Il Parlamento del Regno d'Italia/Francesco Borgatti
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deputato.
Nato il dì 30 maggio del 1818 in Renazzo, piccolo villaggio del territorio di Cento, provincia di Ferrara, da una famiglia di onorati benestanti. In Cento stesso fece in modo distinto i primi studî, quindi recatosi a Bologna ad apprendervi giurisprudenza, vi conseguì a pieni voti la laurea. Intraprese posteriormente pratiche legali presso uno de’ più abili giureconsulti della curia bolognese, che tanti di dotti ne ha contati nel suo seno e ne conta, ebbesi licenza di avvocato dal tribunale di appello sedente nell’istessa città di Bologna.
Esordiente coi migliori auspici nell’importante carriera presceltasi, il Borgatti, giovane ancora, ma un di que’ giovani che acquistano per tempo senno virile, ritenne che prima di dedicarsi esclusivamente all’esercizio della professione gl’incombesse far tesoro di studî giuridici, tanto teoretici che pratici, e con tale intendimento mosse alla volta di Roma.
Colà visse famigliarmente coi primi legali della gran città madre, e il Ciuffa, l’Armellini, lo Sturbinetti, il Piacentini il presero a molto ben volere e ad apprezzare siffattamente, che l’ultimo nominato, il Piacentini, in una pubblica arringa ebbe a far menzione del nostro protagonista, ricordando un di lui lavoro siccome degno della reputazione di uno dei nostri antichi padri della romana giurisprudenza.
Come è da pensarsi, i primi atti del pontificato di Pio IX e gli avvenimenti che ne derivarono commossero altamente l’animo del Borgatti, il quale fu tra i primi a dettare articoli e studî riprodotti da vari periodici e che furono letti con avidità e commentati dal pubblico; ei divenne collaboratore assiduo del giornale romano: La Speranza.
Quando al ministero Recchi succedeva quello che si nomò dal conte Terenzio Mamiani, e che questi otteneva dal pontefice l’istituzione d’un ministero pegli affari esteri secolare — ministero che veniva affidato al conte Giovanni Marchetti — il Borgatti era dalla fiducia di quest’ultimo e per quella riposta in lui dal Presidente del Consiglio, chiamato ad esercitarvi le importantissime attribuzioni di segretario generale.
Gli uomini che erano allora al potere a Roma sanno come il nostro protagonista disimpegnasse l’ufficio accordatogli in quell’occasione.
Giovine ancora e nuovo nelle faccende burocratiche e diplomatiche, ci volse mediante lo spirito suo conciliativo, mediante lo zelo il più indefesso, a superare gli ostacoli che al nuovo ministero opponeva l’instancabile partito della reazione, e a rendersi accetto agli ambasciatori, e fino a quegli stessi membri del corpo diplomatico che non avevano troppo bene accolta la secolarizzazione del ministero degli esteri.
I servigi resi dal Borgatti in tal circostanza vennero premiati dal Mamiani, e da quel sommo italiano che fu Pellegrino Rossi, e col quale il nostro protagonista si acquistò dimestichezza grandissima, mediante la promozione che gli fu conferita di sostituto al ministro non solo pegli affari esteri, ma anco per quelli dell’interno.
Dopo l’iniquo assassinio del Rossi — una delle incancellabili macchie del movimento italiano — il Borgatti si ritirò dal governo; ma tornato il Mamiani al potere, egli pure s’indusse, cortesemente pregatone, a riassumere le funzioni di sostituto agli esteri.
Que’ tempi, come ognun sel ricorda, volgevano gravissimi per l’Italia.
Vincenzo Gioberti, prevedendo che il papa, il quale erasi rifuggito presso Ferdinando II di Napoli, avrebbe presto o tardi chiamato lo straniero in suo ajuto, pensò di proporre agli uomini che in quella dirigevano in Roma il timone dello Stato, un intervento di truppe piemontesi, le quali servissero da un lato a garantire ai sudditi pontificî le liberali istituzioni, dall’altro togliessero al pontefice il pretesto di chiedere truppe alle potenze cattoliche, onde coll’appoggio delle costoro bajonette ripristinarsi sulla cattedra di San Pietro.
