Il Parlamento del Regno d'Italia/Giovanni Manna
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senatore.
Dotato di una mente elevata, di molta gentilezza di sentire, dedito fin dalla più giovine età agli studi i più seri in cui fece copiosissimi progressi, il Manna si trovò fra quegli uomini più distinti ed eletti, che nel 1848 in Napoli vennero dalla opinione pubblica designati a doversi mettere alla testa del governo.
Quindi il Manna fu allora ministro, poscia, e troppo breve tempo dopo salito al potere, una volta che il Borbone ebbe insanguinate le strade di Napoli, e mancato alla fede promessa, il Manna si ritirò dalle pubbliche faccende, e visse vita privata.
Se non che nel 1860 Francesco II minacciato di un invasione da Garibaldi già vittorioso in Sicilia, volle tentare di scongiurare la tempesta che gli romoreggiava sul capo, e che era in procinto di svellerlo da quel trono che Ferdinando I, e Ferdinando II avevano colla loro insopportabile tirannia mina to fin dalla base, volle tentare, diciamo, di scongiurare il pericolo col con cedere tardivamente liberali istituzioni al Napoletano, e collo spedire due ambasciatori al governo di Re Vittorio Emanuele, onde indurlo a stringere con esso un’alleanza offensiva e difensiva, dalla quale si riprometteva la salvezza.
Uno di questi ambasciatori fu il barone di Winspeare, l’altro il commendatore Manna.
Quest’ultimo esitò alquanto ad accettare la missione che voleva affidarsegli; pure credette in ultimo a ciò indotto dagli amici coi quali consigliavasi, di dovere accettare l’incarico, fidando di potersi in questa guisa render utile alla patria. Cosi egli venne a Torino e si mise in rapporti con quel grand’uomo di Stato che fu il conte di Cavour, il quale se non credette opportuno di dover subito respingere le proposte recate dai due incaricati di Francesco II, volle studiare la capacità e l’indole di questi onde viemmeglio e più vantaggiosamente per l’avvenire della patria unita trattare con essi.
Il Manna apparve subito agli occhi del conte di Cavour, come quell’uomo che aveva qualità specialissime a renderlo utile nell’amministrazione del novello Stato. Quindi nel mentre, maturati i tempi, rispondeva chiaro con un rifiuto all’inviato del Borbone, nel punto stesso proponeva a quest’ultimo di lasciare un servizio odioso, ed abbandonare una causa ormai disperata, per dedicarsi tutto alla patria nostra.
Il Manna cui gli antecedenti suoi e le proprie disposizioni d’animo irresistibilmente consigliavano di accogliere questo partito, accettò le offerte così gentilmente e opportunamente fattegli, ed entrò di tal guisa, con l’importante carica di direttore generale delle gabelle, nell’amministrazione dello Stato.
Nominato regio commissario per sostenere la discussione intorno ai progetti di leggi di imposta ebbe campo di rivelare nelle due camere la profondità delle sue cognizioni in fatto di economia e di finanze. Più tardi ei venne elevato alla dignità di Senatore, e da quel momento prese ai lavori di quest’Assemblea una parte delle più attive.
Caduto, dopo il doloroso fatto d’Aspromonte, il ministero Rattazzi, il Manna fu chiamato a far parte del nuovo gabinetto costituitosi sotto la presidenza Farini.
Gli fu affidato il portafogli di agricoltura e commercio, ch’egli tenne con molta operosità e con abilità non ordinaria. I deplorabili avvenimenti accaduti nel settembre a Torino occasionarono il ritiro del gabinetto di cui era membro il Manna, ma noi siamo convinti che il modo col quale egli si è diportato trovandosi al potere, non mancherà in una prossima occasione di farlo entrare di nuovo nei Consigli della Corona.
Noi abbiamo parlato più sopra del discorso proferito dall’onorevole Manna in propria giustificazione, rispondendo alle punture fattegli dal deputato Saracco.
Allora non avevamo il testo di quel discorso sotto gli occhi, ora essendocene stata comunicata gentilmente una copia, tal quale dalla stenografia fu ritratto per la Gazzetta Ufficiale, crediamo merito del l’opera il riprodurlo qui testualmente:
«Manna, ministro per l’agricoltura e il commercio: Prima che la discussione sul grande argomento finanziario incominci, io domando la parola per un fatto personale.
«Certe armi non dovrebbero usarsi giammai in una fianca e leale opposizione, certi ricordi riescono sempre scortesi ed ingenerosi quando si riferiscono a precedenti individuali delle persone che si vogliono combattere nell’arena parlamentare.
«È da qualche anno che ricordi di questa specie da una voce purtroppo autorevole, furono rivolti a coloro che sedevano sui banchi ministeriali. La coscienza della Camera ne parve offesa, e la Camera continuò la sua fiducia a questi uomini.
«L’onorevole Saracco parve che volesse ritentare la prova quando ieri mentre attentamente io ascoltavo il suo discorso, e mi pareva di non sentire che una vera e seria discussione finanziaria, prese occasione, non so come, dal banco di Napoli per parlare di me. Credo che l’occasione non fu felicemente scelta, giacchè per quanto abbia potuto sforzarmi di ricordare, io non ho ritrovato alcunchè nei crediti di quel Banco che si riferisca al prestito da me fatto.
«Sia comunque, egli volle ricordare alla Camera che io era stato ministro napoletano nel 1860, che io era venuto qui a trattare la lega, che io aveva fatto un certo prestito pel tesoro napoletano.
«Sta bene; sono cose che tutti conoscono. L’onorevole Saracco, non ha trovato nessuna cosa nuova, tutto quello che è accaduto è conosciuto.
«Signori sì, è ben vero che nella rivoluzione del 1848 io era stato tratto dal mio modesto ed oscuro ritiro, e aveva diviso il portafoglio con amici che seggono ora con lode ed onore nel Parlamento italiano, portafoglio col quale allora si rischiava l’ergastolo e il patibolo, portafoglio che ci doveva cadere di mano in mezzo ai cannoni ed ai saccheggi del 15 maggio (Benissimo).
«Dopo un intervallo angoscioso di altri dodici anni una novella rivoluzione napoletana mi traeva di nuovo riluttante e ricalcitrante dal mio ritiro....
«Una voce a sinistra. Benissimo!
«Manna, ministro. E mi riconduceva quasi alla stessa posizione del 1848 .
«Uomini autorevoli vollero che io accettassi per quanto duro fosse il sacrifizio .
