Il Libro dei Re - Volume I/Il re Dahâk/V

Il re Dahâk - V. - Partenza di Frêdûn

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Il re Dahâk - IV Il re Dahâk - VI
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V. Partenza di Frêdûn.

(Ed. Calc. p. 38-42).


     Parve il sole toccar pel cielo errante
Fredùn col capo altero, alla vendetta
825Del padre accinto, e uscì festoso e lieto
Nel giorno di Khordàd, con sorte amica,
Con lieto augurio. Alle sue soglie innanzi
Stuol s’accolse d’eroi; le nubi in cielo
Rasentò veramente il trono eccelso
830Ov’ei sedea. Ma gli elefanti e l’ampia
Schiera de’ tori precedea con ricca
Provvigione allo stuol de’ suoi guerrieri.
Keyanùsh e Purmàyeh erano al fianco
Del novello signor, lieti, devoti

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835All’amor suo, qual se minori a lui
Fosser degli anni. Ed ei partìa, scendendo
Come turbo invasor di loco in loco,
Piena la mente d’un pensier di truce
Vendetta, pieno il cor d’alta giustizia.
840Sugli arabi destrier, velocemente
Sospinti in corsa, venne a un loco ameno
Quel drappello d’eroi, là ’ve una gente
Vivea, devota a Dio. Scese in quel loco
Di penitenti solitari e antichi
845E un saluto invïò Fredùn possente
Con lieto core. E allor che in ciel la notte
Si fe’ più oscura, da quel loco a un tratto
Venne persona amica. Avea le chiome
Nerissime disciolte in fino al piede,
850Volto leggiadro qual dell’alme elette
Che stanno in ciel. Di Dio veracemente
Era un angiol costui, di paradiso
Quaggiù disceso, perchè al re novello
Tutte ei svelasse le leggiadre cose
855E le malvagie ancor. Vennegli innanzi
Quale alata Perì, nascostamente
Di magic’arti gli svelò le ambagi,
Chiave che scioglie ogni periglio o danno,
Con arcano poter per ch’egli aprisse
860Ogni mistero, ogni nascosta cosa.
E Fredùn ben conobbe esser divina
Opra cotesta, non inganno o frode,
Non Ahrimàne, e s’allietò, fe’ rosse
Le gote ancor, chè giovinetto egli era
865Di membra e in suo poter più nuovo ancora.
Ma i regi scalchi gli apprestâr frattanto
Lauta una cena e gl’imbandîr la mensa
Degna di sì gran re. Poi che consunto
Fu il cibo apposto, altro desìo gli venne;
870Grave si fe’ quel capo augusto, e sorse

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Brama possente in lui di un dolce sonno.
     Ma i fratelli di lui che la divina
Apparizion vedean, l’opre leggiadre
E la fortuna di Fredùn propizia,
875D’un moto si levâr, tenner consiglio
Di trarlo a morte. In que’ deserti lochi
Era un gran monte e su quel monte un’alta
Rupe scoscesa, e que’ malvagi, due
Fratelli suoi, lungi dagli altri tutti,
880Nascosti a ognun, del solitario monte,
Sotto al qual dolcemente riposava
Re Fredùn giovinetto, allor che scorsa
Non fu lung’ora della tarda notte,
Ratto salîr la cima; e niun sapea
885Lor disegno perverso. Una gran pietra
Scrollàr dall’ime basi; e poi che niuno
Vedean confine al perfido desìo.
Poi che divelta fu la pietra immane
Che alla fronte colpir dovea d’un tratto
890Il nuovo re, giù la mandâr dall’alto
Con immenso fragor. Vider già spento
L’addormentato. Ma quell’uom prestante
Che nel sonno giacca, fu dall’immenso
Fragor riscosso del cadente sasso,
895Di Dio per volontà. Quella celeste
Arte appresa in tal dì, sul loco ov’era,
Fermò d’un tratto la rotante pietra,
Nè quella più si mosse. Il glorïoso
L’armi si cinse allor, nè dell’evento
900Volle far motto ai due malvagi, e in via
Si pose. Il precedea dinanzi a tutti
Kàveh ardito e leal. Pieno era il core
D’un feroce desìo d’aspra vendetta
Contro a Dahàk; di Kàveh alto il vessillo,
905Vessillo d’un gran re, spiegato al vento
Ei sostenea per quel dirotto calle,

