Il Marchese di Roccaverdina/Capitolo VII
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VII.
— Bene! Bene! — disse la baronessa. — Ed ora che tutto è finito, mi darai retta, nepote mio?
— Ho altro per la testa! — rispose il marchese.
— Lo so, pur troppo: quella donnaccia.
— Non me ne parlate, zia!
— Anzi debbo parlartene.
— È inutile, vi dico. Per me, è come se non esistesse più, ve lo giuro.
— Tu conosci le mie intenzioni.
— Vi sono grato e vi ringrazio, zia!
— Il mio testamento è in mano del notaio Lomonaco. Non vorrai costringermi a rifarlo.
— Siete padrona disporre del vostro come vi pare e piace.
— Voglio che casa Roccaverdina rifiorisca. Tuo zio è uno scioperato. Ha già dato quasi fondo a tutto il suo patrimonio; e suo figlio è più matto di lui. Della nepote non ragioniamo; ha disonorato la famiglia. Vive in peccato mortale, sposata soltanto in municipio, per la tirannia di quell’eretico marito che essa ha voluto per forza... Se lo tenga!
— Che possiamo farci? Non è colpa nostra.
— Dammi retta. Suol dirsi: matrimoni e vescovati dal cielo son destinati. E questo di cui intendo parlarti è certamente tra i destinati, se non m’inganno. Ricordi?... Sì, sì; non c’è stata nessuna promessa tra voi due; non vi siete mai detta una parola di amore; ma non occorreva dirla. Eravate troppo ragazzi allora, e gli occhi e gli atti dicevano assai più di qualunque parola. Così essa si è tenuta sempre come vincolata. Se si fosse chiusa in un monastero, non avrebbe potuto vivere più fuori del mondo. È rimasta sempre in attesa, non ha disperato neppure quando tu eri tutto di quella donnaccia e davi lo scandolo di tenerla in casa...
— Ma, zia!
— Non m’interrompere, lasciami dire. Parlo per tuo bene.
Il marchese chinò il capo rassegnandosi.
Lo aveva mandato a chiamare col pretesto di consultarlo su certi miglioramenti da fare nel vigneto di Lagomorto. Ma egli, capito subito di che si trattava, si era preparato le risposte. Questa volta, però, a dispetto di ogni suo proposito, il marchese si sentiva imbarazzato da una strana fiacchezza di volontà.
Da prima, lo avevano un po’ rassicurato le domande intorno alla causa e alla condanna di Neli Casaccio. E si era diffuso a posta nella narrazione per sviare la zia baronessa.
Gli sembrava di vedere agitarsele su le labbra gli insistenti consigli con cui lo assediava ogni volta che veniva a vederla, mandato a chiamare per lo più; e per ciò aveva tentato di tirare in lungo il discorso, ad evitare la noia della temuta predica: Prendi moglie!
Si era però eccitato per la fissazione della baronessa che Agrippina Solmo avesse fatto ammazzare il marito con l’intenzione di tornare ad essere quella che era una volta e raggiungere uno scopo lasciatosi sfuggire con l’aver sposato Rocco Criscione.
E appunto il vederlo eccitare appena gli era stato accennato questo sospetto, aveva spinto la baronessa a rompere ogni indugio.
Egli aveva dovuto ascoltarla, rispondendole quasi sbadatamente, girando gli sguardi pel salone, fissando un ritratto, osservando un vecchio mobile, guardando i cani accovacciati sui cuscini dei loro due seggioloni, e che riposavano riaprendo di tratto in tratto gli occhi e alzando le teste, quasi capissero che non dovevano muoversi per non interrompere la conversazione.