«Si trattava di riprodurre le libertà del 1848, si trattava di aprire le carceri e gli ergastoli e di rompere gli esigli ad infinita gente che gemeva, si trattava di cosa anche più nuova e maggiore, si trattava di stringere una larga alleanzı offensiva e difensiva con unificazione di amministrazione, di dogane e di monete tra l’Italia inferiore e l’Italia superiore . Questa idea parve allora grande e generosa. Io assunsi l’incarico e non riuscii, e fu benissimo (a destra: Bravo!) perchè venne cosa infinitamente più bella e più grande, venne la unità.
«Ma se quella cosa più bella e più grande non fosse miracolosamente e inaspettatamente venuta; se non avesse così stupendamente invaso la mente d gli Ita liani da far tacere tutte le opposizioni interne ed esterne, certamente quella soluzione più modesta che io proponeva era ciò che c’era di meglio a fare (a sinistra: Bene!).
«Io non feci nulla che non fosse palese a tutti gli amici, ed operai lealmente è seriamente (Benissimo).
«Il grande uomo col quale aveva l’onore di trattare, e che mi stendeva spesso la mano non mi fece mai il torto di dubitare che io non operassi con per fetta serietà e sincerità.
«E se ora in qualche parte si dicesse che io non feci davvero, io sono certo che i miei amici di qua, i miei amici che mi conoscono direbbero il contrario, direbbero che io feci pur troppo veramente e seriamente.
«E feci pure seriamente e veramente quando di mezzo a difficoltà infinite feci discendere alcune diecine di milioni nelle casse vuote ed esauste del tesoro napoletano.
«Io non doveva sapere se quei milioni andassero a pagare i poveri impiegati, i pensionisti, i creditori di Stato, o se dovessero servire a far la guerra a Garibaldi. Io adempiva ad un dovere d’officio e non ne doveva sapere di più.
«Se tuttavia quella somma, quei milioni per l’inesplicabile fortuna del generale Garibaldi, per l’inesplicabile fortuna che allora conduceva le sorti d’Italia, invece di cadere in mano al vecchio governo caddero tutti in mano al nuovo, servirono precisamente al governo di Garibaldi, servirono a sopperire alle prime esigenze del governo dittatoriale, se questo avvenne non fu per mio merito, fu caso, fu oltre la mia intenzione.
«Io respingerei con indignazione a chi me ne volesse far qui una lode (a destra: Benissimo! Benissimo!), come respingo con disprezzo le accuse contrarie che mi vengono dall’altra parte (Bravo!).
«Ad ogni modo, questa penosa e dolorosa storia di due mesi fini; io mi ritrassi nel silenzio, nel mio ritiro privato e volevo rimanervi. Invece degli ergastoli e dei patiboli di cui si poteva temere, io vedeva l’Italia trionfare, le popolazioni esultanti, i suoi giovani eserciti vittoriosi, l’unità proclamata, il voto nazionale espresso, ed il mio povero sogno d’alleanza ricordato con un sorriso di compatimento (Benissimo! Bravo!).
«Signori, confesso la inia debolezza, non ostante il mio poco successo, io non mi dolsi, non mi afflissi, anzi, chechè ne dicano i miei nemici, quasi involontariamente me ne rallegrai, quasi involontariamente la gioia s’insinuò nell’anima mia.
«Se non che io sentiva bene i doveri della mia posizione; io mi ritrassi da banda, io volli decisamente rimanere nel mio ritiro e tenere un contegno di assoluta astensione.
«Sapete che avvenne? Cominciai a ricevere lodi, encomi, approvazioni da coloro da cui meno le desiderava, da coloro che non sapevano vedere nel mio contegno altro che una disapprovazione, un aborrimento della novità .... (sensazione). Peggio ancora, io sentivo di quelli che mi lodavano di uomo savio e prudente, di quelli che mi dicevano: Aspettate che le cose si rischiarino e si rassodino, non arrischiate la terza volta come avete arrischiato nel 1848 e nel 1860.
«Signori, queste lodi, questi avvisi mi rivoltarono la coscienza (segni d’approvazione). Io dissi allora a me stesso: se questo mutamento di cose ti piace, se queste nuova arena t’alletta, entraci ora, ora che si rischia, ora che si combatte, ora che l’uomo si compromette... (vivi segni d’approvazione), ora che si svegliano le ire di coloro che ci riguardano, ora ormai più un abisso è già fra il passato e il presente, ogni relazione è rotta non per tua colpa, ma per tua opera; puoi dunque ben cedere alle premure benevole degli amici che ti dicono che questo ozio, che questo contegno d’astensione è un oltraggio al paese.
«Io dunque mi lasciai vincere, io mi volsi prima all’insegnamento universitario, mi occupai poscia del l’amministrazione e del riorganizzamento delle dogane del regno. Voleva non toccare alla politica, ma quelli stessi uomini che ora seggono in certe parti della Camera mi credettero capace d’entrare in Parlamento.
«Cosa porta cosa, e io mi arrivai sino a questo malaugurato banco, dove mi tocca sentire le amare parole dell’onorevole Saracco (movimento). È possibile che io abbia errato, è possibile che io abbia troppo facilmente accondisceso alla benevole insistenza degli amici, ma mi permetta l’onorevole Saracco che io se ho errato, non mi consulti con lui, ma mi consulti coi molti e sinceri amici che mi hanno onorato dei loro consigli, e credo mi onorano ancora della loro stima e benevolenza. (Vivi applausi dalla destra e dal centro; il ministro siede vivamente commosso, vari deputati vanno a stringerli la mano)».
Nè questa è la sola citazione che ci proponiamo di fare dei discorsi parlamentari proferiti dall’egregio commendatore Manna. Nella recentissima discussione avvenuta in Senato intorno al trasferimento della capitale a Firenze il Manna ebbe a pronunciare un’orazione delle più importanti, tanto pel suo valore intrinseco, quanto perchè conteneva la difesa e l’apologia del ministero del quale egli aveva fatto parte a cui la Convenzione con la Francia è dovuta. Questa orazione pertanto noi crediamo pure essere debito nostro di riprodurre qui per intero, come uno di quei documenti che deve registrare nelle eterne sue pagine l’istoria. Eccola adunque:
«Signori, quando un governo rende conto al paese della sua condotta, due cose si domandano da lui: gli si domanda non solo se ha abbastanza rispettato i principi di progresso e di libertà che fanno il moto e la vita delle nazioni, ma gli si domanda ancora se ha abbastanza rispettati gli alti principi conservativi che fanno -la forza e la solidità degli Stati; ma in un consesso come questo composto di uomini gravi, preoccupati sovra tutto del rispetto alle leggi ed alle tradizioni, io credo che un governo debba principalmente dimostrare che ha avuto a cuore la conservazione delle grandi norme, dei grandi principi d’ordine e credo quindi che la più grave accusa che possa risuonare in un recinto come questo sarebbe quella che dicesse: voi avete scosse le basi dello Stato, voi avete compromesse le istituzioni del paese, voi avete tirato il governo in una via di avventure e di pericoli.
