Il Libro dei Re - Volume I/Prefazione

Prefazione

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Vita di Firdusi
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PREFAZIONE


È pazïente...

Quei sì che i giorni suoi sen va contando,

Poi che ad opera ingente ei diè la mano.

Firdusi (vol. VII)


Dire dell’importanza del Libro dei Re di Firdusi, di questo insigne monumento della poesia orientale, che narra, per uno spazio di due mila anni, tutta quanta la storia leggendaria di Persia, sarebbe qui cosa superflua, dopo quello che ne hanno detto in Italia il Gioberti e il Cantù, lasciando anche quanto su di esso è stato scritto dai dotti di altre nazioni d’Europa. In questi ultimi anni poi, e anche in questi ultimi mesi, i periodici più importanti d’Italia hanno fatto cenno della versione dell’intero poema da me condotta a termine dopo quasi diciotto anni di lavoro; onde v’ha luogo a sperare che il nome di Firdusi e del suo poema, ora che questo vien fatto di pubblica ragione, non riuscirà nome del tutto ignoto nè desterà sorpresa. Quanto poi alle origini e allo svolgimento dell’Epopea persiana e ai costumi degli eroi di Firdusi e ai diversi cicli epici e alle fonti delle leggende eroiche persiane, è argomento che con quell’ampiezza e diffusione che mi fu possibile, ho trattato in un libro che presto spero di pubblicare, col titolo di Studi intorno all’Epopea persiana, lavoro che recentemente ebbe l'onore di ottener metà il premio [p. viii modifica]reale, aggiudicato dalla R. Accademia dei Lincei. Lasciando dunque a quel mio lavoro di trattar le questioni storiche e letterarie che risguardano l’Epopea persiana, alla versione poetica del poema non ho creduto di premettere null’altro fuorchè la vita di Firdusi e il sunto di esso.

Questa versione mia, come ognuno potrà facilmente accorgersene, è fatta per tutti, non soltanto cioè per chi si dedica agli studi orientali, anzi meno assai per gli orientalisti che possono leggere nel testo il Libro dei Re, ma ancora, e anzi più, per tutti quelli che, non sapendo di lingue orientali, avranno caro tuttavia di conoscere i più cospicui monumenti delle letterature straniere. A tal fine, non ho ingombrato il libro di note, che, del resto, sarebbero superflue e inutili, poichè la narrazione procede limpida e chiara nè ha bisogno di spiegazioni. È libro di piacevole lettura e però si volle evitare tutto ciò che non essendo necessario, avrebbe potuto renderlo noioso e pesante. L’intento mio adunque si è quello di portare a conoscenza dei più questa poesia orientale, nuova per noi, maestosa, solenne, dolce e vibrata nello stesso tempo, che tanto si accosta al fare omerico, senza le stramberie delle liriche arabe e le esorbitanze dei poemi indiani. Quello che fu fatto per Ossian, per Goethe, per Schiller e per Heine, ho tentato di far io. Non oso dire di essere riuscito a tanto; posso dire tuttavia in coscienza di aver fatto ciò che ho potuto, e questo si vedrà della storia della versione stessa che farò più innanzi. Certamente ho udite voci discordi, perchè alcuni egregi, anche con vivo desiderio e intendimento di giovarmi, mi hanno sconsigliato [p. ix modifica]dalla difficile impresa. Molti altri invece, e sono di gran lunga i più, mi hanno fatto coraggio. Io ho seguito soltanto il forte impulso dell’animo mio, ho perseverato nell’opera consacrandole i più begli anni di mia vita, persuaso e convinto di riuscire; sono riuscito nel compierla, spero e credo che riuscirò nel diffonderla.

Del resto, anche quando uscirono le versioni di Ossian, di Schiller, di Goethe e di Shakespeare, in Italia, si gridò contro da tutte le parti per diverse ragioni; ma i giovani, sempre nobilmente bramosi di novità e inchinevoli ai facili entusiasmi, lessero avidamente quelle versioni. Quei giovani d’allora sono i vecchi del nostro tempo, e non v’è persona alquanto istruita che non sappia qualche cosa o di Amleto o del Re Lear o di Faust o della Fanciulla di Orleans. Io non voglio presumere di appellarmi all’avvenire; ho ferma fede soltanto che i giovani leggeranno Firdusi reso italiano, come meglio da me si è potuto, più che non farà la gente attempata. Ai giovani adunque che hanno cuore e sentimento, vada l’opera mia e a loro più specialmente si raccomandi.

