Il Parlamento del Regno d'Italia/Giuseppe d'Errico
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deputato.
Il progresso civile ed intellettuale dei popoli, non è solamente l’effetto di avventurose contingenze: egli è una conseguenza dello spirito filosofico, che informa il carattere di un’epoca. L’epoca della rivoluzione francese del 1789, fu determinata dalla prevalente filosofia scettica, formulata e svolta, nelle migliaja di scritti dei volterriani, e degli enciclopedisti, e pertanto, le teoriche sanzionate col sangue dei martiri, da quell’epoca in poi, sono il riflesso della lotta, fra l’inevitabile progresso civile, e la reazione multiforme, dei potentati e del clero.
L’Italia deliberava alle medesime fonti, poichè le folgori di greca e romana sapienza, che fulminarono i tiranni dall’alto della tribuna francese, erano stati temprati in Italia, ove l’antica sapienza si ebbe ricovero. Laonde, l’eroica gara di quelle immortali individualità che s’immolavano volonterose alla scure del carnefice, trapassò dalla Francia, nelle italiane regioni. La città di Napoli e le provincie, ne furono insanguinate; ma sventuratamente la guerra civile e la cospirazione antiliberale prevalsero, e la lotta dei partiti trionfava. In uno di tali dolorosi episodi, Giuseppe D’Errico, avo paterno dell’attuale Giuseppe, ca deva trafitto da’ sicari del governo dispotico perchè di convinzioni liberali, ed integro nell’esercizio delle funzioni di governatore. Da quell’epoca incomincia una serie di persecuzioni, di carcerazioni,di confische, di esigli patiti dai signori D’Errico, che non ebbe fine che all’alba del risorgimento del 1860.
Da Mirsule ed Irene de Novellis, nel 1818, sortiva i natali Giuseppe D’Errico, nella città di Matera in provincia di Basilicata, ed ereditava i sentimenti liberali dei suoi maggiori, le cui tradizioni si rapportavano a lungo periodo d’italiane sciagure politiche.
Ed invero la famiglia D’Errico, per parte di donna, discende dalle illustri prosapie dei conti Fabbroni e D’Elci di Toscana, costretti anch’essi ad emigrare, nel secolo passato, per traversie politiche. Perlochè, le tradizioni e lo spirito degli avi accese nei nepoti la speranza di riscossa, che divampò nella rivoluzione del 1820; ma quel tentativo doveva fallire, e nuove sciagure si aggravarono su di questa bersagliata famiglia.
Alle lunghe vessazioni, con longanimità tollerati dal 1820 al 1848, successero più grandi compromissioni politiche nell’epoca suaccennata, le cui conseguenze divennero assai più delle precedenti.
Giuseppe D’Errico, nudrito dapprima di forti studi, tosto, nelle umane lettere, svolse acume d’ingegno e di aspirazioni poetiche; poi, nelle severe discipline matematiche e nelle scienze naturali, dette molto a sperare di sè, trasportando la vaghezza del ritmo, nello sterile campo della pallida scienza. Fin dal 1840 egli aveva frequentati gli studi scientifici in Napoli ed in Roma, ed in quest’ultima città dedicossi allo studio delle lingue semitiche, frequentando il collegio di Propaganda Fide, e quei due colossali ingegni poliglottici, del Majo e del Megrofanti.
Rientrato in Napoli, dopo varî anni passati a Roma, vi riscosse la laurea dottorale d’ingegnere-architetto, e diessi ad esercitare la professione con grande decoro e plauso.
Pubblicava intanto per la stampa un progetto di statistica, che venne assai bene accolto e lodato dai giornali, e da compilatori degli annali civili del regno di Napoli, e varî rapporti intorno ad affari della sua professione.
Ma la maturità dei tempi si andava appressando, ed il D’Errico ne presentiva lo scoppio imminente; recossi adunque in Napoli nel 1848, e diessi a tutt’uomo ad organizzare, insieme ad altri amici liberali, la rivoluzione che si diffuse in tutte le parti del Regno, per mezzo del Comitato Centrale, di cui il D’Errico era segretario, e della compilazione del giornale, il Nazionale.
