Il Marchese di Roccaverdina/Capitolo VI
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VI.
A Ràbbato si era già saputo, per telegrafo, la notizia della condanna di Neli Casaccio:
— Quindici anni!
E due giorni dopo, i testimoni, di ritorno, erano assediati dalla gente che voleva conoscere tutti i particolari della causa.
Neli, appena udito — Quindici anni! — si era coperto il volto con le mani scoppiando in singhiozzi. Poi, levata in alto la mano destra, aveva gridato:
— Signore, lo giuro al vostro divino cospetto: Sono innocente! E se non dico la verità, fatemi cascare morto, qui, davanti a voi!
Nella sala tutti gli occhi si erano rivolti verso il Crocifisso appeso alla parete dietro il seggio del Presidente, quasi il Crocifisso avesse dovuto dare davvero la risposta al gesto e alle parole del condannato. Ma i carabinieri, prèsolo per un braccio, lo avevano condotto via, che si reggeva male su le gambe e balbettante:
— Poveri figli! Poveri figli miei!
E la moglie! Si era buttata ai piedi del Presidente della Corte, coi capelli disciolti, col viso inondato di lagrime, chiedendo grazia pel marito:
— È innocente come Gesù Cristo, eccellenza!
Gli si era aggrappata ai ginocchi, disperatamente, nè voleva lasciarlo.
— Ma io non sono il Re, figliuola mia! Le grazie può farle lui soltanto.
— Vostra eccellenza può tutto!... Vostra eccellenza ha in mano la giustizia!... Un padre di quattro bambini!
Bisognò farle violenza per staccarla.
E la gente, chi giudicava che Neli Casaccio era stato condannato a torto, chi a ragione.
Non aveva egli detto: — Gli faccio fare una fiammata? — Questo dovrebbe insegnare a tenere in freno la lingua; chi non parla non falla!
I signori del Casino di conversazione attendevano il ritorno del marchese di Roccaverdina e di don Aquilante per conoscere tutto l’andamento della discussione e il verdetto dei giurati. Gli avevano negato fin le attenuanti? Non era possibile! Per ciò alcuni dei più curiosi si erano aggruppati in Piazza dell’Orologio per fermare la carrozza al passaggio.
E fu proprio una sorpresa il vedere la strana compiacenza del marchese che, sceso dalla carrozza assieme con don Aquilante, circondato da quei signori e seguito da una folla di persone, si avviò verso il Casino dove egli, quantunque socio, aveva messo piede due o tre volte in tanti anni, anche perchè, secondo lui, vi si ammetteva facilmente troppa gentuccia.
Il marchese sembrava trasfigurato. Da due giorni, don Aquilante lo guardava stupito e stava ad ascoltarlo ancora più stupito.
I soci del Casino si erano schierati in semicerchio; e, dietro i seduti, si pigiava la siepe dei curiosi che, invaso quel salone a pianterreno, stendevano il collo e si sollevavano su la punta dei piedi per sentir parlare il marchese o l’avvocato seduti là in faccia sul canapè addossato al muro.
Alcuni erano fin montati su gli zoccoli delle quattro colonne di finto marmo che reggevano la volta del salone, per vedere e udir meglio.
Questo mosse a sdegno il marchese.
— Che c’è? L’opera dei pupi? Che cosa vogliono tutti costoro? Non siamo in Piazza dell’Orologio qui.... Cameriere!
E scoperto il poveretto del cameriere che si affaticava inutilmente a fare uscir fuori quegli intrusi, lo apostrofava:
— Don Marmotta! Ma che: prego, signori miei! Prendeteli per le spalle se non sanno l’educazione.
Allora parecchi soci si levarono da sedere, e cominciarono a spingere indietro la gente, che esitava e si voltava a guardare dopo aver fatto pochi passi, non sapendosi rassegnare a dover andar via senza cavarsi la curiosità.
Intanto il marchese aveva cominciato a parlare. Ora, anche per lui il processo era stato imbastito maravigliosamente. Il giudice istruttore, dapprima, era andato tastoni, senza lume, senza guida. Aveva poi trovato il filo conduttore, e le prove erano balzate fuori, chiare e lampanti.
— Ah, quel Procuratore del Re! Un fiume di eloquenza. Gelosia? Forza irresistibile? Chiudiamo dunque le prigioni e lasciamo assassinare la gente!... Qui ci troviamo davanti a una premeditazione di lunga mano!... Sì, o signori giurati, c’è la legge anche per coloro che disturbano l’altrui pace domestica, che insidiano l’onore delle famiglie! Se tutti volessimo farci giustizia con le nostre mani, addio società! Ognuno crede di avere ragione soprattutto quando ha torto. Soltanto il magistrato imparziale e giusto, perchè non interessato, soltanto i giudici popolari istituiti per questo scopo....
Sembrava che il Procuratore del Re fosse lui, e che quei soci, seduti in semicerchio là attorno, fossero i giurati che dovevano giudicare. La sua voce prendeva il solito tono alto, come quando egli teneva udienza lassù, nella spianata del Castello; e la gente messa fuori del salone e rimasta davanti a l’aperta grande vetrata poteva udirlo meglio che se fosse rimasta dentro, perchè la voce rimbalzava per la sonorità della volta e si faceva sentire vibrante fin dal centro della piazza.