Dall’alto di uno dei balconi era entrato improvvisamente uno sprazzo di sole in tramonto. La striscia di luce rossiccia aveva rischiarato per alcuni istanti il soprapporto dell’uscio di faccia, e il marchese aveva strizzato gli occhi per distinguere le figure annerite di quel Giudizio di Paride malamente dipinto, cercando di distrarre anche con questo la sua attenzione dalla predica che la baronessa aveva cominciato a fargli e che minacciava di non finire più! Poi, nella penombra della sera e mentre la zia gli evocava quel ricordo di giovinezza quasi scancellato dalla sua memoria, egli si era sentito prendere da una sottile angoscia di rimpianto che gli increspava la fronte e lo induceva a interromperla con quel: — Ma zia! — che non era un diniego, nè una protesta, e non poteva avere nessuna efficacia per impedirle di continuare:
— Lasciami dire; parlo per tuo bene.... Io la vedo spesso, da anni. Sempre la stessa! Vestita sempre di scuro, come una vedova, poveretta! E silenziosa, specialmente dopo il tracollo della sua famiglia, che è nobile quanto la nostra, nepote mio... Faresti la felicità tua, e anche un’opera buona! Dignitosa, anzi orgogliosa in quella miseria che deve nascondersi, mai un accenno di te e della sua ostinata speranza. E quando io gliene parlai, tempo fa, divenne, prima, rossa rossa, poi impallidì, rispondendo soltanto: — Ormai, baronessa! Sono vecchia! — A trentadue anni? Non è vero. È fina, delicata, signorile. E quando sorride, sembra che tutta la sua persona si rischiari e si illumini e lasci scorgere l’anima gentile e pietosa.... Perchè non vuoi? Perchè ti ostini a vivere solo?... Che malìa ti ha dunque fatto quella donnaccia?
Pur troppo, quella donnaccia avea dovuto gettargli addosso una terribile malìa; lo sentiva e fremeva. Ma la zia baronessa faceva peggio rammentandogliela; egli ora tentava, appunto, di strapparsela dal cuore, insofferente della prepotenza e irritato della propria inettezza di vincerla e di liberarsene. Non amava più, odiava Agrippina Solmo; ma l’odio gliela teneva radicata nell’animo più assai dell’amore! Ah, se la zia baronessa avesse saputo!... Egli però non aveva mentito giurandole: — Per me, è come se non esistesse più! — Non voleva vederla neppur da lontano; le aveva interdetto di passare la soglia di casa Roccaverdina!
Intanto...!
E si rizzò dalla poltrona, ripetendo:
— Ho altro per la testa in questo momento. Ne riparleremo, zia!
I quattro canini, saltati tutt’insieme giù dai seggioloni, e stiratisi e sbadigliato, circondavano il marchese, mostrando di riconoscerlo col dimenare festosamente le code e saltellargli attorno e abbaiare. La baronessa li guardava sorridendo dalla commozione.
— Non fai loro neppure una carezza! — esclamò.
Gli passava davvero ben altro per la testa in quel momento che accarezzare quelle decrepite bestie mezze spelate e con gli occhi pieni di cispa!
La zia baronessa aveva ragione:
— Perchè egli non voleva? Perchè si ostinava a vivere solo?
E rientrando in casa, gli parve di rientrare in una spelonca.
Mamma Grazia, che non aveva ancora acceso i lumi, venne ad aprirgli portando con una mano la sporca lumiera di terracotta stagnata, col lucignolo a olio, che essa adoprava in cucina.
Dalla zia baronessa tutto era un gran vecchiume; ma vi si scorgeva la sorveglianza d’una intelligente e pulita padrona. Qua si sentiva il tanfo della trascuratezza, del disordine e dell’abbandono. Dal giorno che quella - non la nominava più neppure col pensiero - era andata via, egli non aveva più badato a niente, lasciando che mamma Grazia facesse quel po’ che poteva, non osando di rimbrottarla, di sgridarla, per via dell’età e del rispetto che le portava come nutrice e come vecchia persona di casa. Altra donna di servizio non voleva, anche per non fare dispiacere alla povera vecchia; servitori non gli piaceva di averne attorno, perchè li stimava indiscreti e ciarlieri.