La proposta Gioberti, ufficiosamente raccomandata dai governi inglese e francese, era trasmessa agli uomini che reggevano provvisoriamente il potere in Roma da un tale avvocato Pasquale Berghini, al quale il Gioberti avea dato veste di commissario straordinario di S. M. il re Carlo Alberto, e cui il sommo autore del Rinnovamento aveva particolarmente prescritto di riporre, nel trattare si delicato negozio, ogni maggior fiducia nel nostro Borgatti.
E che il Borgatti si adoperasse a tutt’uomo perchè la missione del Berghini riuscisse a bene è noto a quanti s’interessarono in quel tempo all’esito di tali trattative, le quali ognuno che amava assennatamente la patria italiana scorgeva essere di vitale interesse pe’ suoi destini. Il Farini nella sua lodata istoria dello Stato romano parla a lungo della missione di quel Berghini, e loda gli atti che ad essa si riferiscono, atti di cui fu autore il nostro protagonista; e non solo loda quegli atti, ma nota come il Borgatti sapesse apprezzare i prudenti consigli forniti dai governi inglese e francese, e tentasse con grande coraggio di renderli accetti ai governanti di Roma. Ecco le precise parole in proposito dello storico:
«Nè il governo inglese per Marioni solo, ma per altre vie mandò consigli prudenti: chè lord Napier venne a Roma in maggio in sembiante di curioso ammiratore di monumenti, ma in verità per capacitare i governanti della necessità di accomodarsi a partito prudente. Ma quelli non vollero venire a discorso con lui, ed il solo Borgatti, savio ed integro giovine che per amor di bene era rimasto in ufficio, fu più volte a lui, ne udì e pregiò i consigli, ma tentò indarno renderli accetti ai triumviri.»
Rimasto il nostro protagonista con raro esempio di abnegazione a disimpegnare le spinose sue ingerenze fino all’ingresso delle truppe francesi in Roma, non credette da quel momento dover continuare a restare al suo posto, sebbene fosse invitato a ciò dal generale Oudinot.
Sì decoroso e leale contegno, non che i servigi da esso resi al paese e gli sforzi da lui fatti, sebbene invano, non per sua colpa, onde di più cospicui ancora retribuirgliene, valsero a conciliare al nostro protagonista la stima di coloro stessi che non nutrivano le di lui convinzioni politiche. Talchè il Rusconi nella sua storia della Repubblica romana ebbe a dire del Borgatti ch’egli rese mille servigi di alta importanza al paese, e i giornali esteri medesimi, in particolar modo il Dèbats e il Daily-News, in articoli riguardanti le cose di Roma, trovarono occasione di dare encomi all’onesto di cui descriviamo la vita.
Altri ne’ piedi del Borgatti avrebbe potuto e voluto trar partito di quella sorta d’aureola che gli raggiava d’intorno, e sarebbesene andato all’estero, ove forse una cospicua posizione, co’ suoi antecedenti e co’ suoi meriti, era più che sicuro avessegli prima o dopo a toccare; ma egli, modesto, e di que’ tali che si lasciano cercare e non cercano, avvegnachè per la carica sì specchiatamente sostenuta non si avesse care dai restauratori dell’assoluto dominio del pontefice di cacciarlo in esilio, ei si ritrasse da Roma e restituissi alla sua terra natale, ove visse per alcun tempo nel seno della propria famiglia.
Se non che la sua fama di esperto ed integro giureconsulto era tale che nol si poteva lasciare a lungo in quella sorta di ritiro. Sollecitato vivamente e in ripetute circostanze di patrocinare cause civili, si vide costretto ad aprire studio e fermare stanza in Bologna, ove in breve tempo affluirono a lui le più illustri clientele dell’antica città.
