Idilli (Teocrito - Romagnoli)/XX - Il bifolchetto
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XX
IL BIFOLCHETTO
Eunice mi scherní, mentre io la volevo baciare
soavemente, e m’offese. «Da me va lontano — mi disse —
povero diavolo. Sei bovaro, e vorresti baciarmi?
Baciar non so bifolchi: soltanto so premere labbra
di cittadini. Tu, baciar non potrai la mia bocca
bella, neppure in sogno. — Che vaga presenza è la tua!
Che parlantina sciolta! Che urbane facezie, sai dire!
Come sai far lusinghe, che frasi incantevoli adopri!
Come la barba hai molle, com’hai delicate le chiome!
Sono le labbra tue tutte sudice, hai nere le mani,
sei puzzolente: va’ lungi da me, ché da presso mi sporchi».
E si sputò, cosí dicendo, tre volte nel seno.
Poi, tutto mi squadrò, dalla testa giú giú, sino ai piedi,
facendo uno sberleffo coi labbri, e guardandomi storto;
e mi rideva di gusto sul muso, mostrandomi i denti,
con una ghigna spocchiosa. Il sangue mi prese a bollire,
e per il cruccio, in viso divenni di porpora, come
per la rugiada una rosa. E quella, mi lascia, mi pianta.
Ed io mi rodo il cuore di bile, perché m’ha beffato,
galante come sono, cosí, quella trista sgualdrina.
Ditemi voi, pastori, placate il cuor mio: non son bello?
o d’improvviso m’ha qualche Nume cangiato in un altro?
Fioriva or or soave calugine a me su le gote,
come ellera sul tronco, nutriva la folta mia barba;
scendeva a me come apio la chioma d’intorno alle tempie,
sotto le negre ciglia bianchissimo il volto brillava,
molto piú fulgidi gli occhi di quelli cerulei d’Atena,
della giuncata le membra piú tenere, piú dalla bocca
la voce a me soave fluiva che il miel dalla cera.
Su la zampogna io so modular fioriture soavi,
suonare, vuoi chiarino, vuoi piffero, o flauto traverso.
E tutte quante, pei monti, le donne mi dicono bello,
mi bacian tutte quante. Ma quella, perché cittadina,
non m’ha baciato, me bifolco. È scappata. — E non sai
che Bacco anch’egli suole sospingere al piano le manze?
Per un bovaro non sai che Cípride perse la testa,
e anch’essa pascolò pei monti di Frigia i giovenchi,
che pei querceti Adone baciò, pei querceti lo pianse?
Endimïone, chi era? Non era un bifolco? E Selene
lo amò, mentre egli i buoi pasceva: discese d’Olimpo,
venne di furto allo speco, dormí col diletto fanciullo.
Piangi un bovaro anche tu, Demètra. E tu, figlio di Crono,
per un fanciullo bovaro non ti tramutasti in augello?
Euníce sola non ha voluto baciare il bifolco:
ella si tiene piú su di Selene, di Cipri e di Rea.
Cípride, l’amor suo baciare in città mai non possa,
né per i monti; sola dormir possa tutta la notte.
Nota
XX
IL BIFOLCHETTO
È reputato spurio, in base a considerazioni diplomatiche (nel gergo filologico diplomazia vuol dire «stato dei codici»), linguistiche, e metriche, le quali hanno certamente il loro peso. Ma quelle d’altro ordine addotte dai benemeriti filologi, non mi sembrano definitive.
Il contrasto fra la gente di città e la gente di campagna — essi dicono — non è tèma teocriteo. — Ma applicando con un po’ di sottigliezza e un po’ di buona volontà simile criterio, si arriverebbe facilmente a dimostrare che nessuno degli idilli appartiene a Teocrito. — Le comiche considerazioni del pastore deluso in amore ricordano quelle del Ciclope. Ma in ogni poeta è facile trovare simili doppioni; e Teocrito non fa eccezione. — Non v’è accenno a precisa «localizzazione». Ma quanti altri idilli di Teocrito non ne sono privi?
Sta di fatto che questo è d’una vivacità e d’una grazia incantevoli, anche se non regge il confronto coi capolavori di Teocrito. È anch’esso macchiato dalla sua brava mitologia; ma non è questa, purtroppo, una buona ragione per contenderne la paternità al dolce poeta di Siracusa.