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— XII —

cioè le cose orientali tradurre con tutta libertà. Ciò forse potrà dirsi per alcuni generi di poesia orientale, come di certe liriche arabe interamente repugnanti al buon gusto e al buon senso, ma non della poesia epica persiana, che ha un fare semplice e naturale, come in generale è di tutte le antiche epopee. I saggi pubblicati peccano tutti di questo errore, e se ciò fu da altri riconosciuto, io prima di tutti gli altri lo riconobbi, quando, a principio del 1882, facendo forza a me stesso, dopo essere giunto a metà del lavoro (a un 60 mila versi circa) distrussi tutto il già fatto e ricominciai da capo. Se quello fu un momento di dolore, dopo me ne trovai contento, e l’illustre Maestro Giuseppe Verdi, al quale nell’estate del 1884 raccontai la cosa, mi disse queste parole: «Ella ha fatto benissimo. È necessario sapere anche disfare!» Se quello adunque fu un errore, io ne ho fatta di mia elezione la penitenza. Da quel momento fu un lavoro continuo, indefesso, quasi febbrile, mentre io contavo i mesi e i giorni per ritornare al punto dal quale m’era voltato indietro, tenendo sempre in mente quello che Firdusi dice di sè stesso:

È pazïente...

Quei sì che i giorni suoi sen va contando,

Poi che ad opera ingente ei diè la mano.

Così potei mantenermi più fedele al testo, e la traduzione mia, rifatta alla nuova maniera, spero che sia riuscita omogenea ed uguale. In diciotto anni di lavoro si può cambiare e si cambia veramente nel modo di fare e di pensare. Così avvenne che alcuni lunghi tratti del Libro dei Re furono da me tradotti fin tre volte, come feci di