«Signori, voi lo sapete, rimproveri ed accuse di questa specie sono risuonati appunto in questo recinto contro il governo che segnò la Convenzione del 15 settembre ultimo, e quello che è più doloroso, sono uscite dalla bocca di persone venerande, dai consigli e dagli insegnamenti delle quali siamo soliti prender norma alla nostra condotta.
«Fortunatamente risposte splendide sono state date a molte di quelle accuse, ed io ricordo con piacere quelle date dall’illustre Mamiani, quelle date dal presidente del Consiglio, quelle date jeri dall’onorevole Durando; ma io credo che le migliori risposte sieno quelle che si attingono dallo scopo e dalla natura della Convenzione stessa.
«E non incresce a me mettere in questo grave argomento la mia parola, perchè io credo poter dimostrare che il Governo a cui ho avuto l’onore di appartenere, ha fatto veramente una politica seria, una politica onesta, una politica conservativa, che è ciò che sopratutto incombe di dimostrare in questo recinto.
“Permettemi, o signori, di ricordarvi che quando la Convenzione del 15 settembre è stata manifestata all’Europa, ne è nata come una preoccupazione universale; per più mesi non si è parlato, non si è disputato che della Convenzione, e la questione italiana ha dominato e quasi soffocato tutte le altre.
Perchè questa meraviglia? perchè mai l’Europa si è commossa tanto, che la commozione eccitata nel l’esterno è stata quasi più forte di quella eccitata nell’interno? Sapete perchè, o signori? Perchè l’Europa da più di 15 anni assisteva a uno dei più curiosi ed insoliti spettacoli diplomatici, alle relazioni sempre più dubbie, varie, incerte tra il Governo imperiale di Francia e la lottante e crescente nazionalità italiana. La Convenzione tutt’insieme è venuta come a sviluppare, a chiarire queste relazioni, sicchè in certo modo si è potuto argomentare il passato e indovinare l’avvenire; l’Europa per dir così ha aperto gli occhi ed ha creduto specialmente che un’Italia ci era, poichè il potente e silenzioso imperatore si risolveva finalmente a prenderla per mano e quasi a tirarla in mezzo alle grandi risponsabilità della politica moderna. Vediamo infatti come le cose erano precedute.
«Le influenze straniere in Italia erano state per secoli varie e molteplici, e da ciò, come suole accadere, era nata occasione a qualche eccitamento delle libertà interne. Poi tutto era peggiorato quando queste influenze si erano ridotte ad una sola, all’influenza austriaca, la quale era divenuta assiderante e desolatrice.
II 1898 aveva portata una gran novità . Il presidente della Repubblica francese ne aveva presa occasione, come sapete, per mandare i suoi eserciti a combattere e quindi ad occupar Roma. Ecco dunque una nuova occupazione straniera in Italia, ciò doveva parere a tutti un aggravamento di condizione, poichè il gran tentativo d’indipendenza pareva non aver prodotto altro resultato che di raddoppiare le catene. Eppure una mente acuta avrebbe immediatamente compreso che quella doppia occupazione faceva risorgere le antiche opportunità; la nuova occupazione infatti aveva assunto il pretesto migliore che rapiva all’Austria, cioè il pretesto della protezione del Papato.
«Aggiungete che questa nuova occupazione francese ricordava il decennio dell’altra occupazione imperiale, onde era facile ritornare colla mente a ciò che allora era accaduto; e c’era insomma tale differenza tra le due occupazioni che si poteva prevedere che avrebbero conseguenze diverse.
«Fortunatamente in quel tempo appunto un virtuoso Governo in un angolo d’Italia aveva avuto il coraggio di mantenere in piedi un regime liberale, e questo Governo si vedeva già a certi segni in qualche intelligenza con quel secondo occupatore della penisola. Venne un momento a cui a grande meraviglia dell’Europa gli eserciti di questo piccolo Stato si videro combattere a fianco agli eserciti Francesi e Inglesi in una guerra famosa agli estremi di Europa. Più tardi si vide un rappresentante di questo medesimo Stato comparire in un Congresso e parlare per la prima volta dei diritti e dell’indipendenza d’Italia.
«Più tardi ancora, e questa fu la maggiore delle meraviglie, quel secondo occupatore apparve co’ suoi eserciti a fianco degli eserciti Italiani, e a far che a combattere l’occupatore più antico, a respingerlo al di là di un importante provincia; e ad aggiungere questa provincia al piccolo Stato italiano di cui si era fatto apertamente alleato.
«Parve allora chiaro che il secondo occupatore prendeva il contegno di liberatore del paese è mostrava quasi di non essere entrato in Italia che per cacciarne gli Austriaci.
«Se non che, o signori, dopo questi primi felici avvenimenti le cose cominciarono di nuovo ad oscurarsi.
«Alla cessione della nuova provincia conquistata succedeva la perdita di qualche antica provincia nazionale. Poi si parlò di non so quali nuove combinazioni politiche tra le province antiche e le nuove; poi successero malumori e parole dure.
«A poco a poco il Governo francese aveva ripreso quel contegno muto e bieco, sicchè all’insistenza del Governo italiano non dava più risposte chiare e concludenti, tanto che infine l’Europa aveva detto: il Governo francese appoggia fino ad un certo punto il Governo italiano, ma egli è ben deciso di tenere la sua influenza nella penisola; egli è ben deciso di profittare della protezione del Papato per tenere colà i suoi eserciti, e per usarne forse nelle future evenitualità della politica europea.
«Ebbene, o signori, in mezzo a queste ritornate ambiguità è sopravvenuta la Convenzione del 15 settembre. Essa ha mutato da capo a fondo tutte le congetture dell’Europa rispetto alle relazioni tra l’Italia e Francia.
«Il Governo dice: - Io ritiro i miei eserciti, - dunque la tradizionale pretensione d’influenza politica in Italia è abbandonata. Il Governo francese mette in certo modo l’Italia in luogo suo nella protezione del Papato: dunque anche questo impegno, anche questo pretesto di occupazione militare è abbandonato!