Da quel momento si può dire che non si agitasse causa di qualche rilevanza nel foro emiliano che il Borgatti non vi prendesse parte; ricorderemo in ispecie che in una celebre quistione monetaria, insorta tra la banca di Bologna e una tal ditta commerciale, il nostro protagonista, difensore della banca, dettò in pochi giorni un opuscolo avente per titolo: Del valore della moneta secondo i principi comparati della giurisprudenza e dell’economia, che fu accolto in Italia col più gran favore dai giureconsulti e dagli economisti, come ne fan fede le memorie del Ferrara, del Salvagnoli e del Piacentini, pubblicale in Bologna, ed un articolo inserito nell’aprile del 1859, nel periodico lombardo: Annali universali di statistica, economia pubblica ecc. ecc.
Accaduto appena il fausto pronunciamento di Bologna del 12 giugno 1859, gli uomini che assunsero il governo di quell’illustre città si recarono ripetutamente a chiedere la cooperazione del Borgatti, il quale non si fece — da quel veramente modesto uomo e devoto cittadino ch’egli è — lungamente pregare, desideroso qual era di prestar l’opera sua a vantaggio della patria e lieto di potere anche una volta dinanzi al di lei altare farle sacrificio de’ benefici ch’ei ritraeva dall’esercizio della sua professione.
Appena assunto l’ufficio di segretario generale della giunta di governo, vide il Borgatti immantinente che due gravi difficoltà, le quali era d’uopo a qualunque costo di superare, stavano innanzi ai reggitori del novello Stato: prima era quella di stabilire in plausibile guisa l’impianto di un governo centrale, là dove per l’innanzi tal governo non era mai esistito; seconda, quella di sopprimere senza interne scosse od agitazioni di sorta tutte le giunte governative che si erano costituite nei capo-luoghi di provincia e di distretto, concentrando la loro azione e le loro attribuzioni nelle mani della giunta bolognese.
Le cure e l’abilità del nostro protagonista non giovarono poco a far sì che tali difficoltà venissero chetamente appianate, e che il governo delle Romagne, tanto sotto la giunta, quanto sotto il regio commissario straordinario D’Azeglio, e il di lui sostituto Falicon, non che sotto il colonnello Cipriani si distinguesse per la semplicità ed economia della sua amministrazione, di modo che lo si ricorda anche oggidì come modello d’ordine, d’esattezza e di sollecitudine nell’oculato disbrigo degli affari. Cessata la giunta di Bologna, è duopo avvertire che il Borgatti disimpegnò interinalmente le funzioni di segretario generale del governo e del ministero dell’interno, non avendo altro ajuto che quello di due soli segretarî subalterni.
Una volta cessato il governo delle Romagne, il nostro protagonista domandò d’essere dispensato da ogni ingerenza politica ed amministrativa; allora si fu che gli venne con molta cortesia d’espressioni offerto il posto di consigliere della Corte di cassazione sedente in Bologna, posto che venne dal Borgatti di buon grado accettato. Crediamo far cosa grata al lettore citando le parole colle quali il Farini, governatore dell’Emilia, chiudeva il dispaccio col quale partecipava al nuovo consigliere la sua nomina:
«Ma io non posso lasciare, così si esprime quel documento, ch’ella cessi dall’esercizio delle funzioni politiche ed amministrative, che sinora le rimasero affidate, senza attestarle, come capo del governo, la più alta soddisfazione pei servigi ch’Ella ha resi al governo ed al paese, in circostanze difficili quali sono le attuali.»
Il Borgatti, dopo aver rappresentata la propria terra natale in seno all’Assemblea costituente delle Romagne, venne dalla medesima, alla quasi unanimità, eletto deputato al Parlamento del nuovo Regno, ove siede tra i più validi e benemeriti sostenitori della politica nazionale del gabinetto Cavour.