, la quale sarà riservata la educazione religiosa;
«9.° Che la censura preventiva della stampa sia ristretta nei termini sufficienti a prevenire le ingiurie alla divinità, alla religione cattolica, al Sovrano ed alla vita privata dei cittadini;
«10.° Che sia licenziata la truppa straniera;
» 11.° Che sia instituita una guardia cittadina alla quale vengano affidati il mantenimento dell’ordine pubblico e la custodia delle leggi;
«12.° Che infine il governo entri nella via di tutti quei miglioramenti sociali che sono reclamati dallo spirito del secolo, ad esempio di tutti i governi civili d’Europa.
«Noi riporremo le armi nel fodero, e saremo tranquilli e obbedienti sudditi del Pontefice non sì tosto che egli, colla malleveria delle alte Potenze, abbia fatto ragione ai nostri reclami e concesso ciò che domandiamo. In simigliante maniera ogni stilla di sangue nostro ed altrui che per mala ventura fosse sparso non ricadrà su di noi ma su di coloro che ritarderanno od impediranno l’accordo. E se gli uomini faranno sinistro giudizio di noi, l’Eterno Giudice infallibile, che inesorabilmente danna i violenti oppressori dei popoli, ci assolverà nella sua giustizia sapientissima, in faccia alla quale sono eguali i diritti ed i doveri degli uomini ed è maledetta la tirannide che in terra si esercita. A Dio, dunque, al pontefice ed ai principi d’Europa raccomandiamo la causa nostra con tutto il fervore del sentimento e l’affetto degli oppressi, e preghiamo e supplichiamo i Principi a non volerci trascinare alla necessità di addimostrare, che quando un popolo è abbandonato da tutti e ridotto agli estremi, sa trovare salute nel disperare salute.»
Si sa come terminasse quel moto di Rimini, che rimase isolato e che non fece che promuovere le più atroci persecuzioni ai liberali per parte della Corte di Roma.
Morto Gregorio XVI e proclamata l’amnistia dal di lui successore Pio IX, il Farini, il quale non era rimpatriato subito, essendo attaccato alla famiglia del principe Gerolamo Bonaparte in qualità di medico curante, non tardò poco dipoi a rientrare nello Stato romano, ove gli venne affidato in Osimo il posto di medico primario, lasciato vacante dal Bufalini.
Quando a Roma si pensò a concedere le riforme e s’instituì un governo liberale, il ministro dell’interno, Gaetano Recchi, offrì il posto di segretario generale al Farini, il quale accettò l’incarico e si recò in Roma.
In questa carica il nostro protagonista non rimase a lungo però, che la famosa enciclica, letta da Pio IX nel concistoro del 29 aprile, indusse tutto il ministero, ed esso pure, a dare le proprie dimissioni. Ma costretto il mal consigliato Pontefice dall’atteggiamento ostile della popolazione, pregò i ministri a rimanere almeno provvisoriamente ai loro posti, e spedì il Farini, in qualità d’inviato straordinario, al campo di Re Carlo Alberto coll’incarico di stipulare un accordo che mettesse a disposizione del principe sardo tutte le truppe pontificie che avevano oltrepassato il Po.
E il Farini rimase al campo fin dopo l’armistizio di Milano, epoca in cui tornò a Roma ove lo chiamavano i suoi doveri di deputato al Parlamento.
E non appena giunto a Roma, che sapendosi colà come Bologna, dopo aver eroicamente cacciati gli austriaci del generale Welden, fosse in preda all’anarchia, per la quantità di gente di male affare che si era introdotta in quella città, profittando delle circostanze anormali in cui si trovava, si pensò d’inviare il Farini stesso in qualità di commissario straordinario.
Il Farini giunse solo a Rologna, come narra nella sua Storia dello Stato Romano:
«Colà io giunsi inosservato, dice egli, circa il mezzogiorno del 2 settembre. I mali erano cresciuti e crescevano; erano due giorni che gli scherani uccidevano nelle vie e nelle piazze della città ogni lor nemico, ufficiali di governo, tristi e diffamati in verità, alcuni altri onesti.
«Gli uccidean coi colpi di archibuso, e se caduti davano segni di vita, ricaricavano le loro armi al cospetto del popolo e de’ soldati e sparavano di nuovo, o li ferivano colle coltella; davano loro la caccia come a fiere, entravano nelle case e li traevano fuori a macello. Un Bianchi, ispettore di polizia, giaceva in letto, ridotto all’agonia per tisichezza polmonare; entrarono, gli furono sopra e lo scannarono, presente la moglie e i figliuoli; i cadaveri restavano nelle pubbliche vie, spettacolo orribile. Io il vidi, e vidi dar morte e la scellerata caccia.
«Il cardinale Amat, che aveva annunciato il suo arrivo, giunse il dì appresso e gli fecero scorta al palazzo i popolani armati, nel tempo medesimo in cui gli scherani continuavano ad ammazzare. Non vi eran più giudici, non più uffiziali di polizia, chi non era morto, era fuggito o nascosto; la guardia civica inerme, rimpiattati i cittadini, i pochi soldati di linea, o confusi coi sollevati, o nulli per animo; i carabinieri ed i dragoni incerti, le legioni di volontarî, i corpi franchi, ai tumulti, non al governo.»