Sicchè i fatti che servirono come di sostegno alle argomentazioni dell’Europa sono mancati; vi è quindi una novità così forte che bisogna ricominciare i ragionamenti da capo.
«Ecco, o signori, la ragione per cui l’Europa ha dato tanta importanza, si è tanto commossa all’apparire della Convenzione, nulla vediamo adunque che cosa vi è dentro questa Convenzione, vediamo come questa meraviglia di Europa sia giustificata.
«Io dirò prima di tutto che il corso degli avvenimenti doveva da per sè stesso far prevedere le novità. Mentre la Francia conservava colà le sue truppe, l’Italia procedeva nella sua via, si che l’unificazione di questo gran paese non era più un desiderio, un progetto, una possibilità, ma diventava ogni giorno più un fatto, una realtà. Ora se si può conservare influenza sopra i piccoli Stati, con i grandi Stati non ci è che alleanze ed amicizie. Era chiaro adunque che la pretensione d’influenza politica in Italia mancava ogni giorno più di fondamento. Ma messa anche da banda la pretensione d’influenza politica il protettorato del Papato esercitato in modo che significasse difesa del Papato contra l’Italia, come se l’Italia non comprendesse i suoi veri interessi, anche questo protettorato diventava ogni giorno più strano e più irragionevole. Quella politica dunque doveva essere abbandonata; il Governo imperiale di Francia doveva riconoscere che la questione romana era una questione d’interesse e di diritto italiano, e doveva per conseguenza mutare la posizione delle cose e con qualche accordo sostituire una posizione più accettabile e più ragionevole. È questo che io intendo che abbia fatto la Convenzione. Mi corre l’obbligo dunque di dimostrare brevemente questo che dico, cioè che la questione romana sia una questione d’interesse italiano e quindi di di ritto italiano .
«Signori, che la questione romana sia una questione d’interesse italiano, io lo credo di una evidenza perfetta. Se guardate le apparenze oggi tutto sembra dire il contrario, una serie di errori, una serie d’accidenti hanno messo il Papato rimpetto all’Italia, e l’Italia rimpetto al Papato in una deplorabile condizione .
«Il Papato si presenta oggi all’Italia come nemico all’Italia e come alleato dello straniero, quindi ostacolo alla sua indipendenza, come contrario allo svol gimento delle libertà interne; quindi ostacolo all’unificazione, al ravvicinamento delle diverse parti del suo territorio. Cosi si presenta all’Italia oggi il Papato e di questo è occasione potentissima il potere temporale.
«Il potere temporale ch’è da dieci secoli in mano del Papato ha recato tradizioni, abitudini e massime, le quali sembrano incarnate con quella istituzione ed hanno fatto sì che di passo in passo il Papato si è chiuso in una cerchia di diffidenze e di sospetti, che lo dividono sempre più dall’Italia; hanno fatto si che il Papato si trovi quasi fuori d’Italia, e oserei dire di più, l’Italia quasi fuori del mondo cattolico.
«Ma, signori, è questo il vero stato delle cose? È questa l’espressione della verità? No, o signori; il Papato è talmente nell’interesse d’Italia, ch’è impossibile staccare le sorti dell’uno da quelle dell’altro. Mi bastano due osservazioni.
«La Nazione Italiana è la nazione più cattolica del mondo, ella è per così dire impregnata di cattolicismo fino alla midolla. Non vi è in Europa una nazione, la quale rappresenti una massa più compatta di credenti come quella d’Italia.
«Le sue arti, le sue tradizioni, i suoi monumenti sono tutti improntati di cattolicismo.
«Credete voi dunque, o signori, che possa mai l’Italia dimenticare il pontificato cattolico, ovvero separare le sue sorti dalle sorti di quello?
«Le cose oggi hanno una certa apparenza che inganna. Lasciate calmare le ire, lasciate tornar tutto al suo posto, e poi vedrete quale enorme peso avranno le creslenze delle moltitudini.
«Fo una seconda osservazione. Mentre in Italia vi è sì stretto legame tra il Papato e le credenze religiose del paese, quello che accade di fuori è anche più importante.
«Signori, voi lo vedete già a chiari segni, le quistioni religiose ricevono per tutto un nuovo impulso; le quistioni religiose tra pochi anni invaderanno l’Europa.
«Ora io credo che ciò che meno avanzerà in questo gran movimento, ciò che meno guadagnerà sarà il protestantismo, le dottrine religiose eterodosse e dissidenti. Io credo invece che per certo intervallo di tempo l’importanza e l’efficacia maggiore sarà quella delle grandi e potenti scuole filosofiche e che l’opera de molitrice ch’esse fanno rispetto alle credenze ed alla rivelazione sarà ben grande. Io m’immagino ch’esse spianeranno e sgombreranno quasi interamente il terreno. Ma, o signori, a quest’opera seguirà nelle coscienze una reazione grandissima, a questa demolizione seguirà una riedificazione generale delle credenze.
«Ebbene, è mia opinione, e credo non ingannarmi, che questa reazione delle coscienze sarà tutta a benefizio del cattolicismo e che questo ritorno alla fede non sarà a profitto delle dottrine protestanti, ma delle cattoliche; ed allora a questo trionfo sarà necessariamente legato il trionfo del pontificato cattolico.
«Io ricordo, o signori, ciò che alcun tempo fa uno dei più distinti oratori dell’altra Camera del Parlamento diceva, parlando appunto di ciò. Premettete ch’egli si dichiarava la negazione del Papato, onde non si può dubitare dell’imparzialità del suo giudizio. Egli dunque riconosceva tale avvenire nel Papato, che facendo il caso d’un nuovo grande impero francese, affermava che l’Italia insieme col papa capo spirituale della cattolicità, avrebbe potuto ben tener fronte al gigante, perchè sarebbero stati due contr’uno, due contr’uno nel senso che l’Italia colla sua novella unificazione, ed il papa colla sua immensa influenza esteriore avrebrero potuto resistere a chicchessia.
«Questa sua opinione io traduco nel senso mio e dico, il pontefice col futuro trionfo del cattolicismo sul protestantismo avrà acquistato una forza immensa di cui l’Italia potrà profittare.
«Ma checchessia, signori, di questa mia opinione io ne voglio trarre solo la conseguenza che l’interesse dell’Italia, essendo legato alle sorti del pontificato cattolico, perchè l’Italia è nazione essenzialmente cattolica, e perchè i trionfi futuri del cattolicismo potranno essere a suo profitto, sarebbe una colpa, una follia dividere le sorti dell’una da quelle dell’altra.