Era vita questa? La solitudine ora gliene faceva sentire tutto il fastidio e la nausea. Vita bestiale! Egli, marchese di Roccaverdina, godeva forse delle ricchezze ereditate? I suoi massai, i suoi fittaiuoli godevano meglio di lui. Da più di dieci anni si era ridotto un selvaggio, schivando il commercio delle persone, arrozzendosi, chiuso in quella spelonca d’onde usciva soltanto per fare quattro passi su la spianata del Castello, o per vivere in campagna, tra contadini che lo temevano e non gli volevano bene perchè li trattava peggio di schiavi, senza trovar mai una buona parola per essi.
Ah, la zia baronessa aveva ragione!
— Perchè non voleva?
Le altre volte la zia gli aveva parlato su le generali. Ora aveva precisato, pur non nominando colei che era stata la segreta aspirazione dei suoi sedici anni, quando timido ed esitante si era contentato di manifestare il sentimento che gli tremava in fondo al cuore soltanto con gli sguardi o con fanciullesche intimità di scherzi e di atti forse meno espressivi degli scherzi; quando gli era bastato di scorgere o d’indovinare, dal pudibondo contegno, che ella si era accorta e che acconsentiva con maggiore serietà di propositi, non mai smentita dopo. Ed egli l’aveva dimenticata! Ed egli l’aveva offesa anteponendole quella donna poi divenuta sua tortura e suo castigo.
— Perchè ora non voleva?
Non lo sapeva neppur lui!
Era seduto a tavola. Mamma Grazia, portato il vassoio dell’insalata, vedendo che il marchese mangiava con aria cupa, evitando di guardarla e di rivolgerle la parola, si era fermata a osservarlo, incrociando le mani sotto il grembiale di traliccio. Due grigi cernecchi dei pochi capelli mal pettinati le si sparpagliavano su la fronte piena di grinze, cascandole sugli occhi, da uno dei quali, con gli orli delle palpebre rossi, non ci vedeva per un disgraziato accidente di molti anni addietro, quando, divezzato il marchese, era rimasta come serva dai Roccaverdina.
— A che pensi, figlio mio? — ella disse teneramente.
E all’inattesa domanda il marchese faceva una rapida mossa di tutti i muscoli della faccia, quasi volesse, con essa, trafugare nel più oscuro posto del cervello i pensieri che lo tormentavano e nasconderli anche a sè stesso.
Ella, che aveva notato, altre due o tre volte, una mossa simile e in identiche circostanze, ne fu addolorata.
— A me puoi dirlo — soggiunse accostandosi alla tavola. — Sono la tua mamma Grazia!
— Non trovo certe antiche scritture; pensavo appunto dove cercarle — rispose il marchese.
— Giù, nel mezzanino ce n’è una catasta.
— Dici bene.
— Ce n’è tante altre anche in un baule. Io so qual’è la chiave.
— Me la darai domani.
— Farò prendere aria a quelle stanze. Saranno piene di topi. Non vi è entrato nessuno da anni.
— Sì, mamma Grazia.
Non convinta della risposta, dopo alcuni momenti di silenzio, ella riprendeva:
— Che ti cuoce, figlio mio? Dimmelo. Pregherò il Signore e la Vergine Santissima del Rosario. Ho fatto dire una messa alle anime sante del Purgatorio perchè ti diano la pace dell’animo.... Senti: se è per quella.... richiamala pure.... Le farò da serva, come prima!
Il marchese alzò la testa e le spalancò gli occhi in viso, impaurito dalla chiaroveggente penetrazione di quella rozza e semplice creatura.
— Oh, mamma Grazia!... È venuta qui? Che ti ha detto? Non voglio più vederla, non m’importa più niente di essa!... Ti ha forse suggerito di dirmi così?
— No, figlio mio!... Non irritarti; ho parlato da vecchia stolida!
Si era irritato, invece, per la vergogna di sentirsi quasi alla mercè degli altri. Non sapeva, non poteva più dissimulare dunque?
Allo sgomento che gli intorbidava lo sguardo, mamma Grazia, intimidita, replicò:
— Non irritarti! Ho parlato da vecchia stolida!
E andò via strascicando le ciabatte.