La versione mia è stata condotta sull’edizione del testo fatta a Calcutta nel 1829 in quattro volumi da Turner Macan. Quantunque vi siano altre pregiate edizioni, come quella del Mohl di Parigi, quella già intrapresa dal Vullers a Leida, quella di Teheran, l’edizione di Calcutta è stata sempre considerata dai più come la più autorevole. Io l’ho resa per intero, eccetto i pochi brani segnati dagli asterischi, riconosciuti come non genuini, non senza però qualche rarissima volta accettare qualche lezione diversa data dal [p. x modifica]Mohl o da un celebre manoscritto del Libro dei Re che si conserva nella Laurenziana di Firenze (Catal. Assem. CII, 5). Mi sono state poi di grandissimo aiuto le correzioni fatte al testo dal Rückert che io ho accettate in grandissima parte (Zeitschrift der Deutschen Morgenländischen Gesellschaft, Bd. VIII u. X). La versione mia è la prima che si tenta in Italia, e, come versione poetica, è anche l’unica in Europa, esistendone soltanto una intera francese, ma in prosa, del Mohl, e una parziale in versi tedeschi dello Schack.

Il primo tentativo da me fatto di una versione del Libro dei Re fu quello del 1868 (Storia di Rustem e di Akván, episodio del Scháhánmeh di Firdusi, ecc.), pubblicato nella Rivista Orientale del Prof. De Gubernatis (Firenze, 1° marzo 1868). Io allora era alunno della R. Scuola Normale Superiore di Pisa. Più tardi, nell’agosto del 1870, presi a tradurre l’episodio di Sohrâb che uscì poi a Parma nel 1872, dopo avere avuto un premio dalla R. Scuola Normale Superiore di Pisa. Quell’episodio, Storia di Sohrâb, fu tradotto in gran parte a Langhirano, ricca borgata della provincia di Parma, in casa del signor Antonio Ferrari, uomo egregio, mancato pochi anni sono alla famiglia e agli amici.

A Parma, mentre io fui per otto anni professore in quel Real Collegio Maria Luigia, il lungo lavoro, quantunque con una certa lentezza, fu continuato, e in quel tempo ne mandai fuori un lungo saggio col titolo di: Racconti epici del Libro dei Re di Firdusi (Torino, E. Loescher, 1877). A Firenze, dal 1879 fino al 1885, essendo Vice-Bibliotecario della Laurenziana, la mia versione [p. xi modifica]procedette più rapida, e nel 1882 io ne diedi fuori un altro saggio col titolo di: Avventure di un Principe di Persia, episodio tratto dal Libro dei Re di Firdusi (Firenze, Successori Le Monnier). Intanto, come già a Parma da me si faceva lettura dei canti di Firdusi, man mano che venivano tradotti, in compagnia del Rettore del Collegio e di altri amici e ogni settimana quella lettura si ripeteva da me in casa del Conte Senatore Filippo Linati, uomo di lettere e di molta cultura; così, passato a Firenze nel 1879, feci pubblica lettura di alcuni passi della mia traduzione a quel Circolo Filologico nella sera del 26 aprile 1880 e del 2 aprile del 1883. Altre letture furono fatte di tanto in tanto in diversi ritrovi d’amici, una volta in casa Pozzolini e più volte ancora in casa di una colta e gentile signora, Angelina Puccio, alla presenza della Principessa Elena Koltzoff Massalsky (Dora d’Istria), del Senatore Andrea Maffei, del Prof. Giuliani, del Senatore Cipriani, del Prof. Stoppani, del Prof. Mantegazza, del Prof. Trezza, del Prof. Conte De Gubernatis, del Prof. Pelizzari, dell’illustre pittore Barabino e di molti altri. Altri saggi, ma molto brevi, della mia traduzione furono pubblicati ancor qua e là per i periodici di quando in quando.