«Se non che a mio avviso le sorti dell’una sono già talmente legate a quelle dell’altra, che forse al papa medesimo non riuscirebbe di separarle.
«Non vi meravigliate di questo straordinario linguaggio. lo considero che insomma il papa non potrebbe staccarsi dall’Italia, per altro che per la sciagurata questione del potere temporale. Voi conoscete quello che dicono contro l’Italia i giornali clericali stranieri: essi ci fanno accusa tremenda per la ripugnanza che noi abbiano a lasciare il potere temporale al papa, e per la guerra che fanno gl’Italiani al potere temporale.
«Ma, signori, credete voi che se il povero papa avesse la cattiva idea di muoversi d’Italia, e di andare cercando altrove un potere temporale lo troverebbe facilmente? Signori, siate certi che que medesimi scrittori di giornali cattolici, che quei medesimi ardenti suoi difensori gli direbbero a caro ch’essi sono disposti a circondarlo di tutta la venerazione possibile, ma che essi non potrebbero permettere che prendesse dove che sia un lembo di terra, essi gli direbbero che il territorio nazionale è uno ed indivisibile che tutto si può permettere, fuorchè staccarne una porzione per dare sopra di essa l’esercizio di sovranità a chicchessia, fosse anche il papa.
«La ricerca adunque di un potere temporale non potrà essere mai una ragione di separare il pontefice dall’Italia, perchè se un potere temporale non si tiene facilmente in Italia, non si trova e non si tiene molto meno in nessun’altra parte dell’Europa cattolica.
«Io concludo, o signori, da tutto ciò che l’interesse che ha l’Italia alla conservazione e rispetto del pontificato cattolico presso di essa è un interesse vero e permanente ch’è impossibile negare. Da ciò arrivo ad una deduzione che mi pare egualmente evidente.
Se è così d’interesse italiano il rispetto e la con servazione del Papato, è facile dimostrare che con questo interesse v’ha un certo diritto, ossia che la questione romana non solo è d’interesse italiano ma è ancora in certo modo di diritto italiano, che il Papato in quanto alla sua missione religiosa, in quanto alla sua dignità e autorità religiosa appartenga a tutto il mondo cattolico è inutile dirlo.
«Ma per tutto ciò che riferisce alle sue esteriori condizioni di esistenza, alla sua maniera pratica di essere in mezzo a quel paese, a quella nazionalità in mezzo alla quale si trova collocato, tutto ciò può credersi che appartenga più propriamente a quelle nazionalità che alle altre; poichè la questione dei mezzi esteriori è fino ad un certo punto indipendente dall’alta missione del Papato medesimo.
«Io per esempio non saprei riconoscere nè in Francia, nè in Ispagna, nè in Austria, nè in Portogallo, nè in qualunque altro governo cattolico il diritto di venire a designare le condizioni, i modi di esistenza esteriore del Papato in Italia. L’Italia è investita naturalmente del diritto di occuparsene e di trattarne in preferenza di ogni altro; insomma mi sembra che l’interesse ed il diritto sieno in relazione tra di loro, e che quindi la questione romana sia fino ad un certo punto una questione come d’interesse cosi di diritto italiano.
«Una questione d’interesse e di diritto italiano dovea finalmente apparire qual è. Era impossibile che il Governo imperiale di Francia dopo aver molto osservato e aver potuto molto meditare sopra questo argomento non avesse infine sentito questa doppia verità e non si fosse finalmente risoluto a metter le cose al loro posto.
Io dunque dico che lo scopo della Convenzione del 15 settembre non è che questo, con quella Convenzione si viene a dire che, visto il consolidamento del Regno italiano sempre crescente e progrediente nella sua unificazione; considerato che il Regno d’Italia ha un profondo interesse a mantenere nel suo seno la grande istituzione del Pontificato cattolico, e che parte pratica di questa conservazione vi entra nella certamente il diritto italiano, il Governo francese si risolve a ritirare le sue truppe da Roma, e ad investire il Governo italiano di quel protettorato ch’esso aveva assunto e sostenuto per più anni.
«Se non che, o signori, il Governo imperiale avendo bene o male che fosse assunto in faccia al mondo cattolico la grande e solenne missione di difendere e guardare il papa, non poteva con una parola disfare il fatto ed abbandonare senz’altro la quistione in mano al Governo italiano.
«Qualche cosa bisognava fare perchè questo solenne passaggio, quest’importante transizione seguisse nelle forme e colle cautele convenienti. Noi arriviamo appunto a dire l’oggetto e lo scopo pratico del trattato.
«Tutti i patti e condizioni e garanzie che si di cono essere nella Convenzione del 15 settembre, tutti tendono a questo scopo a continuare quell’esperienza del potere temporale che il Governo di Francia avea in faccia al mondo cattolico assunto a sè.
«In questo momento infatti il Governo francese fa, a dir cosi, prove ed esperimenti circa alla possibilità del potere temporale.
«Questo è lo stato delle cose.
«Ebbene nel senso della Convenzione questa esperienza deve continuare, quest’esperienza deve essere assunta dal Governo italiano, in conseguenza bisogna architettare i patti, in maniera che questa esperienza fosse continuata tanto quanto fosse possibile continuarla, e così come il mondo cattolico intendeva che si facesse dal Governo francese.
«Gli articoli della Convenzione portano prima di tutto l’obbligo assunto del ritiro dei Francesi da Roma.
— «L’imperatore ritirerà entra due anni le sue truppe dal territorio romano».
«Quando un governo come quello di Francia colle solennità che porta una Convenzione come questa, promette di ritirare le sue truppe, è inutile che io dica che bisogna bene che le ritiri.
«Le truppe Francesi certamente usciranno da Roma al tempo stabilito. Io non mi arresto neppure un istante alle sottigliezze che si sono immaginate da alcuno per dubitare dell’attuazione di questa ch’è la promessa fondamentale del trattato .
«Con un secondo articolo si dice:
— «Il Governo italiano s’impegna di non attaccare il territorio pontificio» .
«Si sarebbe potuto credere fino ad un certo punto superfluo questo patto.
«Ma signori, l’importanza di questo patto è più in quello che non si dice, che in quello che si dice.
«Ci era da credere, ci era da dubitare, che trattandosi di provincie che appartengono alla nazionalità italiana, di provincie da cui non poche provocazioni sono venute al Governo italiano, il Governo italiano si fosse creduto autorizzato a rivolgersi ad esso per via di fatto.