— E così il povero avvocato della difesa si è vista chiusa la bocca prima di parlare... Oh, non già che non abbia parlato! Un’ora e mezzo, con furia di gesti, battendo i pugni sul tavolino... Se l’è presa anche contro i pezzi grossi che autorizzano con l’esempio le soperchierie dei loro dipendenti! Come se, in questo caso, il marchese di Roccaverdina avesse detto a Rocco: — Va’ a rubargli la moglie a Neli Casaccio! — Povero avvocato! Non sapeva dove sbatter la testa; armeggiava con le braccia e con la lingua, dopo che il Procuratore del Re gli aveva troncato anticipatamente i soliti argomenti. La gelosia! La forza irresistibile! Si capiva che parlava unicamente per parlare. E poi... voleva provar troppo. Processo d’indizi! Le testimonianze? — Ho sentito dire! — Mi è stato detto! — Ha minacciato! — È un uomo feroce; cacciatore di mestiere! Si può decidere della libertà di un cittadino su così fragili basi?...
E il marchese rifaceva la voce e i gesti dell’avvocato con evidentissimo accento d’ironica commiserazione, ridendo perchè i circostanti ridevano, lieto dell’effetto prodotto su coloro che dovevano sembrargli proprio i giurati, o altri giurati da giudicare in appello, tanto egli si animava nel ripetere le frasi più altisonanti e più comuni dell’avvocato, aumentando l’ironica intonazione fino alla ripresa del Procuratore del Re che volle parlare l’ultimo per dare il colpo di grazia!
— Una botta da maestro intanto l’aveva già data il nostro avvocato qui. Poche parole, ma sostanziose, ma gravi, di quelle che non ammettono replica...
Don Aquilante che, con le mani incrociate, gli occhi socchiusi, ora storceva le labbra, ora scoteva la testa, e sembrava di non accorgersi del mormorio di approvazione seguito alle parole del marchese, si scosse con un sussulto allo scatto di voce, che parve un tuono, con cui quegli rispondeva al dottor Meccio, detto San Spiridione non si sapeva perchè.
Il dottor Meccio, seduto proprio di faccia al marchese, era stato ad ascoltarlo a testa bassa, col mento appoggiato al pomo dorato della sua canna d’India quasi più lunga di lui; non si era mosso, nè avea fatto nessun altro segno di approvazione, nè riso come tutti gli altri. E rizzandosi improvvisamente su le interminabili magre gambe — la sua vecchia tuba pareva dovesse arrivare a toccar la vôlta del salone — avea sentenziato:
— L’han condannato a torto. È il mio parere.
Il marchese era scattato:
— Come a torto? Con tante prove? Che ne sapete voi?
— È il mio parere. I giurati non sono infallibili.
— Chi ha dunque ammazzato Rocco?
— Non lo ha ammazzato Neli Casaccio.
— Chi dunque? Ci vuole un bel coraggio a parlare così! Perchè non siete andato a dirlo al giudice istruttore quand’era tempo? Non vi rimorde la coscienza di aver lasciato condannare, secondo voi, un innocente? Ecco come siamo! — È il mio parere! — Ma il vostro parere non vale un fico contro la sentenza dei giurati! Il giudice istruttore è stato dunque un bestione? Il Presidente e i giudici della Corte di Assise sono stati pure bestioni? Chi è dunque l’assassino? Dov’è?
— Non vi scaldate troppo, marchese!
— Dite, dite: chi è stato l’assassino? Dov’è?
Il marchese, in piedi, pallido dalla collera, gesticolava, urlava, ripetendo:
— Chi è stato l’assassino? Dov’è?
— Può essere qui, tra noi, tra quella folla davanti la vetrata, e forse ride di me, di voi, dei giurati, dei giudici, della giustizia! E se dico una sciocchezza, lasciatemela dire! La parola è libera!
San Spiridione gli teneva testa imperterrito, mentre parecchi tentavano di condurlo via per por termine a quella scena sconveniente, e altri circondavano il marchese pregandolo di compatire un presuntuoso che diceva sempre no quando uno diceva sì, per vizio d’indole, per abitudine....
— E perchè me lo dice in faccia? L’ho fatto forse io il processo? L’ho discussa io la causa? L’ho condannato io Neli Casaccio?
E, tornato a sedersi, riprendeva la relazione daccapo, minuziosamente, referendo le testimonianze a una a una, e l’arringa del Procuratore del Re, e le arringhe degli avvocati....
— Tanto, a me che può importare se hanno condannato uno invece di un altro? È affare dei giurati, dei giudici della Corte.... Disgraziatamente, — conchiuse, — per gli assassinii che commettono i medici ignoranti non c’è processi nè Corte di Assise!...
Ma il dottor Meccio non potè rispondere a questa frecciata. Era andato via borbottando:
— Se il marchese si figura che il Casino sia la spianata del Castello!