Il rapido svolgere dei tempi dimostrò tantosto che faceva mestieri dedicarsi all’azione, e per tale obbietto il D’Errico spiccossi da Napoli, col pretesto di concorrere alla pacificazione tra le truppe comandate dal generale Pronio nella cittadella e gl’insorti nella città di Messina.
Re Ferdinando fingeva di accedere alle viste di una commissione di cui D’Errico faceva parte per lo scopo indicato; ma sottesso meditava la demolizione della costituzione commessa a malincuore, ed il D’Errico non si dissimulava tali pericoli, onde la sua gita a Messina fu meglio diretta ad intelligenze rivoluzionarie in Sicilia e Calabria che a persuadere il feroce Pronio di non bombardare quella città.
Quella missione difatti non riusciva a nulla, e Napoli si preparava a nuova rivolta.
I dolorosi avvenimenti del 15 maggio 1848 furono una conseguenza dell’ostinazione e della mala fede borbonica, ed il D’Errico, cui faceva compagnia Carlo De-Cesare che ora gli siede pure accanto in Parlamento, furono, dopo vana ed ostinata resistenza, costretti ad abbandonare le barricate e rifuggirsi sul vascello ammiraglio della flotta francese, comandata dall’ammiraglio Boudin.
Breve fu la sosta sui legni francesi. Il D’Errico corse nella sua Basilicata a riportarvi le notizie della catastrofe del 15 maggio. Allora suo zio Vincenzo D'Errico, uomo di grande autorità ed ingegno, raccolse intorno a sè gl’influenti e chiamò dalle altre provincie i deputati a generale dieta che con atto solenne di memorandum protestò contro le inumanità dei Borboni.
Il dado era tratto, ed il Giuseppe D’Errico corse ad arruolare molti generosi per marciare in Calabria, onde riunirsi agli altri, e poscia su Napoli.
Il Borbone dissimulò di cedere e dimenticare le offese e convocò il Parlamento, nel quale Vincenzo D’Errico fu deputato; ma Giuseppe non si arretrò mai dal sostenere che coi Borboni non bisognava transigere e finirla con una rivoluzione.
Gli fu forza pertanto di rinviare i volontari arruolati; ma ben presto il Parlamento fu sciolto, la costituzione manomessa e il partito liberale schiacciato. Vincenzo D’Errico emigrò in Francia prima, e poscia in Piemonte, dove perdette miseramente la vita dopo sette anni di esilio.
Giuseppe, dopo lunga latitanza nei boschi e tra le balze di Basilicata, fu costretto a costituirsi in prigione, ove rimase per due anni sino al 1832; quando, tradotto a pubblica discussione innanzi alla Gran Corte Criminale di Basilicata con rubrica e requisitoria di morte, fu liberato; ma costretto prima per amara derisione a forzati esercizi spirituali in un convento di frati riformati, poi a domicilio coatto, con inibizione di esercitare la propria professione.
Scrisse il D’Errico nella prigione le Georgiche italiane e continuò ad esercitarsi nei famigliari suoi studi.
Venuto il 1860, e quando Garibaldi non ancora aveva passato lo stretto di Messina, la Basilicata insorse unanime, e gran parte il D’Errico si ebbe in quei movimenti, dappoichè prima diffuse la rivoluzione in Terra di Bari, e poscia, come maggiore della Guardia nazionale, s’adoperò con taluni distaccamenti di linea alla repressione della ribellione del Melfese, restituendo alla devozione del Governo italiano le città insorte del circondario di Melfi.
Per tali importanti servigi venne decorato della croce dei SS. Maurizio e Lazzaro.
Il D’Errico vacava ai suoi studi diletti ed esercitava in Napoli la sua professione d’ingegnere, allorchè nel 1863 venne con grande maggioranza eletto deputato dal collegio elettorale di Potenza in Basilicata.
Questa circostanza e l’esercizio dei nuovi e grandi doveri gli hanno impedito di continuare la pubblicazione di altri suoi lavori. Attualmente si occupa a pubblicare un operetta sul commercio ed il grande e piccolo cabotaggio in Italia.