Ma intanto io era già venuto alla metà del mio lungo lavoro, quando, coll’andar del tempo e per la maggior pratica acquistata nel tradurre, io veniva sempre più cambiando maniera. Da principio la mia traduzione andava troppo libera e qualche volta si permetteva di allontanarsi soverchiamente dal testo; ciò avveniva per una idea erronea che io aveva (e che non era mia soltanto), di doversi [p. xii modifica]cioè le cose orientali tradurre con tutta libertà. Ciò forse potrà dirsi per alcuni generi di poesia orientale, come di certe liriche arabe interamente repugnanti al buon gusto e al buon senso, ma non della poesia epica persiana, che ha un fare semplice e naturale, come in generale è di tutte le antiche epopee. I saggi pubblicati peccano tutti di questo errore, e se ciò fu da altri riconosciuto, io prima di tutti gli altri lo riconobbi, quando, a principio del 1882, facendo forza a me stesso, dopo essere giunto a metà del lavoro (a un 60 mila versi circa) distrussi tutto il già fatto e ricominciai da capo. Se quello fu un momento di dolore, dopo me ne trovai contento, e l’illustre Maestro Giuseppe Verdi, al quale nell’estate del 1884 raccontai la cosa, mi disse queste parole: «Ella ha fatto benissimo. È necessario sapere anche disfare!» Se quello adunque fu un errore, io ne ho fatta di mia elezione la penitenza. Da quel momento fu un lavoro continuo, indefesso, quasi febbrile, mentre io contavo i mesi e i giorni per ritornare al punto dal quale m’era voltato indietro, tenendo sempre in mente quello che Firdusi dice di sè stesso:

È pazïente...

Quei sì che i giorni suoi sen va contando,

Poi che ad opera ingente ei diè la mano.

Così potei mantenermi più fedele al testo, e la traduzione mia, rifatta alla nuova maniera, spero che sia riuscita omogenea ed uguale. In diciotto anni di lavoro si può cambiare e si cambia veramente nel modo di fare e di pensare. Così avvenne che alcuni lunghi tratti del Libro dei Re furono da me tradotti fin tre volte, come feci di [p. xiii modifica]tutto il regno di Minôcihr, che fu tradotto dapprima nel 1876, poi nel 1882, poi nel gennaio del 1886. In prova di che, se ne vegga, come saggio, il principio:

Versione del 1876 (pubblicata nel 1877 nei Racconti Epici):

Poi che di sette giorni ebbe concesso

Lo spazio al duolo per l’estinto sire
L’illustre Minocìhr, quando pel cielo
Al dì ottavo salìa più bella e chiara
Del sol la lampa, al capo ei fe’ ornamento
Del regal serto e si locò sul trono
De’ padri suoi. Del mal tutte ei precluse
Le vie con arte, e sapïenza e amore
Fûr la sua guida, sì che lieto il lungo
Corso mirar potè di cento e venti
Anni sereni, tutte governando
De’ mortali le stirpi. A piè del trono
Gli eroi tutti ed i prenci che le ricche
Città reggean dell’ampia terra, al suolo
Inchinando la fronte, il regio ostello
Tutto echeggiar facean delle sue laudi,
Ed ei, che cinta la regal corona
Avea in quel giorno, dischiudendo il labbro
A un lieve riso, così in questi accenti

A que’ lor voti rispondea cortese.

Versione del 1882:

Poi che di sette giorni ebber concesso

Lo spazio al duolo per l’estinto sire
D’Irania i prenci e il pianser dolorosi,
Venne e si cinse Minocìhr sul capo
La corona dei re, quando spuntava
L’ottavo dì. Con possenti scongiuri
L’arti egli vinse di magia; per cento
Giri di sole e venti ancor si volse

Età per lui. Ma de la terra in pria
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Tutti gli eroi tutti i possenti a gara

Gli fer laudi sommesse, ed ei che cinta
La corona si avea, di sua giustizia,
Di suo valor, di sua bontà, di sua
Pietà, del suo saper volle gioconda
Novella a tutti annunzïar. Si volse
Ai prenci che d’età, fra lor, di grado

Eran diversi nel suo regno, e disse.