«Era dunque necessità il bene esprimere che questo impegno d’onore si prendeva dal Governo italiano.
«Ma il terzo patto ch’è assai chiaro e preciso può dirsi più propriamente esprimere lo scopo della Convenzione, cioè il trasferimento del protettorato dalle mani del Governo francese, nelle mani del Governo italiano.
«Il Governo italiano promette di difendere da qualunque attacco esteriore il territorio romano. Ecco, o signori, la grande novità .
«Francia era là come per difendere il territorio romano contro gl’Italiani; ebbene sono gl’Italiani appunto che prendono il suo posto e si dichiarano pronti a difendere il territorio romano. Accade quello che io diceva, si è riconosciuta la competenza del Governo italiano in una questione d’interesse italiano, di dritto italiano. «Vengono due altri articoli i quali sono della più facile intelligenza, quando si ricordi quello che io ho detto, cioè che lo scopo pratico del trattato è di continuare l’esperienza sulla possibilità del potere temporale.
«Pare adunque chiaro che i due contraenti si sono intesi fra di loro per dire: noi vogliamo provare al mondo cattolico che le nostre intenzioni sono leali, sono rette, che l’Italia ha accettato quest’esperimento e che si dispone a compierlo con tutta puntualità, come avrebbe fatto la Francia; che in conseguenza accetta tutte quelle condizioni che lo scopo medesimo del trattato può indicare.
«Osservate bene, voi non vedete nel trattato il so lito carattere delle convenzioni particolari, cioè una premura di negoziare e di mercanteggiare ciascuno per suo profitto ed interesse.
«Voi vedete invece nella Convenzione due amici due persone che s’intendono per uno scopo quasi esterno e disinteressato, e cercano i mezzi per meglio raggiungere quello scopo; Italia e Francia in quella ricerca invocano a testimonio ed a giudice il mondo cattolico, innanzi a cui intendono di prender un novello impegno, e dicono: ecco la esperienza del poter temporale si farà tuttavia e si farà lealmente, non sarà dunque colpa di nessuno di noi, laddove la prova non riesca.
«Ma come ci entra in tutto questo, mi sento dire da molti come ci entra in tutto questo il trasporto della capitale? Che ha da far questa clausola novella? Come si può credere anche essa necessaria allo scopo pratico della Convenzione?
«Signori, se un momento di sciagurati equivoci, un momento di inesplicabile sorpresa non avesse attristata questa nobile città, io credo che noi faremmo questa disputa colla massima serenità e tranquillità d’animo, io mi immaginavo che noi discuteremmo di di questa gran questione come se nulla turbasse i nostri giudizii .
«Nel fatto non vi è cosa più chiara, più semplice di questa clausola del protocollo. Permettetemi dunque che io ne parli come ne parlerei se nulla fosse accaduto.
È stato detto da molti che questa clausola è la più nuova, la più insolita, la più straordinaria clausola diplomatica che si è mai vista inserita in un trattato.
«Io posso aggiungere che non è insolita, straordi naria ma unica, perchè è unico il caso in cui versiamo. Non accade che una volta al mondo, credo io, che un imperatore dei francesi posti i suoi eserciti alla difesa di un papa, il quale si trova possedere un territorio appunto in mezzo ad una grande nazione, la quale ha il proposito di unificarsi e che in questo movimento d’unificazione intoppa in faccia alle frontiere di quel territorio, sicchè ne faccia una questione nazionale, e proclami di dover andare a fissare la sua capitale precisamente in quel punto dove gli eserciti stranieri sono alla difesa del papa.
«Questo caso è certamente unico. Nessuna maraviglia dunque che si venga una prima volta una clausola come questa.
«Ma volete sapere voi che c’è di veramente insolito, di nuovo, di straordinario in questa clausola? C’è di nuovo, c’è d’insolito quel cotale tuono di benevolenza di cui io parlava poco prima, quel cotal sentimento d’intimità e d’intelligenza, per cui i due con traenti non hanno l’aria di negoziare qualche cosa di utilità speciale di ciascuno, ma di ricercare dei mezzi da servire ad un certo scopo, quasi anteriore agl’interessi dell’uno e dell’altro.
«È questa la novità del trattato . Infatti se si va ricercando quale interesse avrebbe dovuto avere il Governo imperiale di Francia a stipulare il trasporto della sede del Governo a Firenze, non solo non si trova questo interesse, ma io ho inteso da più parti in questo recinto ripetere che si troverebbe un inte resse contrario; si troverebbe che si pensava a quelle non so quali conquiste ed occupazioni di suolo avrebbe dovuto ’desiderare che la capitale gli fosse sotto le mani, non che se ne andasse a più centinaja di miglia di distanza. Se avesse pensato a non so quali antichi progetti di federazione avrebbe dovuto non facilmente accettare un trasferimento di questa specie che porta la capitale, come si dice, in suolo plebiscito, infine se avesse dovuto consultare i suoi interessi veri o immaginarî, l’Imperatore de’ Francesi non avrebbe dovuto o non avrebbe potuto accogliere una proposizione di questa specie. Non c’è, non ci può essere dunque altro che un interesse comune di arrivare alla soluzione del difficile problema.
«La scelta di un mezzo così insolito come è quello del trasporto della sede del Governo, non deve dunque essere giudicato coi criteri ordinari.
«Ma questo grave argomento del trasporto della capitale è stato materia di gravissime osservazioni e di obbiezioni vivissime, ed io crederei mio dovere d’intrattenermici se non ricordassi che le principali risposte sono state già date.
«Non potrei, a cagion d’esempio, non ricordare l’egregia risposta data dall’onorevole senatore Durando a quella che anche a me sarebbe paruta la massima delle obbiezioni, cioè di quel certo oscuro pericolo che si diceva correre il principio monarchico. A questa massima obbiezione è stata data l’ultima delle spiegazioni.
«Cito questa per esempio e non parlo delle altre; solo credo mio debito di rispondere ad una domanda dell’onorevole conte Sclopis, il quale con una particolare deferenza mi fece l’alto onore di citare qualche tratto di un mio povero scritto pubblicato due anni fa, dove io aveva propriamente esaminato la questione del Piemonte a quella della capitale.
«Il quesito che mi faceva l’onor il conte Sclopis di propormi era il seguente.