Egli è socio dell’Accademia Pontaniana, dell’Istituto Archeologico di Roma, di quello di Prussia e di altre Accademie.
Fin qui le notizie trasmesseci da persona che conosceva molto davvicino il D’Errico, e che era punto in grado di parlarne con molta cognizione, come lo si può del resto giudicare da quanto sopra è stato esposto.
Ora ci conviene dire alcunchè delle opere pubblicate, o in via di pubblicazione, non tanto per darne un idea abbastanza chiara al lettore, che in queste brevi pagine nol potremmo, quanto perch’egli sappia almeno, di che cosa in esse si tratti.
Le Georgiche italiane, sono state dall’autore compite e in parte di già date alla luce, nello scopo seguente, che vogliamo lasciare definire al chiaro scrittore. «Le peculiari condizioni topografiche, la geologica natura del suolo, e la geoponica suscettibilità dello stesso, favorirono lo sviluppo delle facoltà caratteristiche della produzione agricola, di ciascuna regione. La specialità degli elementi commerciali, e la varietà dei risultamenti tecnici, determinarono la natura, delle risorse economiche, dei vari centri di attività sociale.
Ma nella penisola italica, la condizione areografica e idrografica, la mitezza del clima, e la somma idoneità, per qualunque risorsa, sia dell’agricoltura che della pastorizia e del commercio, sono altrettanti dati che concorrono ad attollere a sublime altezza, la nazionale prosperità, e la popolare ricchezza, sventuratamente però, nella lunga lotta, che la intelligenza sostenne avverso la barbarie secolare dei despoti, la libera attività delle forze produttive degli italiani, non si giovò dei principi teoretici, e fu costretto ad ignorare, i risultamenti della pratica delle altre nazioni.
L’Italia presente, componendosi alla maestà dei proprî destini, aspira al grado di grande nazione, onde ciascun cittadino di questa classica sede dell’ingegno e dell’arte, sente l’obbligo di accrescerne il decoro e la possanza, mercè l’istruzione della classe operosa».
Animato da tale desiderio, il chiaro autore, imprese appunto la pubblicazione delle sue Georgiche, all’oggetto di includervi tutto quanto lo stato presente della scienza e della pratica,, erogar potesse in benefizio dell’agricoltura, della pastorizia, e in generale delle arti tutte, relative alla produzione campestre.
All’oggetto poi di rendere meno arida la esposizione delle teorie agricole, egli le ha tratteggiate poeticamente. Una gran parte della prolusione storica, economico-politica, relativa allo sviluppo progressivo della scienza rurale, e dell’industria, è già fatto di ragion pubblica.
Un altro suo opuscolo che merita ricordanza, per la profondità delle osservazioni, e l’esattezza dei dati, in esso contenuti, è il suo Breve cenno delle condizioni politiche, morali ed economiche dell’Italia del Sud, opuscolo che fu scritto e pubblicato in Napoli nel 1860, ed inviato ai consiglieri della luogotenenza.
Il D’Errico infine, ha messo alle stampe sullo scorcio dell’anno 1863, un altro suo libro oltremodo interesante, corredato di tavole statistiche e sinottiche non chè di una pianta generale della provincia di Basilicata, e di porto di quella di principato Citra, colla indicazione delle strade nazionali, provinciali e comunali, ch’egli ha intitolato Idea di uno sviluppo di Strade nazionali nella provincia di Basilicata coerentemente alle peculiari condizioni economiche ed alle diramazioni ferroviarie, del gran sistema stradale italiano, libro del quale si avrà certo a tenere gran conto, nella costruzione che stà per imprendersi di strade nazionali, nella provincia nativa del cavaliere D’Errico.
Nel Parlamento, il nostro protagonista ha votato sempre col ministero, convinto che a conseguire il sublime scopo dell’unità italiana, fa di mestieri esser concordi, e aver fiducia negli uomini, che il Re Galantuomo chiama a sedere nei suoi consigli. L’opera ai lavori parlamentari, prestata dal D’Errico, è stata delle più attive, mentre egli ha sempre assistito alle pubbliche discussioni, non chè a quelle degli uffici, che lo hanno spesso nominato, a far parte d’importanti commissioni.