Versione del 1886:

Passar que’ grandi sette giorni, ed ebbero

Tutti affanno e dolor. Ma al giorno ottavo
Minocihr venne, e la regal corona
Si pose in fronte. Co’ scongiuri suoi
Le porte ei chiuse di magia; di lui
Due fïate sessanta furon gli anni,
Quando tutti gli eroi dell’ampia terra
D’un moto l’acclamâr benedicendo.
Com’ei si pose la regal corona
Alta sul capo, a tutto il mondo attorno
Lieta novella ei diè di sua giustizia,
Di sua grazia e valor, di sua rettezza,
Di sua bontà, di sua scïenza, e disse
A tutto il popol suo, per la sua terra

A quanti erano prenci o grandi o servi.

Il lettore avrà visto la differenza che corre fra le tre maniere di tradurre. È inutile il dire che l’ultima, oltre all’essere la più breve, è anche la più fedele al testo.

Quest’ultima versione del regno di Minôcihr fu da me fatta nel gennaio del 1886, perchè mi era riserbato di tornarvi sopra, appena finita la versione dell’intero poema. Questa, invece, fu terminata precisamente nel giorno 31 dicembre 1885, dopo due mesi che dalla Laurenziana di Firenze io era passato alla R. Università di Torino. [p. xv modifica]

Terminata la lunga versione, i principali giornali e periodici d’Italia ne diedero la notizia, e io ringrazio ben di cuore il Prof. G. Barzellotti della R. Università di Roma di ciò che egli ha scritto sulla versione mia, con tanta indulgenza, nella Cronaca Bizantina. Mi rivolsi allora ai principali Editori, e persone rispettabilissime insistettero presso di essi, raccomandando perchè qualcuno di loro pigliasse a cuore questa lunga pubblicazione dell’intero Libro dei Re, notando che sarebbe stata impresa di non piccolo onore per l’Editore stesso. Ebbi da tutti encomii e lodi e parole di ammirazione, ma nulla di più, onde accadde a me quello che accadde a Firdusi, che ebbe lodi da tutti e nessun aiuto. Egli dice infatti:

Altro che un «Bene hai fatto!» era la mia

Parte assegnata, e il vigor mio, per quello
«Bene hai fatto!», scemavasi frattanto

E si perdea.

Così passarono più di tre mesi, perduti in vani e inutili tentativi. Io voleva preferibilmente pubblicare qui a Torino il mio lavoro, anche per poter meglio sorvegliare la stampa, essendo sul luogo; tuttavia io già stava per rivolgermi alla Casa dei Successori Le Monnier di Firenze, dalla quale ebbi agevolezze e favori, quando a liberarmi dalle incertezze e dall’angoscia dell’animo venne inatteso l’aiuto efficace e generoso di una persona amica. Il Cav. Prof. Sac. Luigi Grillo, Direttore-proprietario di un fiorente e reputato Istituto di Scuole secondarie qui in Torino, mi si offerse spontaneamente di aiutarmi nella stampa [p. xvi modifica]del Libro dei Re; per lui soltanto il mio lungo lavoro può ora uscire alla luce, e io qui gliene rendo pubblicamente dovute e sentite grazie. Tentammo insieme un’associazione; mandammo fuori le schede, e il risultato fu tale in breve da potersi pubblicare la prima dispensa non già in ottobre di quest’anno, come si era detto nel programma di associazione, ma bensì in giugno.

Se ora dovessi esprimere ciò che sento nell’animo mio in questo momento di prova, direi che sento non poca trepidazione; ma a questa trepidazione sta accanto una fiducia grande, che è quella data dalla coscienza di aver fatto ciò che io poteva, fiducia rafforzata in me dall’approvazione di persone illustri (e voglio qui ricordar soltanto Andrea Maffei, che giudicò, per sua bontà, molto favorevolmente il mio lavoro) e dalla festosa accoglienza che tanti hanno fatto all’annunzio della mia pubblicazione.

A queste persone amiche io la raccomando, e più ancora la raccomando alla gioventù, che nel canto di Firdusi troverà una nobile poesia che le parlerà potentemente alla fantasia e al cuore.


I. Pizzi.



Torino, 1° giugno 1886.