«Diceva l’onorevole Sclopis. Voi avete parlato delle eminenti prerogative del Piemonte della parte importantissima che ha avuto nella rigenerazione italiana; voi avete anzi detto che senza questo punto di appoggio esteriore non sarebbe stato possibile di dare moto alla massa quasi inerte della nazione italiana; avete detto che il Piemonte aveva date all’Italia due cose preziosissime, la dinastia e l’esercito e che con questi due importantissimi mezzi e colla giovanile energia del Piemonte si era potuto fare la grand’opera del l’unificazione e del risorgimento d’Italia.
D’altra parte voi avete detto che le altre provincie d’Italia erano sventuratamente cadute così giù nella loro vita politica da riconoscere in esse quasi l’impotenza di sorgere spontaneamente alla nuova vita.
Ciò posto, aggiungeva il conte Sclopis, come dunque dite che non si può il resto della grande opera com piere tutto dal Piemonte?
«Signori, io sento un certo imbarazzo alla risposta perchè credo che la risposta stia nella domanda .
«Evidentemente l’onorevole conte Sclopis riferiva tutto questo appunto alla questione del trasporto della capitale, ma ad ogni modo che cosa vuole che io gli risponda. Non è colpa di nessuno se a certi eminentissime qualità non corrispondono tutte le altre. Che meraviglia che vi sieno qualità grandissime e che pure non sieno pareggiate dalle altre? D’altra parte perchè si ha a dire che quelle contrade, le quali hanno mancato di forza propria per sollevarsi abbiano perciò perduto tutta l’intelligenza, esperienza, e tradizioni per ricostituirsi quando siano risorte?
«Perchè deve andare a queste conseguenze sì estreme?
«Mi permetta adunque che io lo dica che siccome le prerogative dell’uno si possono ben coordinare colle prerogative dell’altre, e siccome in questa grande impresa nazionale tutti i valori debbono essere computati, tutte le forze debbono entrare in azione, io conchiudo che da tutto questo non nasce la contraddizione ch’egli diceva di vedere nelle mie parole, ma anzi nasce accordo ed armonia.
«Io non vado più oltre, o signori, perchè questa disputa della capitale, non mi pare che possa essere agitata più di quello ch’è stata agitata, nè potrei aggiungere una parola di più a quelle che sono state dette.
«Mi permetta dunque lasciare questo argomento e ritornare al mio proposito.
«Il mio proposito era questo: io diceva che il carattere vero, il senso, lo scopo della Convenzione e di riconoscere, per dir cosi, alla nazionalità italiana quello che colla sua virtù si ha conquistato, cioè la solidità della sua opera di unificazione e l’evidenza del suo interesse e del suo diritto.
«Io vi diceva adunque che la Convenzione portava soltanto questa limitazione, invece di abbandonare le cose a loro stesse senz’altro metteva un impegno in faccia al mondo cattolico, impegno di fare fino all’estremo l’esperimento sul potere temporale di fare in altri termini la suprema prova sulla possibilità del potere temporale.
«Io vi diceva che tutti i patti sospirano a questo scopo: ma non a adunque altro che la continuazione dell’esperienza antica? non facciamo dunque altro che quello che stava facendo il Governo imperiale di Francia.
«Signori no. La novità che facciamo è immensa. L’esperimento del potere temporale continuasi, ma continua in mezzo a due condizioni nuovissime, condizioni che mettono le cose in una posizione assolutamente nuova.
«Quali sono le due condizioni?
«Intendiamole bene. La prova del potere temporale deve continuare, ma continuare prima di tutto senza l’appoggio di un esercito straniero; l’esercito straniero si ritira. Questo appoggio materiale non poteva non doveva essere reclamato da un esercito straniero alla grande nazionalità in mezzo a cui vive. La presenza di quest’esercito, quando sieno abbandonate tutte le pretenzioni d’influenza politica, la presenza di quest’esercito non può altro senso se non che o di difendere il Papato contro gl’italiani, o di difendere il Papato contro gli stranieri.
Ora un esercito straniero offende l’Italia in quanto la suppone nemica, ostile contraria, all’autorità religiosa del Papato; un esercito straniero offende anche più l’Italia, in quanto suppone che gl’italiani non fossero atti a difenderlo.
«Dunque prima condizione nuova è l’allontanamento dell’esercito straniero. Qual è l’altra condizione nuova. Essa è più difficile a concepire, più difficile a esprimere ma non meno importante? E il riconoscimento dell’unificazione di quell’Italia in mezzo a cui il papa vive.
«Permettetemi che vi ricordi che l’esperienza del potere temporale è stata fatta fino adesso come se l’Italia non esistesse, questo è notissimo.
«Da una parte l’esercito Francese teneva le sue relazioni col papa esercitava, la sua protezione non tenendo quasi conto di quel tale interesse, di quel tal diritto di cui io parlava testè, e d’altra parte il Governo romano si permetteva la curiosa illusione di non credere all’Italia che lo circondava; il Governo pontificio operava, parlava come se questa nazionalità non esistesse, come se fosse una favola . Ora intendete bene che dopo la Convenzione le due grandi novità che accadono sono precisamente queste; da una parte l’appoggio esteriore materiale dell’esercito romano; dall’altra parte diventa necessario, indispensabile far calcolo, far conto di questa nazionalità organizzata e vivente che circonda da tutti i lati gli Stati del pontefice. Se non deve far tanto conto con questa nuova condizione di cose il governo romano si deve d’oggi innanzi intendere collocato nella sua posizione che fa il diritto internazionale agli Stati vicini. Il governo romano sarà obbligato quindi innanzi a osservare tutte le leggi di buona vicinanza, sarà obbligato a rispettare i diritti al suo vicino e ad astenersi di qualunque insulto da qualunque provocazione. Voi intendete o signori quanta novità di cose nasce da ciò.
«La esperienza dunque della possibilità del potere temporale si continua come stava facendolo il Governo francese, ma si continua con due condizioni essenzialmente nuove. Se il potere temporale può reggere a questa novità di posizione abbiamo torto noi; bisogna che ci rassegniamo a far senza di quelle provincie. Se non può reggere, non sarà colpa di nessuno, o signori, se debba cessare un ordine di cose che non può sostenersi. L’ipotesi dunque della provvisoria continuazione del potere temporale è lo scopo pratico, lo scopo espresso dalla Convenzione del 15 settembre.
«Ma se questo scopo fallisse? e se il seguito degli eventi chiarisse l’assoluta impossibilità di tenere un potere temporale con quelle nuove condizioni che abbiamo detto .