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Fin che d’Arvènd a la regal riviera
I passi ei soffermò, qual uom che cerca
Gloria e corona imperial. — Se lingua
910Pehlèvica non sai, l’arabo nome
D’Arvènd è Dìzleh. — Ma quel re possente
La terza stazïon del suo viaggio
Fe’ su le sponde di quell’ampio fiume,
Di Bagdàd fra le mura. E poi che giunse
915Dell’Arvènd risonante all’erme sponde,
Un saluto ei mandò lieto e cortese
Ai portolani. Or voi, disse, da questa
Parte del fiume navicelli e barche
Mandate in fretta, e me con questi eroi
920Passate all’altra sponda e niun qui resti!
     Ma i portolani navicelli e barche
Non vollero apprestar, nè a quella prece
Si movean di Fredùn, ma ben risposta
Diergli in tal guisa: Di quest’ampia terra
925Il supremo signor grave comando
Ne fe’ in secreto: «Navicelli e barche
Mai non darete voi, disse, ove un cenno
Da me non venga col regal suggello».
     Grave uno sdegno concepì nel core
930Questo ascoltando il giovinetto sire,
Nè gli venne timor per quel profondo
Fiume sonante. La regal sua vesta
Si strinse ai fianchi, alto salì in arcioni,
E pieno d’un desìo di gran vendetta
935E di aperta tenzon, spinse nell’onde
Il nobile destrier, d’un color vago
Come di rosa alla stagion più bella.
     Strinsero allor le fulgide cinture
I suoi compagni, e l’uno dietro all’altro
940Nel fiume si gittò sul suo destriero,
Benedicendo, e dentro alle spumose
Onde del fiume fino all’ardua sella

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Animoso s’immerse. Ecco! destavasi
Dal suo torpor de’ principi la mente,
945A quel nuotar de’ lor destrieri. In alto
Si tenean dessi con gli eretti corpi,
Come fa il sol che della notte l’ombre
Squarcia fuggenti. Alfin, l’opposta riva
Attinser tutti, di pugnar bramosi,
950Indi a le mura dirizzâr lor passi
Di Beyt-el-Mukaddès. — Quando la gente
Pehlèvico sermon parlando usava,
Gang i Dizh-hùkht quella città famosa
Si dicea; ma nell’arabo sermone
955Essa è Casa di Dio. Sappi tu adunque
Che là di re Dahàk sorgean le case.
     E poi che dal deserto alle bastite
Si avvicinàr della città superba,
D’aver preda bramosi in quelle mura
960I nuovi eroi, levò, ben che lontano
D’un miglio ancor, gli occhi lucenti il sire,
E dentro alla città d’un gran palagio,
Degno di re, vide le torri. Gli astri
Quella dimora superar parea,
965Parea che giù dal ciel gli astri lucenti
Rapir dovesse quell’altezza. Il loco
Splendea di Giove come l’astro in cielo,
Ostel di voluttà, d’amor, di gaudio
E di quiete profonda. Era cotesta
970Dell’uom de’ serpi la dimora, e il seppe
Fredùn e ben notò qual si spiegava
Magnificenza e regal fasto in quelle
Case superbe, sì che, volto a’ suoi,
Temo, compagni miei, disse, che l’uomo
975Che al cielo sollevò dal suol profondo,
Dalla terra deserta e tenebrosa,
Mole si eccelsa, per secreto patto
Gol destino si afforzi. Or però dentro

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Meglio è per noi gittarci alla ventura,
980Che indugiar timorosi e titubanti.
     Disse, e la man distese poderosa
Alla clava pesante e sovra il collo
Del suo destriero abbandonò le briglie.
Parve che fiamma veramente ei fosse
985Che s’avventasse del regal palagio
Ai guardïani incontro. Allor ch’ei tolse
La clava dall’arcion che vi pendea,
Detto ciascuno avrìa che il suol profondo
Piegava sotto a lui. Ma i guardïani
990Su quella porta non restarno allora,
E re Fredùn invocò Iddio possente.
     Entrò col suo destrier nel gran palagio
Il novello campion, di questa vita
Non bene esperto ancor, ma grande e forte,
995E un talismano che Dahàk superbo
Avea là posto e fino al ciel sospinto
Il vertice ne avea, dall’alta base
Ei fe’ cader precipitoso al suolo,
Ch’ei vide si che non di Dio nel nome
1000Era levata la gran mole. Quella
Clava nodosa, con la testa in cima
D’una giovenca, egli volgea frattanto
E forte la battea sul colmo petto
Di quanti incontro gli venìan. Di quanti
1005Maghi ei vedea nelle riposte soglie,
Di quanti egli scoprìa Devi perversi,
Ei sfracellava con la sua possente
Clava la testa eretta in alto. Il seggio
Di Dahàk ei salìa, di quell’impuro
1010Di magic’arti gran maestro, e il soglio
Ne premendo col piè, ne cercò il serto
Di prence e di signor, su quell’eccelso
Trono si assise. Ma, frattanto, innanzi
Gli traean da le stanze più riposte