Non viene meno l’animo al Farini, e mediante la sua iniziativa, i carabinieri e i dragoni tornano a prestare il loro braccio all’Autorità, la guardia civica riprende cuore, si ritolgono le armi ai malandrini e i corpi franchi vengono spediti a Venezia; Bologna respira.
Ma poco dopo il Gabinetto presieduto dall’infelice Rossi prendeva nelle sue mani il potere e incominciava molte savie riforme e imprendeva di moderare l’andamento della cosa pubblica che prendeva già un indirizzo dei più pericolosi. Se non che l’assassinio di quel coraggioso uomo di Stato dette agli anarchici e ai Mazziniani causa vinta, ed al Farini, come a molti altri onesti, convenne esulare.
Si ritrasse in Toscana; ma non appena i Francesi ebbero occupata la città eterna, che chiesero di lui e vollero restituirgli le funzioni che esercitava sotto il passato governo.
Accettò il Farini, nella speranza di potersi di tal modo rendere utile ai proprio paese, e volle di fatti adoperarsi a mostrare ai generali francesi quali e quanti fossero gli abusi del governo dei preti; se non che questi, avvertiti, il destituirono, ed il Farini, temendo peggio, e non a torto, emigrò in Piemonte.
Qui incomincia un nuovo periodo d’esistenza per esso, in cui le sue principali occupazioni furono quelle di pubblicista.
Il Farini prese parte alla redazione della Frusta e del Risorgimento, nel cui officio si strinse in relazione col conte di Cavour, del quale doveva più tardi divenire l’intimo amico, e dette soprattutto opera a redigere la sua Storia dello Stato Romano, libro ch’ebbe il successo che ognun ricorda.
Fondò poscia il giornale il Piemonte, e si mise a dettare l’istoria d’Italia, in continuazione di quella del Botta, storia di cui vennero resi di pubblica ragione due volumi.
Conferitagli la cittadinanza dal Governo, egli non tardava ad essere eletto deputato al Parlamento subalpino, ove ebbe a rivelarsi parlatore, se non eloquente, almeno chiaro e logico.
Ricorderemo di volo com’egli nel 1852 facesse parte del gabinetto, presieduto dal cavalier Massimo d’Azeglio, in qualità di ministro dell’istruzione pubblica, e come in tutte le importanti discussioni ch’ebbero luogo in seno alla Camera elettiva egli prestasse sempre l’appoggio della sua parola al conte di Cavour, e soprattutto in occasione del dibattimento relativo alla spedizione della guerra di Crimea.
Ma dove importa che noi esaminiamo con qualche maggior esattezza la vita del Farini, egli è in quell’epoca che successe alla pace di Villafranca. Commissario del Regio Governo Sardo a Modena, il Farini dà, come i suoi colleghi che reggevano la Toscana, le Romagne e Parma, la propria demissione da quel posto, ma non esita un momento ad accettare, col titolo di dittatore, un’Autorità ben più estesa e delicata.
Le Romagne e la Toscana si dettero tosto premura d’imitare quel salutare esempio e costituirono de’ governi provvisorî, la cui prima cura fu quella di radunare armati, onde difendersi dall’armatella dell’ex duca di Modena, che questi sembrava accennasse a voler risospingere alla conquista dei perduti suoi Stati, e dai reazionarî e partigiani dei caduti sovranelli.
Ognun sa come riuscisse a bene questa veramente patriotica arditezza del Farini, e come le annessioni dell’Emilia fosse frutto di quella. A tanta opera il Re dette ricompensa veramente adeguata, fregiando il Farini del collare dell’ordine supremo della SS. Annunziata.
Poco tempo dopo, caduto il ministero Rattazzi e incaricato dal Re il conte di Cavour di comporre un nuovo gabinetto, affidava il portafogli dell’interno al Farini, che lo resse fino al momento in cui, compiuta l’annessione dell’ex regno di Napoli al regno italiano, il Re condusse seco il nostro protagonista nella capitale delle due Sicilie e gli affidò il supremo governo di quella provincia col titolo di suo luogotenente.
Molti hanno rimproverato al Farini di non esser riuscito nella sua missione, e di non aver valuto a districare quella intricatissima matassa delle cose napoletane. — In verità, quando si vede l’insuccesso di coloro che governarono dopo di lui, non si può in coscienza accusarlo d’essere stato di soverchio inferiore a sè stesso nell’accompimento della missione affidatagli.
La di lui salute ebbe molto a soffrire, durante il soggiorno da lui fatto in Napoli, ed ora per ristabilirla e prepararsi meglio alle gravi occupazioni che il paese è senza dubbio disposto ad affidargli, si è ritratto nella sua villa di Saluggia, ove vive vita privata, attorniato dalla sua famiglia e dai suoi più intimi amici.