«La convenzione non provvede a questo caso? Le cose dunque ricadono nell’ignoto. No, o signori, io sono uno di quelli che dico no, che non si deve fantasticare, pronosticare sull’eventualità del trattato, ma se volete permettetero di farlo, sappiate che in fine la conclusione è molto più semplice che non si crede. Il trattato pone l’esperimento del potere temporale e implicitamente pone l’evento che questo esperimento non riesca.
«Ebbene, allora il Governo italiano che ha assunto il luogo del Governo francese, promette al mondo cattolico di far tutto quello che è conveniente perchè l’autorità del papato spirituale, del pontificato, il libero esercizio delle sue facoltà siano perfettamente assicurate in quel modo e con quelle forme e con quelle nuove combinazioni che potranno accettarsi da una nazione eminentemente cattolica.
«Chi promette il più promette il meno se il Governo italiano riassumendo dalle mani del Governo francese questo grave e difficile incarico aveva promesso di sperimentare ancora se fosse possibile di circondare il papa di un potere temporale, questo doveva essere riguardato piuttosto come questione di mezzi che come questione di fine. Era dunque chiaro che quando questa questione di mezzi fosse esaurita che aveva promesso tanto, aveva promesso pure di fare tutto quello che si deve per salvare la dignità, l’autorità e il libero esercizio del papato spirituale.
«Ecco signori, ciò che sta, in ultima linea nella Convenzione del 15 settembre. Come vedete adunque la Convenzione del 15 settembre dice tanto quanto si doveva dire, poichè quello che essa non dice ci sta implicitamente di una maniera così evidente che alcuno non può dubitarne.
Signori, a questo punto mi arresto. Mi arresto perchè credo che il senso e lo scopo della Convenzione siano abbastanza chiariti; ma mi arresto specialmente perchè credo di aver dimostrato due cose per le quali diviene chiara la politica liberale, onesta e consecutiva di quel Governo cui ebbe l’onore di appartenere.
«La prima cosa che credo aver dimostrato è questa. La questione romana era una questione vagante; una questione, la quale o si trovava in mano d’un partito estremo che se ne valeva per agitare il paese, per compromettere ad ogni momento la tranquillità del paese oppure era in mano dello straniero, il quale poteva ad ogni momento recare pericoli od umiliazioni alla nostra nazionalità. Questa grave questione si trovava adunque fuori delle nostre mani, si trovava in balia o dell’uno, o dell’altro. Ebbene, il governo a cui io aveva l’onore di appartenere ha ritirato questa grave questione nelle sue mani, la ritirata nelle sfere governative, l’ha messa in una posizione tale che un giorno potrebbe portarla alle vostre deliberazioni . In somma questa gravissima delle questioni nazionali, che era fuori dalle mani del Governo, è stata messa sotto le mani del Governo.
«La seconda cosa che abbiamo fatto è questa.
«C’era nel paese un sentimento di malessere, una certa irrequietezza, la quale dava a moltissime proteste, non solo all’interno, ma anche all’estero di travisare le nostre idee, le nostre intenzioni. Tutte le stolte cose che si sono spesse deste sul piemontesismo tutti i vari tentativi che si sono fatti per isconcentrare l’azione del Governo, credetelo a me, signori, si riferivano a quel malessere a quella cotale irrequietezza, a cui noi per una felice combinazione abbiamo potuto riparare combinando un fatto di amministrazione in terna con quello importantissimo stipulato con la Convenzione del 15 settembre.
Mediante l’uno e l’altro spediente noi siamo riesciti anche ad una terza cosa, a calmare le coscienze cattoliche del paese. La grande maggioranza dei cattolici; signori, guardava sempre con ansietà e timore questo stato di cose. La questione del pontificato agitava tutte le menti, ognuno temeva che un giorno o l’altro le credenze religiose si potessero ricevere un crollo violento. Ebbene con quei due fatti le cose sono state messe al loro posto; sicchè gli spiriti timorosi potranno tener per fermo che ormai niente può accadere a cose che tutto sarà regolato colle solenni deliberazioni del Governo e del Parlamento.
«Signori, quando si può dire che un Governo ha compiuti questi tre gravissimi fatti, io credo che si ha diritto di dire che quel Governo ha fatto una politica seria, una politica onesta, una politica conservativa. Io ho quindi ragione di esprimere il più grave rammarico, la più grande meraviglia che uomini gravissimi che la storia della rigenerazione italiana collocherà nel più distinto posto, questi uomini sedenti in questo consesso, dove sono propriamente queste grandi idee d’ordine che si hanno a tutelare, abbiano disapprovato e censurato una Convenzione come questa. Io me ne sono tanto più addolorato, in quanto che ho la convinzione che se quegli uomini si fossero trovati al potere, se nelle mani di questi uomini fossero venute occasioni così importanti, come sono venute a noi, essi, senza rinnegare i loro precedenti, senza rinnegare se stessi, non avrebbero potuto far una politica diversi della nostra (Bravo! Applausi!)».
Le opere del senatore Manna sono assai numerose e tutte di una innegabile importanza. Noi non possiamo disgraziatamente far altro che darne qui il semplice catalogo, avvertendo com’esse abbiano massimamente contribuito ad accrescere e consolidare la fama di uomo sapiente che il Manna si è già da gran tempo guadagnato. Rammenteremo quindi i principali atti del nostro protagonista, nel tempo ch’egli è rimasto al potere.
Storia del Foro e della Giurisprudenza napoletana (1 volume, Napoli 1839); —- Partizione del Diritto amministrativo (1 volume, Napoli 1842); Storia dell’amministrazione pubblica delle Due Sicilie (8 volumi, Napoli 1842); Esposizione delle Leggi amministrative delle Due Sicilie (1 volume, Napoli 1845); - Il Diritto costituzionale Europa o Raccolta delle principali costituzioni dal 1791 in poi, con illustrazioni e note (1 volume, Napoli 1848); - Leggi economiche (1 volume, Napoli 1834); - Del Credito immobiliare (1 volume, Napoli 1855); — Le provincie meridionali del regno d’Italia (1 volume, Napoli 1862).
Durante il tempo in cui il Manna è stato ministro ha sostenuto in Parlamento e preso parte alla sottoscrizione dei trattati commerciali conchiusi coll’Inghilterra, col Belgio, coll’Olanda, e colla Danimarca. Egli ha difeso il progetto di legge relativo al trattato colla Francia, e quelli sulle privative industriali, sull’abolizione delle compagnie privilegiate, sulla banca d’Italia e intorno alle bonifiche.