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1015Le nobili fanciulle. Avean nerissimi
Occhi e volto di sol. Ne fe’ con pura
Onda lavar la bianca fronte e il corpo
Il giovinetto sire, indi lor mente
Liberò da ogni error, quella diritta
1020Via che a nostr’alme addita Iddio, mostrando
Con cura intenta, e delle colpe antiche
Via lavando ogni macchia. E veramente
D’idolatri superbi erano alunne
Le leggiadre fanciulle, e avean nell’alma
1025Un turbamento qual di gente oppressa
Da vin gagliardo. Allor, le due sì vaghe
Sorelle di Gemshìd, prence del mondo,
D’umor bagnando giù dagli occhi bruni
Le rosee gote, sciolsero parola
1030Favellando a Fredùn: Possa tu, o prence,
Giovinetto restar, mentre più antico
Rendesi il mondo a ogni novella luce!
Oh! fortunato! Qual la stella tua
Che qui t’addusse? Di qual pianta eletta
1035Frutto sei tu sì rigoglioso e bello?
Tu, che venisti al formidabil covo
D’un feroce leon, d’uom vïolento,
Crudele e rio? Per quanto tempo a noi
Volse nel mal la sorte nostra avversa,
1040Dir non possiam, di questo mago insano
Per l’opre abbominose. Oh! quanti giorni
Passammo nel dolor, nella sventura,
Per questo figlio d’Ahrimàn superbo
Che ha due serpenti in su le spalle! Un prode
1045Mai non vedemmo qui che tanta avesse
Fermezza in cor, che tanto ardir mostrasse
E tal virtù, che sollevasse a questo
Regal trono la mente, o che d’un tratto
Il prendesse desìo di regio stato.
1050     Umana sorte mai non dura eterna,

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Non regal seggio, rispondea quel prode,
All’uom quaggiù. Ma figlio giovinetto
D’Abtìn illustre qui son io, che il fiero
Dahàk rapiva dall’iranio suolo
1055Ed uccidea miseramente. Io vengo
La sua vendetta a domandar, drizzando
Verso il trono dell’empio i fermi passi.
Ei pur mi uccise quella che sui monti
Col latte mi nudrì, fatal giovenca
1060(Birmàyeh si dicea), lei, che sul corpo
Avea di tinte artificiose e belle
Vago ornamento. Ei l’uccidea, nè chiaro
E a me qual ebbe il truculento sire
Frutto dell’opra sua, quella giovenca,
1065Muta e innocente, trucidando. Or io
L’armi cinto mi son, d’un fiero assalto
Con lui bramoso, e per l’irania terra
Qui men venni però. Con questa clava
Che in lucido metal d’una giovenca
1070Reca a sommo la testa, io su la fronte
Colpo fatai gli vibrerò, nè grazia
O favor gli farò. — Dunque tu sei,
Gridò Ernevàz, come ascoltò que’ detti
Del giovane signor, poi che svelato
1075Era il secreto omai, dunque tu sei
Re Fredùn giovinetto, e se’ quel forte
Che di magìa disperderà le impure
Arti e gl’inganni. Di Dahàk la morte
Si sta nella tua man; franchigia attende
1080Questa terra da te. Noi pur siam figlie
Di re possenti, d’ogni colpa immuni,
Cui di morte timor fe’ sottomesse
All’empio sire. Ma posar, levarsi
Con uom che di serpente ha le sembianze,
1085O re, chi mai potrebbe? — E di rimando
Re Fredùn rispondea: Se veramente

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Mi fa giustizia Iddio dall’alto cielo,
Ogni vestigio del reo serpe in terra
Io sì cancellerò, libero il mondo
1090Da cotal peste per me andrà. Ma voi
Dite, o fanciulle, il ver; dite ove sia
L’uom dispregiato de’ serpenti. — Allora
Tutto gli aprîr le fanciulle vezzose
L’alto secreto. Se a te fia concesso
1095Entro la force, gli dicean, del tristo
Serpe la testa rinserrar, ch’ei scorre
D’India la terra, altri narrò. Vi corse
Riti arcani a compir, là nelle case
Di gente addetta a magic’arti. A mille
1100Innocenti ei torrà la cara vita,
Ch’ei trema pel destin che lo minaccia
Da molti e molti giorni. E un dì gli disse
Un uomo accorto e sapïente: «Ratto
Sgombra di te sarà quest’ampia terra,
1105E Fredùn piglierà l’alto tuo loco.
E già cade e precipita la sorte
Che fin qui ti sostenne». Or pien di fuoco,
Pien di rabbia è quel cor per tal presagio,
Grave e incresciosa è la sua vita. E intanto
1110Uomini e donne ed animanti il crudo
A morte adduce in sua stoltizia, il sangue
In una conca ne versando, e quivi,
Entro a quel sangue, le sue sozze membra
Tuffando va perchè degl’indovini
1115L’augurio cada. Ma que’ negri serpi,
Su le sue spalle, orribile prodigio
Son di lungo tormento. Egli da questa
A quella regïon passa furente,
Nè in loco alcun trova riposo, tanta
1120Gli viene angoscia da que’ mostri. E intanto
Di suo ritorno tempo è giunto. Oh! mai,
Mai non si avveri il suo venir fra noi!

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     Così, col core affranto, ogni secreto
Aprìano a lui le nobili fanciulle,
1125E il racconto ne udìa l’inclito sire.